Quando nel luglio 1977 Editoriale Corno pubblicò come supplemento al numero 111 di Capitan America l’albo 2001 Odissea nello spazio, anche noi italiani ci rendemmo conto che stavamo assistendo a un incontro unico.
“Stan Lee presenta” – come d’abitudine, all’epoca – un’opera scritta e disegnata da Jack Kirby (inchiostrato da Frank Giacoia, supervisione di Archie Goodwin e Marv Wolfman) che è la riproposizione a fumetti del film monumentale scritto da Arthur C. Clarke, con Stanley Kubrick sia regista che produttore esecutivo.
Se dalla storia del cinema sappiamo bene che ci vollero cinque anni e la cifra per l’epoca record di 10 milioni e mezzo di dollari di budget per portare a compimento il capolavoro del cinema di fantascienza – uno dei film più “visivi” della storia del cinema – la cronaca non ha invece tramandato il lavoro che fece “il Re” per creare la sua versione di 2001. Un albo di 70 pagine, formato tabloid (circa il triplo di un normale albo di supereroi), che racconta tutto il film scena per scena. E non dev’essere stato un lavoro da poco.
L’approccio di Kirby è molto più convenzionale di quello di Kubrick. Mentre il regista fonde tre grandi miti (l’origine dell’uomo, l’incontro con la vita intelligente del cosmo e l’odissea) e sceglie un registro prevalentemente visivo, Kirby invece spiega tutto. Non si tratta di un particolare da poco. La volontà di Kubrick di non spiegare bensì di mostrare, alludere, lasciare immaginare, è la cifra di 2001. Il film ne risulta a tratti criptico e, alla sua uscita, venne accolto freddamente dalla critica sia per il soggetto inedito (la fantascienza d’autore pareva una contraddizione in termini) che per l’approccio “difficile”. Lo stesso Kubrick dichiarò:
«Non mi piace parlare di 2001 perché si tratta soprattutto di una esperienza non verbale. Più di metà del film non ha dialoghi. Il film stesso cerca di comunicare più con il subconscio e le sensazioni che non con l’intelletto. E ascoltando non ricavano molto con questo film. Coloro che non credono ai loro occhi non saranno in grado di apprezzarlo […] Ho cercato di studiare le cose in modo che nel dialogo non venisse detto niente di importante e che qualsiasi cosa importante del film venisse trasmessa in termini di azione.»
Kubrick credeva nel valore della conoscenza che nasce in modo intuitivo ed emotivo, contrapposta a un modo di procedere logico-etico. Per questo 2001, che narra forzando l’approccio visivo ed eliminando la parte razionale di racconto “accanto” alle immagini (nei dialoghi, nel voice over, nelle didascalie e sottotitoli) creò parecchio scompiglio all’epoca e tutt’ora divide il pubblico. È un capolavoro, ma a parte dei suoi spettatori in realtà disturba, non ‘piace’. Tutto l’opposto del fumetto.
Lo “spirito geometrico” dei grandi artigiani del pulp e dei comics, nati nella fucina americana della cultura popolare a cavallo della Seconda guerra mondiale, è invece tutta all’opposto. E non potrebbe essere diversamente: la macchina dei generi prevede per la letteratura popolare un impegno pedagogico anche nell’escapismo, e soprattutto una volontà di essere serenamente didascalici.
Bisogna che la gente li paghi quei cinque centesimi, e allora niente spazio alle sperimentazioni formali, al simbolismo funambolico, alla prova autoriale che diventa incomprensibile. Il fumetto pop e pulp sa rischiare, ma all’interno di confini ben precisi. È una legge non scritta che i comics dei supereroi interpretano in maniera perfetta. E Jack Kirby, che di questo mondo è uno dei padri fondatori, ne è totalmente impregnato.
Lo status di capolavoro dimenticato del suo adattamento a fumetti di 2001 è, allora, in parte anche questo: ha reso razionale e razionalmente intelligibile uno dei film meno “spiegati” della storia del cinema. Ne ha afferrato gli elementi visivi, i simbolismi, le sequenze, e le ha riprodotte con certosina precisione, ma filtrandole non solo con il gusto grafico del fumetto, bensì anche con la sua razionalità sul piano narrativo. E quindi, vai di spiegazione in ogni tavola, in ogni sequenza, in ogni vignetta.
Dove Kubrick allude e mostra, dove iconeggia, non spiega e non dice, Kirby invece dettaglia e rendiconta, illustra e tratteggia. Rendiconta la trama, illustrandone tutti i tratti, in modo tale che non ci siano punti che possono rimanere oscuri anche al lettore meno attento. Perché è un fumetto e la regola d’oro è di essere più diretto, esplicito e lineare di un manuale di divulgazione.
Alla fine della prima lettura del fumetto, la sensazione è che finalmente si capisce bene ogni singola parte di 2001, un film in cui, diciamocelo serenamente, si tende a perdere facilmente il punto della storia. Kirby disambigua passaggi che la sceneggiatura del film (a cui aveva accesso anche in versioni precedenti a quella utilizzata per girare il film, così come alla prima versione romanzesca di Clarke) aveva trasformato in semplici e ambigui scambi visivi, recupera battute e ne aggiunge altre, soprattutto le onnipresenti didascalie. E lavora poi di cesello sulla scelta delle inquadrature.
Dove invece entra l’effetto comics è in due aspetti squisitamente visivi: i colori – che sono, in maniera decisa e appassionata, da albo supereroistico psichedelico e surreale, e non c’entrano niente con il film – e nei volti e pose dei personaggi.
Sebbene, seguendo la strada visiva del regista e il suo modo di ritagliare gli spazi, Kirby in buona parte riproponga le stesse visioni e posture di 2001, in realtà disegna tipici personaggi anni Settanta da fumetto Marvel o DC. Stessi volti, stessi fisici statuari, stesse espressioni sbigottite o arrabbiate o sovrappensiero, a seconda di cosa la sceneggiatura richieda ai comprimari.
Fra le critiche avanzate a Kubrick c’è stata anche quella di aver tolto qualsiasi tensione sessuale nel film, sostanzialmente eliminando i personaggi femminili, ma l’accusa è facilmente smontata per la dimensione onirica e psicologica di 2001, che niente ha a che fare con fantasie erotiche. Kirby è fedele a questa linea e, se fisiologicamente semplifica tagliando le scene non necessarie (niente tutorial a fumetti su come si usano i gabinetti a gravità zero), d’altro canto opera anche una interessante inversione.
“Parla” e spiega moltissimo nella prima parte (gli scimmioni nostri progenitori, cioè la nascita dell’uomo) e nell’ultima parte (la trasformazione dell’astronauta nel figlio delle stelle) ma diviene lirico visivamente solo in quest’ultimo pezzo, che viene approfondito e in qualche modo disvelato in maniera più corposa delle altre, quasi Kirby cercasse di trovare un senso da porgere al pubblico nel segmento meno lineare di tutto il film. Qui abbondano le tavole doppie e le didascalie, immagini commoventi in cui Kirby cerca di tenere dietro al maestro Kubrick ma, semplicemente, gioca su troppi piani contemporaneamente (logico ed emotivo, visivo e didascalico) e non riesce ad evocare l’ineffabile con la stessa leggerezza ed eleganza con cui lo fa Kubrick.
Kirby, che deve anche inserire alcuni “inserti fotografici” nelle sue tavole per cercare di ridare “effetto cinema” al suo lavoro (intento che però fallisce da un punto di vista grafico e visivo), abbandona la partita lasciando ai posteri un pezzo da maestro, un’opera di pensiero che cerca di spiegare e interpretare uno dei capolavori del cinema contemporaneo.
Certo rimane un lavoro laterale di Kirby, ma al tempo stesso molto più che non una semplice operazione commerciale di “fumettizzazione” dell’ultimo film. Kirby non scioglie alcune ambiguità volutamente lasciate tali da Kubrick, come ad esempio il problema (per parte della critica) delle motivazioni reali degli assassini perpetrati da Hal 9000. Motivazioni che il regista stesso dichiarò più volte di non voler spiegare, mentre Arthur C. Clarke aveva cercato di interpretare ma senza arrivare a cogliere la stessa, gelida profondità cinematografica ispirata dalla logica digitale e aliena della macchina.
E Kirby? Qui l’autore non cerca di interpretare, non aggiunge, non spoglia di ambiguità la macchina che pensa, contribuendo in questo modo a lasciare sostanzialmente immutato (e potente) il messaggio del film di Kubrick. Perché, piace pensare, tra grandi artisti si capivano “di pancia”, senza bisogno di spiegazioni.
Il lavoro di Kirby resta dunque un pezzo unico nella produzione del Re, quasi un divertimento ma come solo l’industria pop e pulp del fumetto americano sapeva creare: industriale e psichedelico al tempo stesso.