Action30 è un progetto nato nel 2005 che mescola fumetto, illustrazione, musica, teatro e altro ancora in una serie di performance audiovisive, con alle spalle un motore fortemente ideologico. Nel corso degli anni si è “esibito” in giro per l’Italia ma anche in diverse città europee come Bruxelles e Marsiglia e ha dato vita anche ad alcune pubblicazioni autoprodotte. Ad animare finora questo collettivo sono stati in particolare Pierangelo Di Vittorio – dottore di ricerca in filosofia delle Università di Strasburgo e di Lecce e autore di numerose pubblicazioni scientifiche –, Giuseppe Palumbo – autore di fumetti dagli anni Ottanta e tra le tante altre cose disegnatore di Diabolik – e Alessandro Manna – ricercatore e saggista.
Nelle scorse settimane, Lavieri Edizioni ha lanciato una collana progettata con loro e intitolata “Collana Action30”, che raccoglierà vari format narrativi accomunati dall’etichetta “graphic essays”. Il primo di questi volumi si intitola Bazar elettrico. Bataille, Warburg, Benjamin at Work ed è composto da fumetti e saggi brevi, che si intersecano a formare un unico percorso culturale. Per farcelo raccontare – e per capire quali saranno gli sviluppi di questa nuova collaborazione tra Action30 e Lavieri – abbiamo raggiunto Di Vittorio e Palumbo.
Questo volume è una evoluzione del progetto Action30 o un modo di fare il punto di quanto fatto finora?
Di Vittorio: Credo di poter parlare a nome degli altri autori, Alessandro Manna e Giuseppe Palumbo. Action30 nasce come un progetto di scrittura saggistica ibrida. Bazar elettrico è il frutto di oltre dieci anni di sperimentazione in questo campo. Magari è utile ricordare come nasce il collettivo: era il 2005 e alcuni di noi si sono “svegliati” con la brutta sensazione di vivere una strana riedizione degli anni Trenta. Oggi è diventato un ritornello quasi banale, ma per noi fu un vero shock.
Prendere sul serio l’ipotesi delle “nuove” forme di razzismo e di fascismo significava mobilitarsi, rimettere in gioco le proprie identità, entrare in una dinamica di trasformazione anche personale. Per questo il primo gesto è stato di non dare mai per scontati i “format” stabiliti; anzi di metterli costantemente in discussione. Il leitmotiv di Action30 è sperimentare forme di condivisione della cultura che siano delle vie di fuga rispetto all’alternativa tra format “universitari” e format “spettacolari”.
In questo percorso, dopo aver pubblicato L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo, abbiamo realizzato alcuni “saggi-spettacolo” – Constellation 61. Entre histoire et magie; Nage nage petit poisson. Dès/obéir à l’epoque de la téléréalitè – che ci hanno portato a sperimentare le nostre ibridazioni su una scena teatrale (a Bruxelles, Liegi, Marsiglia). Bazar elettrico segna il ritorno al “saggio-grafico”, le autoproduzioni degli esordi. In realtà non l’abbiamo mai abbandonato: semmai la novità è che inauguriamo una collana con l’editore Lavieri dedicata a esplorare questo specifico spazio di ricerca.
Bazar elettrico è una riflessione su quello che abbiamo fatto in questi anni, sui gesti che hanno accompagnato le nostre sperimentazioni, in particolare sul nostro “tavolo da lavoro” inteso come ecosistema dove la ricerca – critica e creativa – si esercita tutti i giorni. Questo loop tra pratiche e riflessione sulle pratiche è una caratteristica del nostro collettivo: perciò Bazar elettrico può essere considerato un punto d’arrivo rispetto al lavoro fin qui svolto, ma anche un punto di partenza per nuove sperimentazioni.
Bazar elettrico viene presentato come un “saggio grafico”. Ci sono dei modelli ai quali avete fatto riferimento?
Di Vittorio: Per Bazar elettrico non ci sono stati particolari modelli, abbiamo piuttosto lavorato a partire dai nostri precedenti graphic essays. Ciascuno di noi aveva in mente la sua costellazione di riferimenti, non ci siamo mai detti “facciamo come questo o quello”. Forse è utile ricordare che, quando abbiamo cominciato la nostra sperimentazione, se cercavi “graphic essay” su Internet non trovavi nulla. In un certo senso abbiamo inventato il nome nel momento stesso in cui fabbricavamo i nostri “oggetti”.
Com’è possibile oggi scrivere saggi che non si presentino come dei “bazar”, nei quali confluiscono, s’intrecciano, s’intersecano, e quindi anche si tagliano reciprocamente, flussi testuali e flussi d’immagini? Detto questo, bisogna anche riconoscere che il “saggio grafico” non l’abbiamo inventato noi. Mentre eravamo impegnati nella realizzazione dei primi graphic essays, ci siamo imbattuti in un episodio abbastanza sintomatico nella vita dello scrittore James Graham Ballard: «La mia idea originale per La mostra delle atrocità era di fare un collage di illustrazioni. Originariamente volevo un libro di grosso formato, stampato in foto-offset, per il quale potevo preparare io direttamente l’artwork: un sacco di collage, materiale preso da documenti e foto mediche, macchine che si scontrano e tutto quel genere di iconografia».
Il progetto non andò in porto. E a noi sembrò quasi che quello che stavamo facendo servisse in qualche modo a “risarcire” Ballard… Poi, proseguendo nella ricerca, abbiamo scoperto che esistevano diverse esperienze eterogenee, difficilmente assimilabili tra loro, che andavano in questa direzione. Esperienze “singolari”, le quali tuttavia, dal nostro punto di vista, potevano essere ricondotte all’interno di una costellazione “familiare”. Ci sono sicuramente le due annate della rivista diretta da Georges Bataille Documents e molto altro…
In ogni caso, quello che c’interessa nel “saggio grafico” non è la capacità di rendere omogenei i flussi di testi e d’immagini, ma d’investire al contrario sulla loro eterogeneità. C’interessano quei montaggi che, invece di nascondere le cuciture, facciano respirare gli spazi interstiziali nei quali saperi e linguaggi si dis/articolano senza sosta. Esigenza che s’inscrive in quello che da un po’ chiamiamo “antifascismo cognitivo”: pensare e creare sono forse diventati la prima forma di resistenza, ma questo significa che non possiamo più darli per scontati. Il pensiero e la creatività vanno conquistati, appresi, esercitati, partendo sempre dall’abicì.
Qual è il filo conduttore che unisce testi e fumetti di questo primo volume?
Di Vittorio: Prima che da un filo conduttore tematico, che pure esiste nel libro, testi e fumetti sono uniti da una “piega”. Sono ripiegati gli uni sugli altri e gli uni dentro gli altri. La piega nasce dalla tensione tra una dimensione pratica, performativa, e una dimensione riflessiva. Quello che unisce fumetti e testi è in primo luogo il fatto che si modificano gli uni attraverso gli altri. Abbiamo definito Bazar elettrico una «riflessione performativa sulle condizioni operative della ricerca». Si tratta di un’operazione performativa, perché proviamo a “fare” quello che pensiamo e diciamo, mentre lo pensiamo e lo diciamo; mentre l’oggetto su cui proviamo a riflettere sono le stesse condizioni operative della ricerca: com’è fatto il “tavolo da lavoro” di uno studioso o di un artista?
Questa riflessione sul “tavolo da lavoro” potrebbe sembrare un divertissement per uomini colti: visto che ormai sappiamo di tutto e di più, allora andiamo a sbirciare nel backstage degli studiosi e degli artisti, alla ricerca di qualche aneddoto piccante che ci liberi dalla noia. In realtà proprio questa indifferenza rispetto alle condizioni pratiche del fare ricerca, o del fare arte, potrebbe essere il sintomo di una certa “miseria culturale” che affligge l’uomo contemporaneo.
Ebbene per la ricerca, sia essa critica o creativa, il problema è che da un lato ci sono gli intellettuali o gli artisti, e dall’altro ci sono le loro opere. In mezzo, macchine e operazioni che il più delle volte restano invisibili e mute. Insomma c’è tutto un “impensato”, un “indiscusso” che riguarda la ricerca, nonostante sia proprio in questo spazio di mezzo, propriamente operativo, che si giocano le partite più importanti di carattere, non solo intellettuale e artistico, ma anche etico e politico. Bazar elettrico è il gesto di far parlare gli stessi tavoli da lavoro, di far vedere e parlare le stesse macchine di ricerca, nel senso che abbiamo cercato di condividere una riflessione sulla nostra macchina di ricerca rendendola immediatamente operativa.
Le tre figure principali del volume (Georges Bataille, Aby Warburg e Walter Benjamin) sembrano molto affini ad Action30, per la loro continua voglia di ricerca e sperimentazione. È solo per questo che sono stati resi protagonisti o c’è altro?
Di Vittorio: Il tavolo da lavoro di Action30 è sempre stato un bazar. Ci si poteva trovare veramente di tutto: dai fumetti ai libri di storia e di filosofia, dalle fotografie, ai romanzi e ai manuali di medicina. Poi però, continuando la ricerca, abbiamo fatto una serie d’incontri che ci hanno mostrato lo spessore storico e culturale del nostro modo di lavorare. L’informe rivista Documents di Bataille, la Kulturwissenschaftliche Bibliothek e il rizomatico progetto del Bilderatlas Mnemosyne di Warburg, il collage di citazioni dei Passages di Benjamin e più in generale il suo essere, il suo farsi “uomo-montaggio”: per noi sono tra i principali esempi di tavoli da lavoro che funzionano come bazar elettrici. Il tavolo, il bazar diventa elettrico quando si creano montaggi inediti tra i materiali molteplici ed eterogenei che vi affluiscono.
Tuttavia, se abbiamo deciso di consacrare il nostro libro a queste tre importanti figure del passato, non è solo per rendere loro omaggio, mostrando quali sono i presupposti storici e culturali del nostro lavoro. Il problema è che, nel frattempo, abbiamo subito un altro shock. Quando sono state allestite e messe in moto, nella prima metà del XX secolo, le macchine di Bataille, Warburg e Benjamin hanno avuto un impatto esplosivo, la cui onda d’urto giunge fino a noi. Sono state delle formidabili tempeste elettriche nel paesaggio culturale dell’epoca. Il problema – ecco la scoperta – è che oggi l’informe di Bataille, il rizoma di Warburg, il collage di Benjamin e l’uomo-montaggio che fu Benjamin stesso, si sono “realizzati”. Sono diventati banale realtà, esperienza quotidiana. L’eterogeneo ha invaso la nostra esistenza. Le nostre stesse vite sono dei bazar: assemblaggi precari e frammentari, minestroni.
Tuttavia oggi l’eterogeneo tende a essere trasformato in omogeneo. Anche questa è un’esperienza quotidiana. Basti pensare a come funzionano i social network: il video di un simpatico gattino sta accanto alla foto di un bambino migrante annegato e così via… Da questi frullatori industriali escono fuori solo pappe per bambini. Invece di farci sobbalzare sulla sedia, tendono a produrre abitudine e consenso. Bisognerà allora provare a inventare degli appositi contro-frullatori, macchine in grado di ottenere l’eterogeneo dall’omogeneo. In tal senso, Bazar elettrico non è un’operazione di storia monumentale o antiquaria: è un’operazione che prova a mettere gli archivi culturali – i vecchi tavoli da lavoro di Bataille, Warburg e Benjamin – alla prova dell’attualità.
Come si intersecano tra loro i testi e i fumetti presenti? Ci sono state difficoltà nel lavoro di “montaggio”?
Palumbo: C’è una cornice che include l’intero libro. Bazar elettrico si apre con un tavolo ricolmo di carte e libri, tra questi uno che si apre al nostro sguardo e così entriamo all’interno dei contenuti del libro che abbiamo composto: ogni tavolo di lavoro ne può aprire un altro. Poi, cominciamo a leggere un Prologo a fumetti e a ogni capitolo a fumetti si alternano blocchi di pagine puramente testuali ma arricchite e problematizzate da inserti fotografici e da immagini di archivio e collage. Attenzione: prima il fumetto e poi la parte saggistica; un vero e proprio ribaltamento gerarchico nella scala di valori culturalmente più diffusa.
Ogni elemento, sia testuale sia iconico, crea sbalzi, pieghe, nella lettura, che così diventa più ricca di stimoli e di vie di fuga: non una operazione didattica; non “massaggiamo” il nostro lettore (per usare una immagine di McLuhan), non lo rassicuriamo nelle sue certezze, anzi alziamo il livello dello scontro, del dubbio. Il libro ci è costato un lungo periodo di gestazione e di montaggio proprio perché, pur avendo alle spalle una lunga serie di sperimentazioni, di fatto questo è il nostro prodotto più completo, più significativo.
Faccio notare poi che anche i capitoli a fumetti non sono vere e proprie narrazioni, anche se utilizzano modalità tipiche della narrazione a fumetti: se mi chiedeste la classica domanda «come va a finire?», scoppierei a ridere. Sono anti-narrazioni, ingannano e depistano il lettore a ogni girar di pagina, lo elettrizzano spingendolo a chiedersi «perché».
I successivi volumi saranno strutturati allo stesso modo o, come nello spirito di Action30, assumeranno forme e impostazioni variabili?
Palumbo: Ogni volume avrà caratteristiche specifiche. Il prossimo volume sarà con ogni probabilità un saggio grafico a fumetti, senza gli sbalzi che abbiamo utilizzato in Bazar, ma con una teoria della percezione non piatta: si tratta di Unflattening di Nick Sousanis, edito da Harvard University Press. La collana è ancora in via di costruzione e, al di là di altri possibili titoli che il collettivo svilupperà direttamente secondo il suo modus operandi, immagino che i titoli che popoleranno tale collana saranno molto eterogenei, persino con un uso percentuale del linguaggio a fumetti minore o addirittura pari a zero, con una predominanza a livello iconico della fotografia, del collage, dell’infografica ecc.
Giuseppe, che cosa rappresentano Action30 e questa collana nel tuo lavoro di oggi, tra Diabolik e libri come Escobar?
Palumbo: Come ho avuto modo di scrivere, in una battuta, Bazar Elettrico è il libro a cui ho dedicato gli ultimi cinquantatré anni della mia vita… In questo libro confluiscono le mie tecniche, le più vecchie e le più recenti, il mio modo di concepire le potenzialità del fumetto come mezzo di espressione culturale, il mio modo di fare ricerca, da archeologo, tra gli strati che tutto contengono, in una modalità nuova. Senza particolare enfasi, lo reputo un libro difficile; tuttavia mi dà gioia saperlo tra le mani di chi avrà la voglia di leggerlo, di stare al suo gioco o criticarlo.
Di Vittorio: Ma, permettimi di aggiungere, soprattutto di farne l’esperienza: si tratta, infatti, di entrare in una macchina che dice sì delle cose, che propone dei contenuti, che stuzzica l’occhio, ma che soprattutto “funziona”, quasi per conto suo.
Palumbo: Gestire poi una collana, insieme agli amici di Action30 e con l’editore Lavieri, mi riporta ai tempi “eroici” di Frigidaire e della Phoenix, quando, oltre a essere autore dei miei progetti, sono stato promotore di tante storie e tanti autori.
Diabolik è ormai il mio compagno di giochi; è sempre un’impresa stare dietro alle acrobazie che mi richiedono le storie di Mario Gomboli e Tito Faraci, ma mi sento parte di una squadra forte e sicura di fare risultato. Vuoi che si giochi sul campo di casa, con il Grande Diabolik, vuoi che si giochi in trasferta sul campo delle miniserie dedicate a DK, il Diabolik altro.
Escobar è stato un altro discorso ancora: un’avventura che io e il mio sodale Guido Piccoli avevamo in animo di affrontare da tempo, e che poi un tempo preciso, questi ultimi due anni, ci ha praticamente imposto di fare. La figura di Escobar che ci aveva sedotto già una decina di anni fa, è tornata a chiederci di darle forma di fumetto, il primo al mondo, prima ancora che la serie Narcos cominciasse a spopolare un po’ dappertutto. Sono sempre più convinto che siano i libri a impadronirsi di me. Io non faccio niente: sono posseduto, come in una tempesta elettrica.