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Il romanzo di Orfani è una (buona) sceneggiatura messa in (no buona) prosa

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Quando Roberto Recchioni (storie) ed Emiliano Mammucari (disegni) hanno lanciato Orfani, la serie pubblicata da Sergio Bonelli Editore a partire dalla fine del 2013, le attese erano molte. Sia per l’inedita struttura seriale in stagioni, sia per la direzione grafica (full color), sia per il mix di generi: fantascienza “dura”, parecchio citazionista (da Fanteria dello spazio cinematografico al Gioco di Ender per la fantascienza classica, sino ad Halo per l’intrattenimento videoludico) e con la promessa che il trattamento dei suoi due autori avrebbe prodotto un intrattenimento di livello.

Così è stato, almeno per me, anche se con gli inevitabili alti e bassi (polemiche social incluse, con qualche eccesso in ultras e in troll) di chi si avventura nella serialità più classica, come hanno osservato in diversi anche su queste pagine, da Matteo Stefanelli sulla prima annata a Davide Scagni sull’avvio della quarta ‘run’.

A mio avviso, dopo un avvio con spazi di costruzione narrativa molto ampi, ritmo serrato (molto televisivo), disegni spettacolari e personaggi ben tratteggiati, la serie si è andata a chiudere in un ambito narrativo più claustrofobico che l’ha costretta a forzature nella strutturazione della storia e della continuity che mi piacciono meno. Sebbene si sia rivelata una ciambella senza il buco, la ritengo comunque sempre godibile per una semplice ragione: non ha abbandonato né la sua leggerezza di fondo – avventura tosta ed esplosiva – né il montaggio serrato con personaggi pieni di conflitti e tensioni.

ringo orfani romanzo recchioni

Ma il progetto del duo non si è limitato ai fumetti e, tra le cose che sono arrivate c’è anche un romanzo, Orfani: Ringo, chiamata alle armi, firmato da Recchioni (con Marco Greganti alla stesura di vari capitoli e Mammucari alle illustrazioni). Lo ha pubblicato Multiplayer Edizioni ed è un romanzo particolare, scattante, nervoso (e confezionato anche in edizione deluxe per collezionisti, con tanto di bandana). Ovviamente non si tratta della prima incursione da parte di un autore di fumetti nel mondo della narrativa convenzionale. E, dal mio punto di vista, ancora non ci siamo. Ma quel che mi sembra interessante è che ci stiamo sempre più avvicinando. Mi spiego meglio.

Il problema di cambiare media è fondamentalmente un problema di pensiero e struttura, più che di linguaggio. Chi scrive soggetti e sceneggiature fa un lavoro molto diverso da un romanziere: lavora sulla struttura di una storia e sostanzialmente sul suo scheletro. Lavora sull’essenza, consapevole o meno che ambientazione, colore, spessore, tonalità deriveranno tutte dal lavoro del disegnatore. Un po’ come se Simenon ci avesse raccontato i suoi gialli in sintesi, lasciando alle immagini che scorrevano sotto la sua voce di creare le atmosfere e le ambientazioni, di cogliere i dettagli, di suscitare le emozioni.

È un discorso un po’ grossolano, me ne rendo conto. Ma il problema di chi, dal fumetto o da altri settori simili si presta alla prosa, è proprio questo. Ragiona grandemente sulla storia, sulle sue linee conduttrici, sul flusso degli eventi scalettato e programmato, magari con una parete piena di post-it gialli su cui muovere le scene della storia, ma poi mi diventa debole e mi cade sulla materia.

La materia di cui sono fatti i romanzi sono le parole. Tante parole. Parole attorno, parole vicino, parole speciali, parole inutili, parole che si sommano ad altre parole. Parole che descrivono, parole che raccontano, parole che aggiungono, parole che pennellano, parole che distruggono, parole che rattristano, parole che fanno gioire. Difficilmente un tecnico del fumetto, uno stratega della narrazione “con le nuvolette” riesce ad accedere a un immaginario così grande dopo aver passato tanti anni nella direzione opposta, cercando di arrivare all’essenza delle storie, spogliandole di qualsiasi connotazione narrativa. Per questo il romanzo, che è ben fatto e riprende le vicende dell’unico sopravvissuto alla prima stagione, cioè Ringo, in realtà non è un romanzo vero. È scritto per bene, la storia fila, le pagine hanno un ritmo serrato, ma un romanzo è un’altra cosa.

Mi sono appassionato anni fa a questo tema e lo abbiamo trattato in questa colonna virtuale più volte, parlando ad esempio di Guerre Stellari e Star Trek. Non sono stati George Lucas o Gene Roddenberry a scrivere le novelization dei due primi film (nati come soggetti originali) né sarebbe stato lecito aspettarsi che fossero loro, nonostante avessero pesantemente lavorato sulle sceneggiature e fossero assolutamente in grado di strutturare e codificare una storia. Essere scrittori di prosa per l’intrattenimento – attenzione: non mi aspetto di trovare Italo Calvino o Ernest Hemingway che scrive Orfani, piuttosto scoprire un nuovo Emilio Salgari – è diverso dall’essere autori di soggetti e sceneggiature per cinema, televisione e fumetto. Molto diverso. E questo spin-off transmediale di Orfani lo conferma: godibile, ma non scambiatelo per un romanzo. È una sceneggiatura messa in prosa.

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