Blutch, al secolo Christian Hincker, è un autore enorme. Le sue opere osannate e premiate in patria, però trovano poco spazio al di fuori dei confini nazionali. Si potrebbe ipotizzare che ciò, come per alcuni autori che si trovano ad essere riconosciuti e celebri solo nel proprio paese, sia imputabile all’estrema regionalità della sua proposta, ed invece è quanto di più lontano dalla realtà. Blutch è autore europeo, nel senso più proprio del termine. Ma, nel suo farsi erede di una precisa tradizione narrativa, risulta al lettore inattuale.
L’autore di Lune l’envers – la sua ultima opera, uscita per Dargaud ben tre anni fa – è intempestivo, non per una suo attardarsi e indugiare su generi e mode ormai compassate, ma perché, molto probabilmente, in anticipo. Blutch è fuori sincrono rispetto a un’epoca che chiede commestibilità, sazietà e comodità al fumetto e al racconto in genere. Il fumetto di Monsieur Hincker, alsaziano di nascita, pertanto né francese e né tedesco, ma un “bastardo delle due culture” – come amava definirsi un altro fumettista eccellente, Didier Comès – è per sua stessa natura l’inattuale. Rispondendo a Paul Gravett, e parlando della sua stessa arte, Blutch afferma che:
«nessuna pratica artistica offre così tante possibilità plastiche e letterarie quanto il fumetto. È nel fumetto che posso usare al massimo le mie capacità. Ho tutto ciò che mi serve: le immagini e le parole. Uno strano e misterioso matrimonio, il linguaggio poetico perfetto.»
Tuttavia, come è noto, la poesia è oggi un genere desueto e isolato. Praticato da molti in maniera occasionale e umorale, senza alcun rigore, sa però dimostrarsi lungimirante e chiaroveggente. E il fumetto di Blutch è poetico, non solamente negli esiti e nell’attitudine, quanto nelle strutture ritmiche e retoriche. Questo è ben visibile in opere come La Volupté, Total Jazz o Per farla finita con il cinema, una delle opere tradotte in Italia (insieme al memoir Il piccolo Christian e al divertissement Blotch).
Leggi le prime 10 pagine di Peplum
Nei tardi anni Novanta, dopo aver contribuito a riviste come Fluide Glacial e Charlie Hebdo, Blutch incomincia a collaborare con la prestigiosa (A Suivre), serializzando sulle sue pagine quello che sarebbe diventato Peplum. Purtroppo la collaborazione si interrompe, rischiando di lasciare l’opera incompiuta. Grazie però all’interesse dell’editore Cornélius l’autore riuscirà concludere il lavoro, dandogli la definitiva fisionomia di un libro. Peplum, quindi, da opera incompiuta verrà a configurarsi, nelle intenzioni di Blutch, come opera-libro, con un rigore poetico e linguistico che ne farà un esempio delle estreme potenzialità non solo del linguaggio del fumetto, ma delle capacità del suo autore.
Sembrerebbe quasi un caso, ma la scelta da parte di Blutch del materiale che dà forma a Peplum è ponderatissima. Perché scegliere una storia ambientata nel tardo impero, ispirandosi tra gli altri all’opera romanzesca di Petronio? Forse – ed è un dubbio flebile – perché il Satyricon è ritenuto (a torto o ragione) il primo romanzo dell’antichità? È probabile. In realtà sembra quanto mai anacronistico utilizzare un’etichetta come quella di romanzo, nata in maniera rocambolesca nel corso del quindicesimo secolo, per descrivere un qualcosa di così “alieno” pure all’antichità. Qualcosa che tutt’ora, per la sua eccentricità, continua ad esercitare un discreto fascino sui lettori più smaliziati.
D’altra parte bisogna ricordare che Satyricon non ha eguali, se non una parentela con l’opera di Apuleio, e sancisce la nascita di un nuovo modo di guardare la realtà: un realismo anti-retorico e quasi post-moderno nell’accumulo di situazioni e fonti tra le più disparate. Dal mitico al comico, passando per il grottesco e l’erotico, rimane stupefacente pur nella sua – ahinoi – incompiutezza. Un’opera che sancisce nonostante la sua frammentarietà la creazione di un nuovo canone narrativo rispetto all’epos tipico del racconto omerico o al romanzo d’amore greco. Petronio, arbitro d’eleganza, dà voce al tardo-antico con un pastiche dai toni carnali e licenziosi, impietoso e – per i poveri amanuensi che ne tradirono il testo – scabroso. Non dissimile da L’asino d’oro di Apuleio, di cui anche Manara ha dato una sua personale interpretazione – calligrafica, mansueta e di facile consumo – il Satyricon fonda la tradizione picaresca, che tanta fortuna avrà durante la nascita del romanzo moderno (si pensi alle surreali situazioni messe su carta da Cervantes e Rabelais).
Peplum si svolge per episodi in cui si accumulano situazioni, che esorbitano di capitolo in capitolo, contribuendo a creare un clima anfibio, teso tra ansietà – a causa delle chine grevi e materiche – e il comico andante, visto l’eccentrica surrealtà degli eventi narrati. Blutch pesca dal calderone petroniano e trasfigura la materia narrata, immergendola in un’atmosfera da incubo. L’incipit ci introduce in un clima che sembra ammiccare alla cinematografia di Herzog (penso alla sequenza iniziale di Aguirre, furore di Dio) o del Refn di Valhalla Rising, mostrandoci una sparuta compagine di uomini, in lotta contro il freddo, intenti nella ricerca di un fantomatico tesoro: una donna imprigionata in un sarcofago di ghiaccio. La spedizione, guidata da Publio Cimbro, un uomo libero caduto in disgrazia, decimata dalla fame e dal freddo, arranca per le provincie settentrionali dell’Impero sino a che proprio Cimbro verrà ucciso da un ragazzo senza nome, il quale, a omicidio compiuto, ne usurperà il nome.
Le pagine che seguono vedono il giovane protagonista alle prese con alterne vicende, in un crescendo continuo. Nelle figure tracciate possiamo intuire le ombre di Encolpio, dell’efebo Gitone e del retore Eumolpo, ma sono appunto solo spunti, che vengono interpretati e modulati in un contesto dove l’ironia tardo-antica di Petronio lascia il campo ad uno spartito virato al nero. Lo scherzo petroniano assume un tono grottesco ed esistenziale: una sinfonia in minore, fatta di contrappunti veloci. Il tema condotto da Blutch in maniera radicale, grazie alla dimensione ancestrale dell’antichità, è la natura del desiderio.
Il protagonista rincorre l’oggetto desiderato. E dopo averlo ottenuto attende seduto sotto le stelle, come i soldati di cui parla Cesare nel De Bello Gallico, fermi sotto la volta celeste in attesa del ritorno dei compagni partiti anzitempo in avanscoperta. Allora, è chiaro che il desiderio presuppone una distanza o molto più facilmente un’assenza. Ed è proprio in questo vuoto che cresce la fame. Il desiderio, qui, risuona proprio come fosse fame. La stessa radice latina FA corrisponde a quella greca CHA, da cui CHA-tis, cioè mancanza, indigenza, desiderio, CHA-teo, sono mancante, desiderio. Quindi mancare: nella logica di un’etimologia che si muove più sul confine labile del senso che della stretta filologia, mancare in qualcosa, cioè sbagliare o più propriamente e, poeticamente, errare. Ed infatti il desiderio di Cimbro è fallace. Lo conduce alle soglie dell’impotenza, sintomo evidente dell’approssimarsi di una catastrofe – un vero e proprio capovolgimento – che lo condurrà di colpo alla consapevolezza.
Ormai adulto, osserveremo l’usurpatore zittire un simposio di anziani, citando un aneddoto sull’assedio dei Numantini:
Conoscete la storia di quelli che avevano così tanta fame da mangiarsi l’interno delle guance?
[risate]
Quando Numanzia venne presa da Scipione, si trovarono delle madri che stringevano al seno i corpi mangiati a metà dei loro figli.
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Nuovamente, la fame, l’inedia, la disperazione del corpo. Ed è proprio il corpo – o meglio la carne – il protagonista della pièce di Blutch:
Spero di non sembrare pretenzioso ma io vedo la carne come simbolo, la carne che soffre che invecchia, il viso che crolla. Quando disegnavo Peplum era già evidente la decadenza, i personaggi erano su un tapis roulant che ineluttabilmente andava vanti e che porterà me come tutti voi nello stesso luogo. Tutte le azioni umane sono costruite per farci dimenticare che moriremo (da un’intervista di Matteo Stefanelli)
Non è un caso isolato. Il fumetto di Blutch, nel suo complesso, non è estraneo al teatro e alla sua fisicità drammatica. Peplum potrebbe essere letto scindendolo dal testo, spesso volutamente appesantito da un tono desueto e letterario. È un fumetto che attinge tanto alla teatralità classica, cogliendo alla radice la familiarità tra dramma e danza. I volti sono maschere, amplificano attraverso una gestualità grottesca la messa in scena dell’azione. La resa della pagina è coreografica: i volumi sono plastici e al contempo segnati da una gestione dei volumi scultorea. C’è l’eco appunto dell’arte classica – dalla scultura micenea all’arte parietale della tarda latinità, dall’altra si avverte facilmente la volontà del disegnatore di recuperare una dimensione quasi metafisica attraverso la lezione di Picasso e delle avanguardie novecentesche.
Nel settimo capitolo sono evidentissime le fonti. Il coro dei soldati è teso tra la resa dei volumi del periodo blu, quando il giovane Picasso era dedito a soggetti circensi (si veda per l’appunto l’opera Acrobata e giovane equilibrista del 1905) e le opere del periodo classico. Ma non si ferma qui. Sfogliando qualche altra pagina, infatti, ci troviamo dinanzi alla rappresentazione della famosa “città del sud” di cui parla anche Petronio, molto probabilmente Napoli. Il caos di una città già enorme per l’epoca è reso attraverso una densa pagina, in cui diverse tecniche si incrociano, e che la stampa fa solo intuire. Qui il pensiero non può che andare ai paesaggi urbani di un altro eroe della classicità, come Mario Sironi.
Quando il tratto di Blutch si incupisce: il picaresco diventa dramma dell’erotismo e la carne incomincia a danzare sulla pagina. Il tutto avviene non attraverso uno scardinamento cinetico della tavola, ma attraverso la cristallizzazione. Si scorgono omaggi al Prélude à l’après-midi d’un faune di Vaslav Nijinski. L’intento è quello di creare un’arte cinetica che sappia cogliere il movimento nell’attimo giusto. Ci troviamo dinanzi ad un esempio di graphic poetry, e ciò non tanto per le allusioni simboliche del sistema di segni tracciato sulla pagina, quanto per le strutture metriche scandite dal pennino di Blutch. Sicuramente, un giovane autore come Gabriel Delmas ha dato più di un’occhiata a queste pagine quando ha incominciato a disegnare Largemouths, un esperimento a metà strada tra la striscia muta e la poesia automatica. La tangenza si nota soprattutto nell’incipit del decimo capitolo: muto, fisico, violento. Tutto è avvolto da un senso di decadimento, di sfacelo, di putrefazione: i corpi arrancano – svuotati, calvi, sporchi – sotto il peso della carne.
Il disegno di Blutch non sarà forse mai più così carico e oscuro. Si snellirà, adattando la sua mano al soggetto: tra il Blutch vignettista (che comunque non scompare in Peplum) e quello di Vitesse Moderne o Per farla finita con il cinema, la distanza è minima. Ma l’opera di Blutch è fatta di assonanze e stratificazioni complesse: l’atmosfera plumbea e notturna di Peplum è vicina a quella di Mitchum, ma non distante dal trittico C’était le bonheur/La volupté/La Beauté, dove domina il colore.
Dispiace che un’opera del genere sia arrivata così in ritardo e che sia stata presentata avendo come riferimento l’edizione statunitense di New York Review Books e non l’originale della Cornélius, preferendo una confezione più economica ad una che rendesse onore alle tavole del maestro francese. Ma al di là di tali scelte, 001 Edizioni colma un vuoto importante nel panorama editoriale italiano, rendendo finalmente disponibile una delle opere inattuali più importanti della nona arte.
Peplum
di Blutch
traduzione di Chiara Rea
001 Edizioni, 2017
160 pp in b/n, 18,00 €