di Filippo Scòzzari*
È primavera, si dà aria alla casa, si stendono le lenzuola al davanzale, si guardano i peli spuntare a’ fanciulle e l’erba diventar robustetta, si fa entrare il sole nuovo dalle finestre. E poi la solita menata di mandorli, rondini e campane, per chi si eccita con queste cose. Sul davanzale della memoria sciorinerò antiche bandiere forse sbiadite, ma non odorose di muffa, né tarmate. Sarebbero, le nostre, pagine da rileggere in piedi, a voce alta e col cappello sul cuore, ma non me lo impongo. Le leggo come mi pare, spesso anche in bagno.
In un qualche modo distorto, Giampy aveva indovinato. Nella follia di quei mesi, tra cortei, canne, Residents e lacrimogeni, la Traumfabrik divenne veramente un centro d’aggregazione, pieno di fermenti. Sfiga voleva che io ci dormissi, tra quei fermenti, ma mi divertivo come un pazzo. Il Centro D’Urlo Metropolitano divenne i Gaznevada, da un’idea di Rappini che aveva storpiato il titolo originale di un giallo di Chandler. (Il Nevada gas era il gas di cianuro con cui negli USA stoppavano agli spiritosi la voglia di far gli spiritosi. Adesso triple siringhe, più up to date). A parte la musica e l’oppio, che non erano proprio il mio genere, disegnavano alla selvaggia, e saltavano fuori cose incantevoli. Ne ero colpito. Suggerii di non buttare via niente, che non facessero gli stupidi per carità, e le cassette da frutta e i bidoni che Giampy raccattava di notte cominciarono a riempirsi.
Giampy s’era specializzato nel dipingere su fogli di giornale con gli acrilici che avevano iniziato a fottere nei negozi di belle arti e a trasformare le foto delle riviste di moda. Da Bob Dylan era passato ad Andy Wahrol e nel cambio ci aveva guadagnato. Inventava cose belle poi, non domo, le fotografava con la Polaroid. E sciupava tutto pistolando ad acrilici anche quelle fotine quadrate.
Giorgino Lavangna, che se non entrava in competizione con qualcuno stava male, per non essere da meno dipinse un ritratto meraviglioso, un mezzo busto flippato sulla caldaia in disuso dell’appartamento. Faccia blu, celeste, rosa, nera, su un fondo rosso infarto. Averlo adesso.
Karletta, gambe storte ma un viso da sogni e il culo pure, che era stata modella per Vogue ma che per storiacce sue era dovuta scappare da Milano, dipingeva e componeva vetrate un po’ così, non il massimo, ma sempre meglio che vedersela tornare fatta come una cucuzza.
Sandra s’inchiodò a dipingere giornali per dodici ore filate, in ginocchio, senza mai alzarsi o spostarsi. Era in acido, e perse l’uso dei piedi per quasi un mese. Non ricordo il risultato ma fu la performance in sé a emozionarmi, il godermi la stranezza di ragazze dedite non solo a smorfie.
Sandro Rappini, il più versato nel disegno, e dal quale avevo comprato un cavalletto telescopico vinto da ragazzino in un concorso di pittura, aizzato da me cominciò a creare fumetti straordinari, che realizzava su foglietti sciolti, un foglietto una vignetta. Le figurine, praticamente. Una tecnica flippata ma efficacissima, e divertente. L’unico che abbia mai conosciuto capace di creare qualcosa di maturo senza rifarsi a modelli precedenti. Mi si elettrizzavano i capelli, che cominciavo a perdere (comunque ero bellissimo). Quando si stufava muggiva in un sax quel tanto per farsi odiare, poi usciva a cercare stecchette di fumo.
Iggy Pop. Dum dum boys. Sputati.
E poi naturalmente c’era Andrea, che in quel pasticcio s’infilò di gusto. Era della stessa pasta. All’inizio, da bravo meridionale, tentò di fare il fenomeno e la sera che lì in casa lo presentai ai ragazzi rifece lo stesso numero che aveva tentato con me nel pomeriggio, torrenziali racconti di cacce epiche col padre e col fratello. Per suffragarhe se l’era portato dietro, il fratello, che infatti cominciò pure lui a sragionare di cavalli, fucili e setter irlandesi. Il trucchino non riuscì, a Michele meno ancora che ad Andrea, essendo rispetto al fratello un centesimo in ogni cosa meno che nei baffi foggiani, il triplo. Un triplo D’Alema.
Rappini al cesso mi chiese beffardo che viaggio si facevano quei due, chi m’ero portato dietro, dove li avevo trovati. Le ragazze furono freddissime.
Setter. Doppiette Beretta. A Bologna. Nel 1977. Andrea dopo un po’ capì, Michele è ancora lì che ci pensa.
In settembre si tenne una bella tre giorni sull’antirepressione. L’intero ’77 italiano si concentrò a Bologna per cercare di capire chi lo stava fottendo e come aveva fatto a farlo così bene e così in fretta. I portici, dalle Due Torri all’università, furono tappezzati di sacchi a pelo. “L’enorme creatività del movimento” si ridusse nello sfilare e saltellare truccati e vestiti da pagliacci, con cimbali biacca e tamburi, tra sestuple ali di carabinieri zeppi di anfetamine e con una grandissima voglia di spaccar teste. Da oltralpe portarono un costruttivo contributo al nulla i gemelli siamesi Deleuze (in spirito) e Guattari, rizomi infruttiferi. La Tre Giorni sancì la schizofrenia tra Autonomia Organizzata, finalmente dotatasi di iniziali maiuscole pure lei e che si concentrò al Palasport, e il movimento, che dovette ripiegare, tutti giù per terra, sul crescentone di Piazza Maggiore, il marciapiedone centrale esaltato dai comunisti per impedire alla gente di dire in giro che Loro non prestano attenzione ai bisogni. Televisione e giornali ebbero occhi unicamente per i bufali del palasport, marchiati come pericolosi e quindi più appetibili per lo show. Fu uno dei primi esperimenti riusciti di deliberata concimazione dell’isteria italiana, imbastita di ignoranza, vero, palpabile odio di classe, terrore del forestiero, vita microscopica, mancanza di curiosità, perdita della meraviglia, inerzia culturale. Insomma isteria più imbecillaggine. La Bologna effervescente e ribalda, cane riottoso convinto di non aver collari, non ne era cosciente, né tantomeno aveva strumenti per rintuzzare le manovre: il nemico azzannava su molti fronti, abituato a infrangere speranze e progetti. Non si stava difendendo da niente, i ragazzini sono ridicoli, sono brufoli innocui; semplicemente stava imparando, si stava nutrendo per le battaglie successive. Eccola, Caporetto.
Anche le tre stanze della Traumfabrik si ricoprirono di sacchi a pelo. Non volendo calpestare nessuno, verso le due di notte andai a dormire a casa di Bifo, in via Marsili. Sacchi a pelo il quadruplo che da me, così tornai in Clavature. C’era una che dormiva nel mio letto, dentro al suo sacco. Senza svegliarla, tra mille cautissime bestemmie in sordina afferrai il bozzolo kaki militare e piano, delicato, infinitamente premuroso, lo feci scivolare a terra, dove continuò a fare dolce le fusa. Poi, cuculo stanco, m’infilai nel suo calduccio.
Fui svegliato molto presto, con un sarcastico bacino sul naso, dalla tipa del bozzolo. Era in maglietta, senza mutande, e brutta. Belle gambe però. Dalla finestra un raggio mattiniero trasformò in arcobaleno una bavetta bianca che le dondolava fra i peli. Io, che di mio avevo già pronti molti argomenti di conversazione, come succede ai ragazzi a quell’ora, mi levai a mezzo frenetico, nerchiamente deciso a farle spazio, ma il suo “Stai pur comodo, cavaliere generoso. Me ne sto andando” fece rientrare in me ogni antenna, come gli occhini delle lumache. Caporetto l’ho già detto.
In Piazza Maggiore, sotto l’Orologio, mio fratello e io fummo avvicinati da una carina, durissima. L’avevo adocchiata da un bel po’, mi piaceva ma non sapevo nulla di lei, a stento il nome. Era sempre al centro di un manipolo di cyborg che si guardavano attorno molto attenti, che cosa potevo fare. Barbara Azzaroni. Salutò mio fratello e si rivolse a me:
“Ciao. Stasera arrivano centocinquanta pacchi di Mai Più Senza Fucile. Tieni pronta la casa”.
“Sì? Chi me li manda? E come arrivano, tramite Traco?”. Il fatto che fosse carina non l’abilitava a darmi ordini. I cyborg non si vedevano.
Sbatté gli occhi e fece un passo indietro. “Allora. Sai già dove metterli?”. Stavo per darle consigli in merito ma mio fratello mi afferrò un braccio e s’intromise. “Sì Barbara, mandali verso le dieci, non ti preoccupare”.
Quando la ragazza s’allontanò Paolo mi chiese che gusto provassi ad aprire sempre la boccaccia a cazzo.
Alle dieci e un quarto centocinquanta pacchi freschi di stampa torreggiavano in mezzo alla stanza col parquet. Giampy entrò, disse soccia ragazzi, rise e uscì di casa. Ero incazzato come una iena con mio fratello.
“E adesso?”
“Aspettiamo due o tre giorni poi vediamo”. Quella notte dormì lì con me.
La mattina presto suonarono e uno mi avvisò che in giornata quasi sicuramente la squadra della politica sarebbe venuta a romperci i coglioni. “Se avete qualcosa da far sparire, fate sparire”. Gli Scòzzari Brothers non furono mai così veloci a farsi prestare la vecchissima Dyna Panhard di Zanobetti, che non chiese nulla, a far scendere due rampe di scale ai maledetti centocinquanta pacchi, a far scuotere la testa ai fattorini dei bar e del fornaio per come avevano caricato la povera Dyna, e a schizzare a seicento all’ora a casa dei genitori. Quando c’è una minaccia dove si scappa se non dalla mamma? Ridendo come scemi nascondemmo 150×30=4500 copie di Mai Più Senza Fucile nella cantina, riempiendola fino al soffitto. Nessuno venne mai a reclamarle. Credo che siano ancora là.
Pochi mesi dopo Barbara Azzaroni fu uccisa in un bar di Torino in un conflitto a fuoco con la polizia. Sul giornale studiai la pancia scoperta.
Prima Linea, mica cazzi. Mi sentii defraudato.
Irreversibilmente sciroccato, Giampy, senza chiedermi nulla, pensò bene di cedere la stanza comune, quella col parquet, a Marco Guidelli, un altro bimboide della tribù, un figlio di ricchi che voleva vivere un po’ con noi per emendarsi dai soldi del babbo imprenditore. Anche lui con baffetti, a cercare di nascondere una orribile bocca andreottiana, senza labbra. Mio fratello lo battezzò Bocca di Pesce, e lui tòt cuntànt. Era un bravissimo fotografo, che si manteneva immortalando stand alle fiere o padroni che si fanno stringere la mano dall’impiegato che va in pensione. Mi fece belle, bellissime istantanee, le uniche che ho di quel periodo. Aveva occhio e una gran mano. Beccava le situazioni al volo e non ne scazzava mezza. Ostentava una Nikon a tracolla, di cui, supremo vezzo, aveva occultato il marchietto con adesivo nero. E come gliela invidiavano, i poveri miei figlioli.
Così non dormii più solo: io nella prima stanza, Giampy nella seconda, dove s’era finalmente deciso a rizzare un soppalco coi suoi tubi innocenti azzoppa disegnatori. L’aveva poi armato con un materasso trovato di notte in via Orefici, sul quale la giudiziosa Pani rifiutò sempre di farsi operare alle pulsioni di morte.
E Bocca di Pesce nella terza camera, in fondo, col valigino anodizzato da fotografi vincenti sotto il letto.
Poiché però i figli dei ricchi, per quanta buona volontà ci mettano, rimangono marchiati a vita dai begli imprinting a burro & marmellata, Bocca di Pesce non resistette all’odore di popolo che avvertiva ogni mattina al risveglio. Dopo due settimane scarse di martirio cedette la stanza, senza avvertire me o Giampy, a Patrizia, una sconosciuta elegante faccia da vacca. E con Patrizia alla Traumfabrik fece il suo ingresso, pompa e circostanze, l’eroina.
Tah ta tataan.
Giù tutti, cani. Fate la riverenza. Giù, alla pecora. E guai chi si alza.
I miei ragazzi non è che fossero proprio alieni dalla tentazione ma, insomma, fino a quel momento avevano marciato ad afgano, quando lo trovavano, e sull’asse del water avevano vomitato solo oppio, se erano riusciti a rimpinzarsene. Patrizia faccia elegante cominciò a farsi di fronte a quelle anime studiose e indifese.
Il primo a cadere ipnotizzato fu Gianluca. Bruciò le tappe così alla svelta che già due settimane dopo lo chiamavo “Steringa”, come le siringhine da insulina di cui era diventato ghiotto. Peccato, uno dei più simpatici. Nei Gaznevada adottò poi il nome da battaglia di Nicko Gamma ma era la stessa musica.
Karletta era dotata di una personalità potentissima, centuplicata da occhi verdi fenomenali e da una voce roca di pompinara terminale, doti con le quali accelerò ancor meglio la faccenda. Era l’unica del mazzo a farsi già prima di entrare in Clavature ma le sue storie se le era sempre sbrigate in Piazza Maggiore. Adesso, con bel tempismo, aveva deciso di esibire tra noi sia le valvole dei gomiti che le fiale di metadone, distribuite ai miei stronzetti con imparzialità e guadagno. Ogni tanto si faceva inseguire fin dentro casa da qualche energumeno bidonato in piazza e prendeva le sue belle randellate. Quanti se ne sono usciti, ancora imbestialiti, piene le mani di ciocche e la faccia di graffi. E noi a guardare in silenzio gli happening; mi proibivo di applaudire.
Con un esempio come la Karletta sotto gli occhi impossibile resistere, anche noi vogliamo diventare così spettacolari, perché negarcelo? Anche noi dobbiamo. E poi il metadone, non costa quasi un cazzo. C’è pure da diventarci ricchi, con un mercato che si evolve così in fretta… E poi, chissà, con la nostra siringhina che spunta dal taschino della giacca, sai quante fighelle si faranno ammaliare dalla nostra aria di birilli marci e navigatissimi…
Ai miei cavalli inciampati azzoppati Karletta sparò in testa. Ele fu il secondo birillo a ruzzolare. Cominciò a farsi e a spacciare, acquisendo potere e odiosità.
Uno a uno caddero anche gli altri, ingolositi dalla facilità con cui faccia elegante e Karletta entravano in paradiso. Ciro, Giorgio, Giampy, Dondèn e un cretino terribile che si era aggiunto alla baracca proprio in quei giorni, Tino Rusco. Notissimo, perché durante le barricate di marzo era stato acciuffato da carabinieri in orgasmo. Con amore e passione se l’erano rifatto nuovo coi calci dei fucili e in barella, più di là che di qua, tenuto insieme da bende e ingessature, era stato portato prima in tribunale e poi in galera per qualche mese. Sui muri del centro c’era ancora qualche manifesto con lui mummia bianca sdraiata davanti al giudice. Quando uscì venne a festeggiare da noi in Clavature e incocciò nella faccia elegante della lercia e nelle facce estatiche degli amici. Fu sveltissimo a mettersi al passo e a superarli. Un fulmine: fu il primo morto di Aids a Bologna.
Andrea si fece incantare e incannare pure lui.
Davanti ai miei occhi orripilati il buon Tino gli sverginò il gomito, impartendogli in seduta unica una lezione magistrale su filtri, aghi, limoni, accendini, cucchiaini, lacci emostatici e sull’accorta manualità che deve soprassedere a fuori vena, risucchi e richiamini. Miele alle orecchie di Paz: centinaia di volte l’avevo ammirato mentre esibiva la consumata destrezza con cui confezionava canne strepitose, dritte, precise, che con una passatina d’accendino perdevano il cappelletto perfettissimo. Quanto ne era orgoglioso. Chissà da chi l’aveva imparato. Poiché il mio gruppo di smandrappati era dotato di un notevole potere di fascinazione complessivo, per quello che erano e quello che facevano – li odiavo, ma nemmeno io riuscivo a odiarli veramente. L’odio è un lavoro, diceva Giampy – ed essendo quell’Andrea voglioso di esperienze e appartenenze, perciò indifeso, immaginai spesso che il disastro l’avessi determinato io semplicemente presentandolo alla congrega. Ma sono concatenazioni sulle quali si può ragionare solo dopo, semmai, e indimostrabili. Ho il sospetto, va bene? A ogni modo mi sono assolto.
Toccò pure alle ragazze. In fretta. Le Sandre, Minka, Beiba, Daiana, altre che arrivavano in lïeta visita turistica e che restavano all’amo, Susanna, Paolina… A volte spuntava il volto angosciante della poetessa Patrizia Vicinelli, che non sapeva cosa farsene di quei bimbi e se ne andava. Gite d’encomio? Gite d’esplorazione e studio? Gite d’addio? Chi lo sa.
La mia stanza era proprio di fronte allo stanzino del cesso. Mi ci rintanavo a disegnare e a maledirli ogni minuto: avevo imparato a riconoscerli dagli scrosci di vomito. Le più sbracate, quelle coi grruooaaaplschh più sonori erano le ragazze, chissà se c’entrava l’anatomia, ma erano i maschi i più dannosi: non uno che pulisse gli schizzi d’anima che impillaccheravano tazza e muri. Nei suoi rari attacchi d’igiene, Giampy là dentro ci lavava i piatti ma non mi convinse mai.
Quando non ne potei più, un secondo già troppo tardi, beccai la troia e quello stronzo di Gianluca, che per star più vicino alla fonte ci si era pure fidanzato, e di fronte a un Giampy, per la prima volta mutolo e senza tante pernacchiette, minacciai folgori e pugni se non avessero alzato i tacchi entro un’ora. La figarda obbedì, chissà su quale panchina è crepata, così pensai d’aver risolto la questione.
Era l’intera Bologna a essersi trasformata in una Traumfabrik, caro Scòzzari, stolto don chisciotte. Mio fratello quell’estate se ne era andato con una ragazza a farsi un giro in Africa. Quando aveva lasciato la città non si faceva nessuno. Al suo ritorno, due mesi dopo, si facevano tutti.
Poco prima degli stati generali di settembre parlai ad Andrea di un giornalino autogestito nel quale mi apprestavo a entrare, Cannibale, che ’sto Tamburini aveva battezzato scippando il nome a una storica rivista dada francese, Le Canibal. S’era formato uno strano arco diastaltico tra il ’77 italiano e quei nostri antichi cousin tanto ribaldi e sovversivi e Stefano, coi radar sempre molto accesi, aveva beccato anche quella particolare onda. Gli indiani metropolitani no, je stavano sull’anima, ma dada sì. Ad Andrea parlai parecchio di Stefano, brocco con la matita ma con tante idee, e del suo giornalino. S’accese subito su Cannibale e su quello che potevamo fare per migliorarlo.
E, molto naturalmente, avevo parlato a Tamburini della mia Traum, del pazzo disegnatore bravissimo piombatomi tra capo e collo, che si chiamava Andrea Pazienza e che Stefano avrebbe fatto bene ad acchiappare al volo. Gli descrissi con accenti aulici Giampy, la Karletta, i Gaznevada, le cose straordinarie che succedevano in Clavature.
Moriva dalla voglia di venire a Bologna, che da lontano giudicava una sorta di San Francisco, e visitare la Traum, factory scozzariana che gli avevo dipinto anche troppo benevolmente, tacendone gli aspetti merdoso-eroinici.
E arrivò, naturalmente, proprio per la tre giorni, assieme a Massimo Mattioli. All’epoca Stefano aveva una facilità di spostamento che Massimo e io gli invidiavamo: come figlio di conduttore delle ferrovie ogni anno aveva diritto a seimila chilometri gratis sulle linee italiane, in prima classe. All’ultimo anno d’università (quello) la bazza si sarebbe esaurita, basta più, stop, e già cominciava a preoccuparsi, ma intanto era a Bologna.
Si presentò in Clavature con una tuta bianca da imbianchino e un paio d’occhiali da saldatore. Gli fecero grandi feste, cazzo sei quello che fa Cannibale, Scozzari ce l’ha fatto vedere, gran bel viaggione. Fatti ’sto spino. Passò la notte ad accannarsi come se fosse l’ultimo giorno dell’universo, a parlar di fumetti, a girare nel souk, a immergersi nella fauna imbambolata della meravigliosa Piazza Maggiore, che gli accendeva stelline negli occhi e che a vederla adesso uno non ci crederebbe. Uno adesso la vede e dice, ehi, ma cos’é, Guastalla?
La nota stonata la mise quel deficiente di Ciro, che con una spada insanguinata cominciò a fargli zak zak zak “Ne vuoi un po’? Ne vuoi un po’? Dai che è buona, ne vuoi? Adesso ti buco, occhio che ti buco” e zak zak zak, a mimare affondi scherzosi con una steringa dall’ago storto. Naturalmente, essendo Ciro uno sballinato, finì che riuscì a graffiargli un braccio. Stefano per anni ricordò tra divertito e scandalizzato la cerimonia di benvenuto alla Traum.
Era il terzo giorno del convegno, la casa mi s’era un po’ sgombrata, la tizia permalosa con la rugiada nella figa e i suoi amici se ne erano andati, così potei ospitare Stefano, Massimo, e perfino José Muñoz, che non vedevo dai giorni delle riunioni e che aveva approfittato dell’occasione per venire a trovarmi.
Portai anche quella banda a mangiare dalle Sorelle Trebbi, che non mi premiarono con nessuno sconto nel futuro. A un tavolo incontrai Bocca di Pesce che faceva la ruota insidiando una moretta ricciolina, molto per benina. Ce la presentò, era di Siena e si chiamava Betta. Abitava proprio di fronte alle Sorelle, e reggeva una gavettona d’alluminio a più strati. Era venuta a prendere la cena per la mamma e il fratellino. Bocca di Pesce non aveva ovviamente voglia di stare lì con noi, prese sottobraccio Betta e ce la portò via.
Mangiammo, scherzammo, parlammo. José era un tantino teso. Per arrivare alla trattoria avevamo dovuto forare il triplo strato di carabinieri che proteggeva il tribunale e avremmo dovuto farlo anche al ritorno. Nella sua qualità di fuoriuscito argentino non se la vedeva per niente con teste di cazzo in divisa. Come dargli torto? Magari l’assassino di Lorusso era lì che ci guardava con la sua barbetta alla Italo Balbo, che appena ne vedo una sento subito odor di sterco. Credo avesse anche problemi col permesso di soggiorno.
Al ritorno José digerì a stento quando dovette ripassare attraverso gli scopini da cesso, era di un bel verdino che gli donava, ma non successe un cavolo di niente e in Clavature trovò Karletta, sua ammiratrice, che lo tenne su tardissimo con le sue mattane, mentre io a suon di cretinate a raffica e ogni tanto un bicchier d’acqua dovetti far da infermiere a Massimo, che aveva esagerato col fumo e stentava a rimanere su questo piano della realtà.
La mattina dopo Stefano e io accompagnammo José alla Cartoleria Palombo, una antica cartoleria sotto casa, specializzata in articoli che non si trovano più. Con grandi sospiri di sollievo poté fare il pieno dei suoi favolosi pennini Perry Attorney Pen, in via di estinzione ma gli unici coi quali riuscisse a disegnare, perché sono i soli che a girarli e a premerli un pochino formano una sorta di coda di rondine, adattissima per le campiture di nero. Chi conosce le magie a china di Muñoz capirà il suo dramma. Comprò l’intera giacenza di Attorney Pen e ci salutò per tornare dalla tettona bresciana. Bologna l’aveva saziato. Stefano mi regalò una vecchia bottiglia da ¾ di china nera Pelikan. Andrea Pazienza mi stava introducendo proprio in quei giorni ai misteri e alle delizie dei pennarelli neri e dei Pantone a colori. Istigato, dopo un po’ tradii la causa dei Winsor & Newton N. 3, pelo martora, da allora non ci diamo più del tu e quella boccia di china non riuscii mai a finirla. Ce l’ho ancora.
*Questo brano è tratto dal libro Prima pagare poi ricordare. Memorie dell’arte bimba. Fanciulli pazzi. Tutta la storia di Filippo Scòzzari. © Fandango Libri 2017.