HomeRecensioniNovitàLe 'Rovine' di Peter Kuper, tra ferocia grafica e stereotipi letterari

Le ‘Rovine’ di Peter Kuper, tra ferocia grafica e stereotipi letterari

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Una farfalla monarca emerge dalla crisalide da qualche parte sul bordo della Statale 87, iniziando così un lunghissimo viaggio che la porterà in Messico. Contemporaneamente, a New York, una donna sta urlando per i dolori provocati delle doglie. Invece di un bambino partorirà un libro. È «prematuro e sottile», diranno i medici. Si tratta, naturalmente, di un sogno. La donna tormentata da queste visioni notturne, Samantha, si sveglia. Insieme al marito Sam, pittore con un passato da entomologo, sta per trascorrere un anno sabbatico a Oaxaca, nel Sud del Messico. Lei approfitterà di questa pausa per lavorare al proprio libro, lui per ritrovare l’ispirazione. Entrambi dovranno ricucire un rapporto che si è sfaldato, principalmente a causa delle titubanze dell’uomo su una futura, possibile, paternità.

rovine peter kuper

La farfalla e gli altri protagonisti di questa storia sono, naturalmente, destinati a ricongiungersi. Con questo parallelismo narrativo e con la – non proprio felicissima – metafora visuale del parto, si apre Rovine di Peter Kuper, vincitore del Premio Eisner come miglior graphic novel del 2016. Un libro che, superato il pesante didascalismo che caratterizza le prime pagine, potrà riservare al lettore momenti fumettistici e soprattutto puramente grafici molto intensi.

La sequenza di apertura, con il suo parallelismo di una trasparenza brutalmente efficace, mette subito sul piatto tutti i temi che verranno trattati: la maternità, intesa anche come ossessione e riflessione sulla necessità della nostra presenza; la fragilità della natura; gli abusi che l’uomo commette nei confronti dell’uomo e dello stesso pianeta. Il viaggio della farfalla, infatti, che si sviluppa lungo le prime pagine di ciascun capitolo, è narrato in totale assenza di parole e attraverso limpide e inequivocabili sequenze che hanno la forza senza sfumature né dubbi della cartellonistica di propaganda, ricordano il lavoro del Kuper migliore. Un Kuper fortemente ideologico, ma capace di momenti di alto lirismo che riportano l’uomo all’interno di un discorso che, altrimenti, sembrerebbe volerlo includere solo in quanto elemento di un meccanismo.

Kuper è noto al pubblico internazionale e in particolar modo italiano per alcuni notevoli fumetti muti (o poco “parlati”) quali Il sistema, La metamorfosi (da Kafka), oltre che per lavori come Stick and Stones, la storica serie Spy vs. Spy sulle pagine di MAD Magazine e la co-direzione della rivista – “antagonista”, si sarebbe detto un tempo – World War 3 Illustrated.

I wordless novel che lo hanno reso celebre – frutto dell’adesione, stilistica e ideologica, ad una precisa tradizione artistica e narrativa, quella del woodcut novel – sono più vicini al pamphlet o al racconto morale piuttosto che al romanzo comunemente inteso. Tuttavia, nel passaggio con Rovine da quella produzione alla forma del “graphic novel”, la ruvida e graffiante capacità narrativa dell’autore statunitense ne esce piuttosto annacquata. E il tentativo di produrre una “prosa” più articolata, raffinata e minimale, non sembra del tutto riuscito, soprattutto per quanto riguarda la scrittura dei dialoghi, ma anche nei suoi effetti sulla caratterizzazione dei personaggi.

Tra umanità e letterarietà

Rovine è un libro certamente ben progettato, in primis sul piano della struttura, che fa viaggiare in ‘in parallelo’ la storia di una coppia e quella di una farfalla. Tuttavia proprio nel passaggio dal grande al piccolo, dal sistema agli uomini e alle donne che lo compongono, si svela la quantomeno parziale inadeguatezza dell’autore come osservatore e ritrattista della natura umana. È infatti difficile trovare vera, vibrante, calda e credibile umanità in questo libro. Dal mio punto di vista questo limite ha a che fare con un approccio alla dimensione “letteraria” che suona consunto e prevedibile. Ma provo a spiegarmi meglio.

rovine peter kuper

La sequenza iniziale mi sembra un buon esempio. Senza perderci nella querelle letteratura vs. fumetto (o fumetto come genere letterario) è pacifico ritenere che esistano metafore letterarie che, trasposte in immagini, risultano spesso stridenti, così come è valido il contrario. Il “sogno del parto del libro” – se non inserito in un contesto, come dire, cronenberghiano? – suona allora come un’immagine trita, soprattutto per un appassionato di letteratura. La sua trasposizione visiva non supplisce a questa deficienza, come in altri casi invece accade, ma anzi ne sottolinea con più forza la banalità e il carattere fin troppo facilmente riassuntivo. È una forma cristallina, che non contiene alcun mistero. Conclude un discorso, non lo apre. Naturalmente nel corso del libro il significato di questa sequenza si espanderà grazie a ciò che verremo a sapere sul vissuto dei personaggi, ma già esaurisce in sé molti interrogativi che l’opera vuole porre. Una donna, ossessionata dall’idea della maternità, e che sta cercando di trasporre questa ossessione in un libro, è in conflitto con l’uomo che (forse) ama, perché questi non si sente pronto per il grande passo. In un libro con un progetto diverso – e una foliazione minore – questa estrema capacità di sintesi sarebbe potuta essere una soluzione da apprezzare. Qui, dove invece l’intenzione è di restituire, fra le altre cose, un realistico e credibile rapporto di coppia, esaurisce quasi ogni curiosità.

C’è poi un altro aspetto. Il tema del viaggio all’estero, in un contesto radicalmente ‘altro’, ovvero uno sfondo problematico che porterà all’esasperazione i conflitti latenti nelle relazioni quotidiane (Il tè nel deserto, Passaggio in India solo per fare un paio di esempi), non è trattato in maniera così originale. Non abbastanza, almeno, da evitare non solo che il peso di più noti e precedenti modelli faccia sentire la propria presenza, ma anche che su Rovine si addensi il sospetto di uno sguardo esotista, probabilmente l’accusa peggiore che si potrebbe rivolgere all’autore, tenuto conto del suo vissuto militante.

Questa approssimazione o, meglio dire, incapacità di prendere una decisione chiara, riverbera soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi. I quali parlano – spesso attraverso dialoghi irrealistici – si muovono e reagiscono meccanicamente, innescando di continuo una sensazione di già visto e non di “già vissuto”. Una sensazione, per l’appunto, più letteraria che altro.

rovine peter kuper

Samantha, in particolar modo, il cui passato è quello meglio descritto nel volume, è sfuggente. Il libro che sta scrivendo, motivazione iniziale del viaggio e personale sfogo delle proprie frustrazioni, si rivela essere solo un oggetto-esca. Non è ben chiaro di cosa parli, né l’importanza che riveste non solo nella narrazione ma nel rapporto fra la protagonista e il marito. Inoltre i tormenti della donna, al di là di come vengono giustificati attraverso la descrizione di un difficile passato raccontato con enfasi melodrammatica, non bastano a renderla credibile in sé. Il colpo di scena che la coinvolge – la scena della risacca – si risolve come un colpo di teatro davvero poco probabile. Se si tratta di letteratura, in un senso molto ampio, Rovine si presenta come un romanzo enfatico che il più delle volte resta esclusivamente sulla superficie delle cose. La facile retorica – ed ecco qui di nuovo l’esotismo, che non risparmia neanche il tratteggio dei personaggi autoctoni e delle situazioni – che sottostà al parallelismo fra la percezione che Samantha ha del proprio dramma e la mitologia azteca, risulta particolarmente fastidiosa e sotto molti aspetti puerile.

A Sam, d’altro canto, personaggio in cui l’autobiografismo di Kuper (che ha vissuto a Oaxaca per due anni con la famiglia) si riversa con maggiore evidenza, è riservato un trattamento migliore. Più sfaccettato, viene reso, anche graficamente, attraverso un accumulo di nevrosi e piccole manie che ce lo fanno sentire vicino. Cosa che non accade con la quasi mitologizzata Samantha, più emblema che donna in carne ed ossa.

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Ma l’inadeguatezza del Kuper ritrattista antropologico emerge appieno nella narrazione del giornalista Alejandro. Una figura che potrebbe essere stata presa di peso da un film americano anni Cinquanta: ubriacone, disilluso, ferito da ciò che ha visto in passato. Lo stereotipo – un reporter di guerra tormentato dai propri fantasmi – è talmente evidente che quasi sorprende. Il fatto che la storia di Alejandro sia stata modellata su quella di Brad Will, giornalista statunitense ucciso a Oaxaca de Juárez nel 2006, non giustifica tanta approssimazione ed anzi, il riferimento diretto alla cronaca risulta, semmai, un’aggravante.

La ferocia nel disegno

Eppure il libro, nonostante i molti difetti, ha una sua forza quasi ferina che però traspare più dai disegni che dalla struttura narrativa. I ritratti, questa volta grafici, che Kuper fa del Messico, della sua vitalità e delle sue contraddizioni – tranne forse qualche eccesso di buonismo nel trattare i locali – sono straordinari.

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La città e chi la vive è resa attraverso uno sguardo attento. Qui, davvero, traspare l’amore del disegnatore e, soprattutto, l’esperienza diretta vissuta in Messico. Se c’è una stereotipizzazione è evidentemente voluta. Non si tratta certo di pittura realista. I contorni sono veloci e squadrati, i colori accesi, le proporzioni variabili in senso espressivo. L’influenza della pittura e della scultura messicana, attraverso la mediazione di alcuni dei suoi principali esponenti – ma anche di tanta arte popolare – è evidente, eppure l’autore non la subisce, né tenta di restituirla attraverso un’operazione di mimetismo che sarebbe risultata posticcia. Piuttosto, come forse già fatto in passato, la fonde con il proprio tratto, con il proprio bagaglio espressivo.

È su questo versante, dunque, che il libro riesce a comunicare l’incontro gravido, sincero e credibile di due civiltà. Forse Kuper non riesce a restituire tutte le anime di questo paese, ma certamente gliene fornisce una, credibile e sensibile. A differenza, come detto, delle poco credibili macchine narrative rappresentate da Samantha, Sam e alcuni altri personaggi di contorno (il Virgilio intellettuale, il focoso – e artista, amante latino ecc.). Le immagini – e infatti le sequenze che riguardano la farfalla sono le più godibili e vive del libro – sono il mezzo espressivo che Kuper controlla meglio. L’incontro con la parola, almeno in una forma così massiccia ed espansa, non ha dato buoni frutti.

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Va anche detto, in conclusione, che l’andamento meccanico dei protagonisti, il loro alto tasso di prevedibilità, la banalità dei dialoghi e il loro imporsi come insegne piuttosto che come personaggi a tutto tondo comporta, alla lunga, un effetto ipnotico che il lettore non può non subire. Probabilmente chi legge si trova sempre un passo avanti a loro, e le loro vite non riservano grandi sorprese, ma si finisce per viverle empaticamente. Un’empatia che non è mai profonda ma che deriva, appunto, dalla loro banalità stessa, a tratti irritante ma anche molto riconoscibile. A ben pensarci, si tratta di qualcosa che riguarda spesso la “brutta narrativa”: se le incongruenze non sono troppo sfacciate e le azioni non sono troppo improbabili, finisce per catturarti.

Ciò che maggiormente danneggia Rovine – l’assenza di personaggi davvero “vivi” – è anche ciò che non porta a desiderare una conclusione, un compimento. E alla fine del volume – dopo un colpo di scena che non inficia quanto detto, ma per lo meno fa apprezzare lo sforzo di Kuper nel non voler servire una zuppa totalmente precotta – si vorrebbe saperne più di loro, seguirli ancora, forse all’infinito. Senza eccessivo sforzo o coinvolgimento. Magari oziando, in vacanza, in un qualche luogo lontano che vorremmo provare a comprendere meglio.

Rovine
di Peter Kuper
traduzione di Vanni Santoni
Tunué, 2017
330 pp., colori
34,90 €

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