Roberto Guarino e Matteo Pollone hanno curato per l’editore Allagalla il volume intitolato Sentieri di carta nel West, che contiene 40 interviste ad altrettanti autori italiani di fumetti western, da Tex a Ken Parker, passando per tutti gli altri eroi vecchi e nuovi. Il libro è diviso in due parti: la prima raccoglie interviste inedite realizzate proprio dai due curatori ad autori contemporanei, da Giovanni Ticci a Paolo Eleuteri Serpieri, da Ivo Milazzo a Claudio Villa; la seconda invece presenta interviste realizzate in passato da altre firme a personalità ormai scomparse come Gian Luigi Bonelli, Aurelio Galleppini e Rino Albertarelli.
Vi proponiamo un estratto dal libro, ovvero l’intervista (nella sua versione integrale) realizzata con Stefano Biglia, disegnatore ligure allievo di Renzo Calegari, che per Sergio Bonelli Editore ha lavorato su testate come Tex, Nick Raider, Magico Vento e Shanghai Devil.
Ti sei formato con Renzo Calegari, uno dei massimi esponenti del western a fumetti. Cosa puoi raccontarci del tuo lavoro con lui?
Appena finita la scuola di fumetto di Chiavari, gestita da Enrico Bertozzi e da Calegari, Renzo ha pensato di aprire uno studio. L’idea era proprio quella di creare una “bottega” del fumetto in cui formarsi, come era successo a lui allo Studio D’Ami… Così ha preso con sé qualche ragazzo tra coloro che si erano fatti notare a scuola e ha tentato questo esperimento… Era il 1990: abbiamo incominciato subito a lavorare per Il Giornalino, allora diretto da Don Tom, Tommaso Mastrandrea. L’idea dello Studio venne da Gino D’Antonio, all’epoca responsabile dei fumetti pubblicati sul settimanale. Propose lui a Renzo di mettere su una squadra che producesse storie per loro.
Quindi hai avuto modo di conoscere anche D’Antonio?
Certo! Aveva casa a Moneglia e passava a trovarci spesso nei fine settimana. È stato un periodo molto fruttuoso per me, perché lavoravo a stretto contatto con persone che avevano già fatto la storia del fumetto.
Che tipo di persona era D’Antonio?
Una bellissima persona, molto pratico e molto attento. Da lui ho attinto molto. Con Renzo condivideva un approccio molto serio al fumetto, per nulla naïf. Certo, D’Antonio era decisamente più “produttivo” di Renzo. Era lui a scrivere le sceneggiature della serie western che abbiamo realizzato per Il Giornalino, Gente di frontiera. Si trattava di una decina di racconti autoconclusivi di una decina di pagine, spaccati della vita nel West. Il Giornalino li pubblicò tutti nel 1994.
Era una serie scritta interamente da D’Antonio?
Principalmente da D’Antonio, ma anche da Mauro Cominelli e Piero Fissore sotto la sua supervisione. Se escludiamo un episodio realizzato graficamente da Nevio Zeccara e uno scritto e disegnato dal solo D’Antonio, tutti gli altri erano invece disegnati dal nostro studio, che Renzo aveva battezzato “La Cittadella”.
Come vi dividevate il lavoro?
Luigi Copello e io facevamo le matite su pagine o su fogli sparsi, che poi Renzo metteva insieme e ripassava a china. Con Renzo abbiamo imparato a guardare le cose giuste, a dare importanza alla fase di documentazione. Allora non sapevamo chi fossero Frederic Remington, Charles M. Russell, Noel Sickles o Alex Toth… li abbiamo scoperti e studiati tutti grazie a Renzo.
Anche il cinema faceva parte di questa fase di documentazione?
Certamente. Ricordo pomeriggi interi passati a guardare i film di John Ford. Era una vera e propria “cura Ludovico”! Renzo è uno che può stare seduto a guardare un film ininterrottamente per una giornata intera, specie quelli di Ford, il suo regista preferito. Per me e Luigi non sempre era facile stare lì ore a vedere e rivedere quei western uno dietro l’altro, ma in effetti tra le tante cose che ho imparato in quel periodo c’è stata quella di imparare a guardare. Quelle visioni mi tornano utili ancora adesso, perché Ford nel suo cinema ha una ricercatezza dell’immagine che sembra fatta apposta per esser disegnata. L’uso di quinte, di personaggi un po’ caricaturali, a volte, i paesaggi giganteschi che esalta con la luce e con il colore… se sei un disegnatore sono una manna, ti suggeriscono davvero tanto.
La storia che avete realizzato per Tex, per l’almanacco, è dello stesso anno di Gente di frontiera, il 1994. Come vi siete approcciati al personaggio, a chi vi siete ispirati? Anche in quel caso tu e Copello avete fatto le matite e Calegari le chine?
Siamo partiti da dei lay-out che facevamo praticamente insieme. A Renzo veniva in mente una particolare immagine, un tale libro e così faceva uno schizzo veloce del lay-out. Poi c’è stato lo studio del personaggio: abbiamo deciso insieme di ispirarci a un attore hollywoodiano che in realtà non ha mai fatto western, ma il cui volto ci sembrava perfetto per Tex: John Garfield. La forma del viso, la mascella quadrata, ricordano molto quelle di Tex.
La differenza è che Garfield era piuttosto basso…
Sì, basso e tozzo. Ma il viso aveva un taglio d’occhi che ci ricordava Tex. Dopo gli studi io e Luigi ci siamo divisi le matite: io ho fatto le pagine dispari, lui quelle pari. Le nostre matite venivano poi passate interamente da Renzo. Per tre quarti del numero il lavoro è andato avanti così, poi l’ultima parte l’ha realizzata interamente Renzo perché a noi è stato proposto di entrare a far parte dello staff di Nick Raider. In quel periodo avevamo voglia di provare a fare qualcosa per conto nostro e praticamente ci siamo poi staccati in questo modo.
Su Nick Raider hai ritrovato D’Antonio…
La prima storia che abbiamo disegnato era di Nizzi, una delle ultime che ha scritto per la collana. Iniziava con l’omicidio Kennedy, a mezza tinta. Una tecnica che con Renzo avevamo studiato molto. La storia è piaciuta e così abbiamo proseguito: la seconda era di D’Antonio (una bella storia, con un personaggio femminile scritto splendidamente), poi una di Manfredi. A quel punto ci siamo separati e ne ho fatta una da solo scritta da Ongaro.
Come sceneggiava D’Antonio?
Aveva un modo di scrivere che per un disegnatore era eccezionale: non dovevi pensare a come muovere il personaggio, perché tutto quadrava.
C’era solo descrizione o anche gli schizzi?
Solo la descrizione, perché D’Antonio in un primo tempo faceva anche i lay-out, poi ha dichiarato di essersi reso conto che era troppo vincolante per un disegnatore.
Sei poi tornato subito al western, con Magico Vento…
Il passaggio a Magico Vento è stata quasi una cosa obbligata, perché il curatore di Nick Raider e di Magico Vento era lo stesso, Renato Queirolo. Siccome sapeva che io mi ero formato sul western e che mi piaceva disegnare i cavalli, era quasi scontato che mi venisse chiesto di passare su questa nuova serie. Non ci ho pensato due volte: per Magico Vento lavoravano disegnatori pazzeschi per me, gli inarrivabili: Milazzo, Ortiz, Frisenda, Parlov, Mastantuono, Ramella…
Come ti sei trovato con Manfredi?
Bene. Il suo era un western molto maturo, molto documentato. Giocava proprio a caso mio, che venendo dalla scuola di Renzo e di Bertozzi ho sviluppato una passione e un desiderio di documentarmi bene. Su Magico Vento ho disegnato molte armi diverse, non solo la .45 e il Winchester… Ho fatto la Colt Army, la Colt Navy, lo Springfield… era divertente.
Era Manfredi a dirti cosa disegnare?
No, ero molto libero da quel punto di vista, Manfredi non è per niente geloso della sceneggiatura e in tante occasioni mi sono trovato a doverla modificare un po’, soprattutto nelle parti dedicate al movimento, all’azione. L’importante era non stravolgere la sceneggiatura ma farla rendere al meglio: è stata un’esperienza estremamente positiva per me.
Quali erano invece le difficoltà?
Erano in particolare i tempi, perché le storie erano praticamente tutte sequenziali, la continuity era stretta, quindi non potevi sgarrare! Dovendomi confrontare con autori eccezionali, la difficoltà era quella di mantenere alto lo standard nei tempi richiesti. E il curatore della testata era particolarmente esigente.
Era difficile il rapporto con Queirolo?
Lavorando con lui in realtà ho imparato tantissimo. Gli devo molto. A volte era eccessivo, ma aveva un’attenzione per i particolari, per la gestione della sceneggiatura e dei personaggi, che non avevo imparato in altre situazioni. È stato davvero molto formativo lavorare con lui, per me. Da questo punto di vista adesso vivo di rendita…
Dopo Nick Raider, Magico Vento e Shanghai Devil hai ritrovato ancora Manfredi per il tuo esordio in solitaria su Tex…
Il mio obbiettivo era proprio quello di andare a Tex. Amo il personaggio, e lo sto amando ancora di più ora che ci lavoro. Mi diverto a disegnarlo e trovo che tutto il corollario di appassionati ti trasmetta una passione eccezionale… per farlo bene Tex lo devi conoscere e lo devi amare. Se vogliamo è più naïf e meno crudo di Magico Vento, ma è comunque un western puro, non è più quello degli anni Cinquanta. Da Ticci in poi ci siamo abituati a un Tex documentato, maggiormente realistico. Quando guardi Tex che galoppa disegnato da Ticci senti proprio la polvere che si alza… Queste cose le devi sapere rendere, i cavalli devi saperli disegnare, i cowboy a cavallo devi saperlo fare diversamente da un fantino inglese. Eppure ancora si vedono cowboy che impugnano le redini come tirassero un carretto, con due mani, mentre il cowboy le redini le tiene in una mano sola… Son tutti particolari che se non conosci quando poi vai a disegnarli stonano, si vede che c’è qualcosa che non va, che sembra finto… i disegnatori che non sono abituati al cinema western poi non riescono ad interpretarlo bene.
Tra l’almanacco del 1994 e L’ultimo della lista, la storia uscita nel 2013 sul quarto Color Fest di Tex passano quasi vent’anni. Hai dovuto studiare per la seconda volta il personaggio per questa storia breve? Su cosa ti sei basato?
Ovviamente su Ticci e Villa. Certo, sono disegnatori che hanno stili così caratteristici che si corre il rischio di essere fagocitati. Li ho guardati per capire le caratteristiche dei personaggi e poi li ho abbandonati per dare una mia interpretazione. Tex ha uno sguardo, un’espressione particolare… io non amo farlo imbronciato perché ricordo il Tex che leggevo da ragazzino che non era mai accigliato. Del resto è sempre sicuro di risolvere tutto, e questo lo porta a dover comunicare al lettore serenità e sicurezza.
Magico Vento invece è un po’ più accigliato…
Magico Vento era così perché così lo voleva Manfredi. Era un personaggio tormentato. Poi era così tormentato anche perché noi eravamo tormentati dal curatore! Chiedete ad altri disegnatori, inconsciamente Magico Vento ci veniva così perché era difficile stare dietro alla produzione della collana, eravamo sempre tutti stanchissimi. Infatti Ned non risulta mai simpatico, mentre Tex, al contrario, sia per me che ne sono disegnatore, ma penso anche per i lettori, è un fumetto che ancora ti diverte.
La differenza è anche che Tex sembra di conoscerlo da una vita, mentre Magico Vento, anche arrivato in fondo alla serie, ti dà la sensazione di non averlo conosciuto fino in fondo. È un personaggio che rimane impenetrabile.
Esatto, quindi più difficile da gestire.
Per L’ultimo della lista siete stati tu e Manfredi a scegliervi a vicenda?
Io parlai a Manfredi della mia probabile candidatura a Tex. Nessuno mia aveva chiamato, mi ero candidato io. Certo, dopo Magico Vento e Shanghai Devil sapevo che Manfredi mi avrebbe proposto qualcosa di suo. Infatti mi chiese di entrare nello staff di Adam Wild, ma io gli risposi che non l’avrei fatto, perché la mia idea era quella di propormi a Boselli come disegnatore di Tex. Così ho fatto. Ho telefonato a Boselli: «Pronto, sono Stefano Biglia, vorrei propormi per scrivere Tex». «Stefano Biglia? Ma chi sei?» «Sono vent’anni che disegno per voi… Nick Raider, Magico Vento…». «Eh va beh, non è che possiamo dare Tex così, dobbiamo vederci, parlare e decidere…» «Va bene, fate quel che dovete fare, io mi vorrei proporre» «Va bene, ti faremo sapere». Metto giù il telefono e mi dico che qua inizia già veramente male.
Era uno scherzo?
Probabilmente Manfredi aveva già accennato a Boselli il mio desiderio. Infatti dopo cinque minuti mi richiama: «Biglia? Mi dispiace, ho parlato con Marcheselli e abbiamo deciso che non se ne fa niente». Io mi ammutolisco e dopo qualche secondo sento Boselli ridere: «Scherzavo! È già tutto pronto, ho già la sceneggiatura per te! Vieni domani». La storia era di Manfredi e mi è piaciuta subito, era ambientata in un paesaggio innevato del Nebraska. Manfredi cerca sempre di scrivere cose non usuali, poco viste su Tex. L’unica cosa che mi dispiace è che non ci fossero i cavalli. Avevo voglia di disegnarli per dimostrare che li so fare bene.
Come sei passato poi alla serie regolare?
Finita la storia a colori (l’hanno anche colorata molto bene, tra l’altro) e tornato da una vacanza avevo già la storia di Boselli pronta. Una storia di “Cavalli e Pùa” (cavalli e polvere), come si dice qui in Liguria.
Quali differenze ci sono tra Manfredi e Boselli?
Sono due grandi autori, entrambi ottimi conoscitori del genere western, ma molto diversi tra loro. In generale avendo lavorato con tutti e due posso dire che Manfredi ama raccontare i caratteri e le sfumature dei personaggi (specie i comprimari) con trame articolate, talvolta limitando lo spazio dell’azione, che spesso risolve con una narrazione veloce e cinematografica. Racconta un west più sporco e cupo. Boselli fa l’opposto: molto rispettoso della forte presenza scenica di Tex, sviluppa un racconto incentrato sull’azione e gli avvenimenti in un immaginario del west più epico. Il suo racconto è molto potente e coinvolgente, con strategie tecnico-militari degne di un Generale o di un capo indiano. Da un punto di vista invece puramente estetico le sceneggiature di Manfredi sono linde e ordinate, mentre quelle di Boselli creativamente scarabocchiate.
I rangers di Lost Valley, la storia in tre albi che hai disegnato per Boselli, è una di quelle a cui sembra tenere molto…
Si, nasce da un desiderio di Sergio Bonelli. Non aveva scritto nulla a riguardo ma ci teneva venisse realizzata. Per me è stato doppiamente importante realizzarla al meglio, e anche per lo stesso Boselli credo sia stato bello. Mi ha chiesto prima se me la sarei sentita, perché era una storia decisamente impegnativa. Trecentotrenta pagine di una “storia di massa”, come l’aveva definita lui… ancora non sapeva cosa e quanto ci avrebbe messo dentro quando ha iniziato a mandarmi le prime pagine. Poi ci ha messo dentro tutto. Davvero, ci mancavano solo i lavoratori cinesi lungo la ferrovia e poi c’era tutto dell’epopea western. Mi son divertito come un matto a disegnarla.
Hai dovuto fare un lavoro di documentazione? Ranald MacKenzie è un personaggio storico…
Mi ha fornito la documentazione Boselli e mi ha anche detto dove trovarla su internet. Io parto con gli studi del personaggio rimanendo il più possibile fedele alle foto d’epoca, ma in corso d’opera Mauro si accorge che non risultava abbastanza accattivante. L’avevo fatto un po’ bolso, anche perché le foto erano di un MacKenzie cinquantenne. Allora ho ricorretto il personaggio in corso d’opera, ho cercato di non distaccarmi troppo dal reale ma rendendo il personaggio comunque più accattivante. Mi sono ispirato a delle foto di Errol Flynn, che aveva mascella forte e baffetto curato.
Poi c’è stata la documentazione sui Buffalo Soldiers, sui Rurales, sui Rangers, i seminole Scout che non avevo mai disegnato. È stato impegnativo ma è stata una bella esperienza perché ho portato su quelle pagine quello che avevo imparato negli anni: sono riuscito a portare delle tavole alla Ford, perché come ho detto ciò che mi hanno lasciato le visioni dei film che ci faceva vedere Renzo mi hanno aiutato tanto.
E adesso sei già al lavoro su una nuova storia di Tex?
Si, di Pasquale Ruju. È ambientata inizialmente a Chihuahua, in Messico e poi si sposta in Guatemala. Tornerà Montales, uno degli amici di vecchia data di Tex.
Un disegnatore come te come si comporta quando deve confrontarsi con un personaggio come Montales, apparso più volte nella saga di Tex e disegnato da tanti disegnatori diversi?
Io ho sempre bisogno di un riferimento realistico. Foto di un personaggio del cinema, o anche amici o parenti. Per il mio Montales ho usato come spunto in particolare un attore come Burt Lancaster. L’ho studiato nel Gattopardo: i baffoni, i capelli, certe espressioni sornione… Cerco sempre di partire da un riferimento reale perché ho bisogno dei volumi, delle forme, per dare un certo realismo, che non sia troppo… “fumetto” ecco.
Come lettore di fumetti cosa hai letto negli anni, a parte Tex?
Soprattutto Western. Graficamente ho amato il Cisco Kid di Salinas, che però sento molto distante, oggi per come è scritto. Mi piaceva proprio guardarlo, davvero tantissimo. Magico Vento mi appassionava anche come lettore, non vedevo l’ora, ogni mese, che uscisse in edicola. Alcune parti della saga, come quelle disegnate da Pasquale Fisenda, le trovo proprio fantastiche. Riguardo poi spesso La Stella del Deserto di Stephen Desberg e Enrico Marini: mi piace proprio l’atmosfera che hanno creato, anche se forse il disegno è un po’ lontano da quello che piace a me.
E Storia del West?
L’ho scoperta andando in studio da Renzo. Ero affascinato dalla prima parte, quella dei cacciatori, l’inizio in cui percorrono il fiume con quel barcone. Le leggevo con gli autori vicini, quindi sapevo tutto di come sono nate, a cosa si sono ispirati… Le scene col barcone, ad esempio, ricordavano molto Il grande cielo di Hawks, con Kirk Douglas.
Quindi anche a te, come a Calegari o a Pratt, piace di più quella fase pre-western, quella della rivoluzione Americana, della guerra dei sette anni, di Fenimore Cooper…
Si, mi ha sempre affascinato. Quando ero ragazzo erano gli anni in cui in televisione passavo molti sceneggiati come Alla conquista del West, Colorado… Colorado in particolare era bellissimo. Anche quella, come Storia del West, era una saga famigliare: il giovane inglese che si unisce al cacciatore di pellicce, diventa cacciatore di pellicce a sua volta e dà il via alla saga famigliare che arriva fino ai primi del Novecento.
Quindi amerai il Capitan Rogers di Pezzin e Corteggiani, disegnato da Giorgio Cavazzano…
Lo adoravo. Lo seguivo quando usciva sul Giornalino e contemporaneamente uscivano le illustrazioni di Renzo sulla storia del West. Il disegno di Cavazzano è accuratissimo: i personaggi erano comici, ma aveva una capacità incredibile di rappresentare la natura in maniera realistica. E poi gli indiani: gli shoshoni, gli irochesi, tutti abbigliati in modo diverso…
E Ken Parker invece?
Ken Parker in casa non entrava perché non piaceva a mio papà. Non gli piaceva il tratto di Milazzo e non gli piacevano le storie. I pochi numeri che riuscivo a trovare (perché non si trovava nemmeno facilmente nelle edicole, all’epoca) invece li adoravo. Ken Parker l’ho scoperto in età più adulta. Le storie che ho amato di più sono il numero 27, C’era una volta, scritta da Berardi e disegnata da Trevisan, poi Adah. Lily e il cacciatore e Un alito di Ghiaccio, era cinema! La leggevamo a voce alta con mia sorella: io recitavo tutti i personaggi maschili e lei quelli femminili. Il disegno di Trevisan era molto umano, e anche se ero un ragazzino queste cose mi affascinavano…
Gli eroi della EsseGesse li conoscevi?
Mai letti. Sapete, quando sei ragazzino leggi quello che compra il papà e ti abitui a quello, poi cresci e i gusti si affinano.
Sergio Bonelli l’hai conosciuto?
L’ho conosciuto grazie a Renzo. Erano amici e spesso siamo andati a pranzo tutti insieme. Ero giovane, Sergio mi affascinava.
Quali sono i tuoi film western preferiti?
Per me il capolavoro assoluto resta Sentieri Selvaggi.
Di più recenti?
Gli Spietati mi è piaciuto parecchio, e poi alcune serie come Deadwood e Hell on Wheels.
E gli Spaghetti Western?
Non li conosco particolarmente, ma non mi dispiacciono. Alcune cose, come C’era una volta il West, mi son piaciute tantissimo. È in fondo un western molto americano, ma con i ritmi dello Spaghetti Western. E poi dal western all’italiana attingo molto, come disegnatore, per quanto riguarda le caratterizzazioni di alcuni personaggi secondari.
Leggevi Larry Yuma?
Si, anche se non amavo troppo Boscarato… Ho guardato spesso Blueberry, anche se da leggere lo trovo faticoso… Comanche lo amo molto, e in particolare ammiro la dinamica del disegno di Hermann.