Monolith è senza alcun dubbio un progetto innovativo per il mercato italiano. Una novità nella formula editoriale (‘alla francese’) e nella stessa produzione, essendo stato pensato parallelamente come un film e come fumetto da Sergio Bonelli Editore, che da ormai oltre un anno sta ampliando la propria presenza nell’entertainment, costruendo nuove tipologie di prodotto e rafforzando lo sfruttamento dei suoi personaggi (di recente è tornata in possesso sia del licensing di Dylan Dog che di quello di Nathan Never).
Il film esce nelle sale cinematografiche italiane domani 12 agosto, ed è stato preceduto da un fumetto, pubblicato in due volumi (eleganti cartonati a colori, inconsueti rispetto agli standard classici dell’editore), per i disegni di LRNZ, la sceneggiatura di Mauro Uzzeo e il soggetto di Roberto Recchioni (QUI qualche pagina).
Si tratta dunque di un piccolo ma significativo evento per l’editoria italiana: una iniziativa crossmedia che è anche la prima coproduzione Bonelli nel settore cinematografico, insieme alle case di produzione italiane Sky Cinema HD e Lock & Valentine. Dubito invece che il film si rivelerà un evento per il cinema internazionale, né tantomeno per quello italiano, ma del perché ce ne rendiamo conto solo a visione conclusa (o quasi).
I dietro le quinte della lavorazione di Monolith in una clip esclusiva
Ideato da Roberto Recchioni (soggetto) e scritto tra gli altri da Mauro Uzzeo, per la regia di Ivan Silvestrini, Monolith racconta di una vettura particolarmente sicura, intelligente e ipermoderna. Una supercar che tuttavia, quando una ricca milf a caso (che il luogo comune vuole come tipica pilota di un SUV) ci fa il primo viaggio insieme al figlio piccolo, finisce per chiudersi a riccio col pupo dentro, la mamma fuori e il deserto attorno. Il fattaccio avviene perché il bambino si mette inavvertitamente a spippolare sul cellulare della madre (che serve anche a impartire comandi all’auto), mentre la donna, contro gli avvertimenti dell’auto parlante, decide di accendersi una sigaretta, incazzata col marito che le sta palesemente mettendo le corna con una sua amica.
La sprovveduta, bella e cornuta Sandra non si sa bene per quale motivo si ritrova in mezzo al deserto (l’auto diceva che era la strada meno trafficata per arrivare dai nonni), mentre il bambino è chiuso dentro con un abbigliamento non proprio ideale per le temperature del luogo: una tutina tipo kigurumi giapponese, quindi ha le ore contate.
Si dice che di fronte al pericolo una madre possa tirare fuori forze inaudite, tipo sollevare un’auto se sotto c’è il figlio. Il problema è che lei il figlio ce l’ha dentro la macchina, che proprio non si apre. Non stiamo qui a elencare i modi in cui prova a convincere l’auto ad aprirsi o le avversità che si trova ad affrontare; ma non sono poi molte. Del resto nel deserto non c’è chi può aiutarti ma nemmeno chi può romperti le scatole, fatta eccezione per il caldo.
Gli scenari sono vuoti: non si vede quasi mai nessuno, gli ambienti sono del tutto al risparmio, la fotografia è talmente neutra che finché non arriviamo nel deserto sembra di essere in un telefilm tedesco. D’accordo, il film è dichiaratamente “low budget” (circa un milione di dollari), ma non starebbe lì il problema, anche se si può discutere della pertinenza di un thriller tecnologico ma a basso costo. La vera scocciatura è che tutto quanto succede solo perché deve succedere e si risolve perché si deve risolvere, arbitrariamente. La tensione per lo spettatore – se così vogliamo chiamarla – ruota attorno allo scoprire come rientreremo nella vettura. Perché ci rientreremo, si sa, è chiaro (dai, non chiamiamolo spoiler).
Per nutrire quella tensione si spera magari che muoia qualcuno, ma c’è poca gente da far morire. A volte il tono è quello di un film horror (di serie B), con la bella in affanno contro le sventure e lo spettatore basito per i risvolti improbabili. Quindi, se quel genere di aspettativa in un certo qual modo sadica è ingenuamente vanificata, giunti all’ultimo quarto del film, eccoci: arriva la rivelazione, c’è una morale, ci sono degli insegnamenti – purtroppo però non i tre della favola dell’uccellino raccontata in Il mio nome è nessuno (capolavoro). Qui sono i seguenti:
• Il cellulare ai bambini piccoli non si può dare.
• In macchina non si fuma.
• Le corna alla moglie non si fanno.
Monolith si conclude con un grintoso riscatto del fuoristrada a marce ridotte in salita. Prima dei titoli di coda mi attendo l’apparizione del logo del Ministero della salute, come in ogni pubblicità progresso (in questo caso lunghetta), ma niente. Pazienza. Gli insegnamenti di cui sopra, peraltro, sono già noti a tutti, anche se guidi una utilitaria scassata (come me).