di Gianfranco Marelli
«Basta la parola!» era lo slogan pubblicitario, nato nel 1957, del purgante Falqui. Rimarcava un aspetto importante: quanto prezioso fosse il significante (la parola Falqui) nell’enunciare con chiarezza il significato (la purga) di cui si parla (la confezione di pillole lassative), al fine di trasmettere un affetto desiderante. Nel nostro caso, precipitarsi in bagno.
Un’efficacia simile la si può riscontrare nella parola détournement. Non certo perché susciti quella fisiologica voglia, quanto piuttosto per il fatto di richiamare la pratica caratterizzante l’Internazionale situazionista ed il variegato mondo che – durante ma soprattutto dopo l’esperienza di quella avanguardia di artisti e intellettuali formatasi alla fine degli anni Cinquanta – si raggrumò con l’utopico obiettivo di cambiare la vita quotidiana rivoluzionando la società. A partire proprio da quel rovesciamento del significato che le parole della lingua dominante [dei dominanti] impongono per sottomettere la società ai propri concetti e valori, fondati sullo sfruttamento dell’uomo come merce, fino a fare della merce la natura dell’uomo.
La pratica del détournement, prima dei situazionisti, era in realtà già stata attuata da molti. Gli esempi potrebbero perdersi nella notte dei tempi, dai graffiti di Lascaux fino ad arrivare ai più “osceni” cazzi e fighe dei gabinetti pubblici (disegnati al pari di veri e propri animali ai quali dar loro la caccia nelle caverne/cesso di tutto il mondo). Senza dimenticare l’illustre Gioconda baffuta che Duchamp aveva dipinto nel 1919, il cui titolo L.H.O.O.Q. – guarda caso – è un gioco di parole: le lettere pronunciate in francese, infatti, danno origine alla frase “Elle a chaud au cul”, che potremmo tradurre con “Lei è eccitata”. A dimostrazione che la caccia è sempre aperta.
Sennonché, più che lo scandalo dei baffi sul volto candido di Monna Lisa, o più dei peni e delle vagine surrealistiche di Picasso & company che tanto ispirarono George Bataille, i situazionisti operarono in modo che l’uso del détournement favorisse un rovesciamento di prospettiva dell’intera vita. Alla pratica dello scandalo per épater le bourgeois, infatti, i situazionisti preferirono l’essere scandalizzati da una società di piccoli borghesi incapaci di possedere un’altra idea di felicità che non fosse quella di consumare l’ultimo nuovo prodotto in commercio, divenendo a loro volta prodotti. In definitiva, se vi è una vita “privata” – sostenevano i situazionisti – non è perché è negata al pubblico, ma perché le è nascosta, al punto che la si maschera nello spettacolo della merce come una merce da consumare in privato, dal momento che la vita non ha nessun altro valore se non di essere prodotta e consumata non più soltanto nei luoghi di lavoro, ma in tutti luoghi, soprattutto nei luoghi di svago.
Smascherare una vita nascosta dalla merce fu l’obiettivo che i situazionisti posero al centro della loro critica radicale, allo scopo di denunciare la mancanza della vera vita nella società dello spettacolo. Una mancanza tuttavia necessaria, perché i “proletari” [“coloro che non hanno alcuna possibilità di modificare lo spazio-tempo sociale che la società concede loro di consumare (ai diversi gradi di abbondanza e promozione permesse).”] prendessero coscienza di trovarsi dinnanzi ad un bivio e di dover scegliere fra l’accettazione di una sopravvivenza consumata nel consumare merce – in pratica un “suicidio al rallentatore” – o la rivoluzione.
I situazionisti puntarono su quest’ultima ipotesi, convinti che fosse sufficiente rovesciare i concetti di felicità, partecipazione, comunicazione, realizzazione tanto cari al consumismo della società dello spettacolo, per smascherarne la vera essenza: la seduzione, la passività, la costrizione, la mediazione che caratterizzano la presente non-vita. Rovesciare la non-vita in vera-vita per costruire situazioni ad incominciare da un linguaggio in grado di esprimersi ben oltre i bisogni indotti dalla pubblicità dei beni concepiti quale unico bene, e rivendicare la realtà dei propri desideri, in quanto i propri desideri sono l’unica realtà, l’unico bene/felicità. E quale miglior modo di farlo se non attraverso la tecnica fumettistica?
Tecnica fumettistica che i situazionisti applicarono in ogni campo artistico, culturale, politico, al punto da caratterizzare le loro azioni pratiche. Al punto da permetterci di sostenere serenamente che essi “fecero fumetto” molto più di quanto non sia stato riconosciuto nelle principali ricostruzioni storiche del movimento. E lo fecero con la precisa consapevolezza di quanto il fumetto non fosse un semplice linguaggio, ma un sistema complesso di processi linguistici e sociali.
Questa propensione si riconosce nella pittura di Jorn sui quadri pompiers, modificati con colature e macchie di colore tali da divenire – grazie al loro nuovo riutilizzo concettuale – una nuova creazione, espressione, artistico-culturale dalle chiare connotazioni vignettistiche. Ugualmente i film di Debord, la cui tecnica discrepante richiama da vicino la forma della comic strip, sono elaborazioni artistiche che contengono tempi e spazi caratterizzanti i fumetti. Infine, e in modo più marcato, l’elaborazione teorico-politica, prodotta in migliaia e migliaia di copie di opuscoli, volantini, manifesti, si contraddistinse rispetto agli altri contendenti teorico-politici proprio per aver utilizzato un linguaggio popular di estrazione fumettistica nella forma e nei contenuti.
Queste tecniche, per quanto diverse fra loro, ebbero come minimo comune denominatore la critica della vita quotidiana, sorpresa nei suoi momenti e aspetti più popolari. A dimostrazione che ogni tecnica specifica avesse come compito principale mappare, cartografare i luoghi del vissuto quotidiano al fine di documentarne la non-vita, assieme al desiderio di rovesciarla nella voglia di vivere situazioni emozionanti, in grado di trasformarli in rivolte contro la passività imposta dall’ordine costituito. Per descrivere e rappresentare tali luoghi, i situazionisti si riappropriarono proprio delle soluzioni e tecniche proprie del fumetto in quanto capaci di fotografare ogni momento realmente vissuto attraverso ciascun singolo frame/vignetta che, estrapolato dal suo contesto originale (ad esempio una strip o un graphic novel di fantascienza, oppure western), descrivesse la non-vita, e al contempo ne illustrasse la critica possibile.-
Tanti sono gli esempi che si possono trovare pubblicati nei dodici numeri dell’omonima rivista situazionista, così come nei manifesti, nei libri, nei film realizzati dai militanti dell’I.S. Uno dei primi esempi fu Le avventure di Superman il situazionista, una strip pubblicata sul n. 4 di Spur (febbraio 1961) e proseguita nel n. 7 (gennaio 1962) con Superman il situazionista nella nordica Bauhaus, ovvero dopo che la rivista era stata condannata in Germania per oltraggio alla morale e pornografia, e pertanto costretta all’esilio in Svezia presso la Fattoria di Nash, poco tempo prima escluso assieme alla sezione tedesca dall’I.S. per la loro posizione eminentemente artistica. Entrambi i racconti erano caratterizzati da un segno impreciso, confuso, ma denso e carico di motti, proclami, detti popolari, détournati, fra i quali spicca la frase di Yves Klein (amico e sodale di Guy Debord ai tempi dell’Internazionale Lettrista): «Non basta dire o scrivere: ho superato la problematica dell’arte. Bisogna averlo fatto. Io l’ho fatto».
In queste prime vignette emerge la volontà dei situazionisti di utilizzare la tecnica comunicativa del fumetto al di fuori dell’inquadratura classica della strip, non volendo però assolutamente limitarsi ad una sua riproduzione dettagliata nei segni distintivi del codice fumettistico, decontestualizzandola e ingrandendola fino a trasformarla in prodotto artistico – un quadro da esporre nei musei d’arte contemporanea – com’è stata l’esperienza coeva di Roy Lichtenstein e della Pop art. Nel loro approccio, invece, il fumetto è utilizzato in quanto linguaggio e grammatica di un esprimersi provocatorio e rivoluzionario, in grado di “lasciare il segno” grazie ad una forza comunicativa dissacrante e violenta.
Infatti, se proprio negli anni Sessanta i fumetti furono dalla Pop art promossi al rango di opere d’arte ed entrarono prepotentemente nell’immaginario estetico formando il nuovo tessuto iconografico così caro e prezioso per mercanti e critici – come nel periodo dadaista accadde per i collage e nella fase surrealista e post-dadaista lo divenne per i decollage – le vignette situazioniste non ebbero mai l’intento e la funzione di trasformare l’espressione popolare insita nella comunicazione disegnata o rappresentata nell’oggetto per il consumo di massa, in un’opera d’arte da ammirare nei musei e non più fra i banchi dei supermercati oppure appesi nei chioschi di giornali.
Al contrario, il loro intento fu sempre teso a superare ogni forma parcellizzata della comunicazione ad iniziare proprio dal non voler trasformare il quotidiano e la sua banalità in un artificio museale, ma piuttosto nel voler stravolgere, rovesciare il quotidiano in una critica del quotidiano e della sua miseria, evidenziandone le potenzialità creatrici al servizio della rivoluzione per un’arte di vivere oltre il sopravvivere dell’arte e di qualsiasi specializzazione unicamente preoccupata a mantenere i propri spettatori rinnovando il proprio spettacolo.
Lo si comprende soprattutto, analizzando la produzione fumettistica dei situazionisti nella seconda metà degli anni ’60, ed in particolare durante lo scandalo di Strasburgo (novembre 1966), quando, a fianco della pubblicazione del pamphlet Della miseria nell’ambiente studentesco – uno scritto situazionista di critica del mondo universitario, artistico e culturale in cui gli studenti sono descritti come spettatori passivi e a buon mercato del proprio futuro di “cani da guardia” del sistema dominante – distribuito all’apertura dell’anno accademico da parte di coloro che erano riusciti a farsi eleggere alla presidenza dell’Associazione studentesca locale (con l’obiettivo di dissolverla seduta stante), comparve contemporaneamente sui muri dell’ateneo il volantone/fumetto Il ritorno della colonna Durruti.
In esso venivano messe alla berlina le organizzazioni politiche che svolgevano opera di proselitismo fra le masse studentesche, in nome di messianiche rivoluzioni alle quali sacrificare il proprio impegno. Al contrario, l’obiettivo di «vivere senza tempo morto e gioire senza ostacoli» fu il leit-motif situazionista che dall’università di Strasburgo si propagò in seguito a Nanterre e alla Sorbone, caratterizzando le frange più radicali del Maggio francese e protraendosi oltre il ’68, fino ad influenzare il ’77 italiano, soprattutto per quanto riguarda la diffusione della pratica fumettistica che da allora caratterizzò ogni forma di propaganda rivoluzionaria, dai volantini, ai manifesti, ai quotidiani, alle riviste.
Tratto caratterizzante l’uso situazionista del fumetto è la cattiveria radicale che esprime, rappresentando il contesto e l’agone politico del momento, con l’obiettivo “eroico”di non voler fare prigionieri. Ma torniamo al volantone/fumetto Il ritorno della colonna Durruti per comprendere meglio. L’occasione, come ho già sottolineato, è lo scandalo suscitato nel novembre 1966 all’università di Strasburgo, quando tre studenti simpatizzanti dell’ I.S. riescono a farsi eleggere alla presidenza della locale Associazione studentesca, sfruttando il completo disinteresse degli universitari nei confronti di simili elezioni a incarichi burocratici.
Assunta la presidenza, i tre eletti – su sollecito dei situazionisti – utilizzano gran parte dei cospicui fondi dell’Associazione per stampare il pamphlet «Della miseria nell’ambiente studentesco», indicendo la prima riunione pubblica. Lo scopo è porre come primo punto all’ordine del giorno lo scioglimento, seduta stante, dell’organizzazione studentesca. Scoppia lo “scandalo”. Sennonché in quei giorni, in quei mesi, più che l’appropriazione indebita dei soldi dell’Associazione per pubblicare lo scandaloso documento, a suscitare immediatamente scandalo fu proprio il volantone/fumetto che ne pubblicizzava l’uscita. Pochi avevano avuto modo di leggere davvero il pamphlet, ma gran parte degli universitari strasburghesi era al corrente della sua cattiveria radicale nei confronti di tutto e di tutti, proprio attraverso le gesta fumettistiche de Il ritorno della colonna Durruti.
Sicuramente il linguaggio visivo del fumetto permise il diffondersi di concetti teorici altrimenti meno diretti a colpire come un pugno nello stomaco il pubblico. Lo prova una delle sue vignette, in cui sono presenti in fotografia due spazzolini da denti, dentro un bicchiere, che intrattengono il seguente dialogo all’interno di due balloons: «Primo spazzolino: “Chi ti fa ridere di più: i fascisti, i gollisti, quelli della J.C.R. [Giovani Comunisti Rivoluzionari, gruppuscolo trotzkista – ndr.] o gli anarchici di “Le Monde Libertaire” [periodico della Federazione Anarchica francofona – ndr]?” Secondo spazzolino: “Sì, è vero, questi individui coscientemente o no sono solidali con il vecchio mondo contro il quale bisogna ora ingaggiare la lotta». E che dire delle due vignette – una a fianco l’altra – “sfondate” dal braccio e dalla mano di un Lenin oratore mentre proclama «Quanto ai J.C.R. io me li inculo» e al contempo affonda la mano nel culo della ragazza discinta della strip precedente?
Tale pratica metodica si propagò autonomamente da università a università, da fabbrica a fabbrica, da città a città, in Francia e altrove, sicuramente debitrice dello scandalo di Strasburgo e delle altre esperienze di espressione politica e creativa che il situazionismo contribuì a propagare a cavallo degli anni ’60-‘70. Niente fu più come prima. Soltanto che, questa volta, non fu colpa dell’eccitamento di una Monna Lisa baffuta, ma di centinaia di milioni di fumetti détournati. Piccoli manufatti che furono in grado di rappresentare l’immaginario creativo e rivoluzionario di quei tempi, praticando un ribaltamento nella comunicazione che segna una delle tracce indelebili di quel fenomeno conosciuto sotto il nome di Situazionismo. Basta la parola!