Prima ancora del suo esordio in edicola, Mercurio Loi si era distinta da qualsiasi altra serie prodotta da Sergio Bonelli Editore negli anni Duemila non solo per l’hype, ma per la forte curiosità da parte dei lettori più appassionati. Un po’ a causa del (non nuovo, ma pur sempre irrisolto) appiattimento tra le proposte della serialità italiana, un po’ per il peso specifico della novità.
Per gli orfani della lunga serialità Bonelli non young adult (come Dragonero, Orfani, Morgan Lost) né storico-esotica (come Saguaro o Adam Wild), Mercurio Loi è una promessa attesa da molto (troppo?) tempo: una serie a colori ambientata in Italia, disegnata da alcune delle matite contemporanee più raffinate di via Buonarroti (Ponchione, Borgioli, Gerasi, con Manuele Fior alle copertine e persino il debutto bonelliano di Francesco Cattani) e sceneggiata da uno dei migliori scrittori italiani di fumetto seriale, Alessandro Bilotta.
Leggi un’anteprima in esclusiva di Mercurio Loi n. 1
A giudicare dall’episodio “pilota”, pubblicato a gennaio 2015 nella collana Le Storie, Mercurio Loi sembrava inoltre poter ereditare l’etichetta di “bonelliano d’autore” affibbiata ormai 40 anni fa da lettori e critici a Ken Parker. Un ossimoro d’altri tempi, ma pur sempre un attributo di peso, la cui spendibilità – checché se ne dica – è in fondo rimasta riservata a ben poche altre testate (con il Dylan Dog di Tiziano Sclavi in pole position, e il Napoleone di Ambrosini a tallonarlo con il Castelli di Martin Mystère).
Una serie di caratteri
Alla prova dei fatti, ovvero del primo episodio appena uscito in edicola, sembra di poter dire che in effetti, sebbene senza alcun ‘botto’, siamo davvero da quelle parti. Mercurio Loi mantiene la promessa di essere una serie “autoriale” nel senso che trasmette in modo forte e chiaro la voce del proprio autore. Lo si nota subito nella lingua, ovvero nei dialoghi: le variazioni del registro (dalla commedia all’epico, passando per il dramma) sono insolite, per un debutto bonelliano che offre un coro di voci molto variopinto: alte e basse, roboanti e piane, stridule e ferme.
Il tono generale della prosa, insomma, è colto e brillante come mai era accaduto di leggere in passato, presso casa Bonelli. E non è un dettaglio: se l’episodio non punta a spiazzare con forti twist narrativi, la prosa in primo piano aiuta a creare gustosi e intensi contrasti tra i caratteri dei personaggi.
Il titolare di testata, in particolare, emerge per un curioso mix: Mercurio è interessante ma petulante, intrigante ma sicuro di sé ai confini della spiacevolezza, più Sherlock di Moffat e Gatis che Martin Mystère di Castelli. Il suo pupillo Ottone, inoltre, sembrerebbe – se scommettessimo su un solo episodio – costruito per rinfrescare la bidimensionalità dei molti sidekick della storia bonelliana. Ottone non è il personaggio nel quale più facilmente identificarsi per guardare da vicino (e con ammirazione) il protagonista. Il suo ruolo, piuttosto, sembra quello di definire il protagonista in negativo, creando contrasti con il proprio sarcasmo e la propria diversa visione di scopo.
Non a caso in questo primo albo (come nell’episodio pilota) il rapporto fra i due è già ben definito fin dalle prime pagine: niente in costruzione, tutto già chiaro – a loro, prima che a noi. Analogamente, se nel leggere le prime pagine ci troviamo in media res, nel pieno dell’azione e con ben pochissimi preamboli, anche il contesto generale della serie è già pienamente formato all’inizio della storia. Un contesto nel quale veniamo calati in modo brusco, per poi essere guidati alla sua esplorazione e ricostruzione pagina dopo pagina, grazie proprio ai movimenti dei personaggi, alle loro azioni e interazioni.
In sintesi: nella Roma papale alla Marchese del Grillo si muove una specie di Sherlock alla Moffat/Cumberbatch, un po’ investigatore un po’ pensatore, che ci tuffa in uno scenario in bilico fra romanzo storico e thriller filosofico. La domanda che questo debutto ci mette davanti, allora, è semplice: da quale di queste parti penderà lo sviluppo della serie?
“Roma dei pazzi” (o quasi)
Il punto di forza del primo episodio, “Roma dei pazzi”, è presto detto: la minuziosità con la quale viene costruito un piccolo universo narrativo, coerente e credibile. Un mondo costituito da luoghi, personaggi e situazioni, tutti minuscoli nella funzionalità narrativa di questo episodio, ma che mai danno la sensazione di essere irrilevanti all’interno del clima generale. La sensazione è che non solo i tanti micro-elementi sono qui per restare, ma che la serie ci tornerà sopra intensamente: come incrocerà Mercurio le rivendicazioni politiche della Carboneria? Quali sono i libri ‘proibiti’ che popolano la sua vasta biblioteca? Quale Roma vedremo in scena, e in che misura ci troveremo di fronte a una rilettura dei sommovimenti, storici e ideali, della città papale?
Dal punto di vista più formale, alcune scelte si fanno notare più di altre. In particolare il modo in cui si esprime uno dei comprimari, il colonnello Belforte, che – essendo rimasto muto nella storia precedente – può esprimersi solo con balloon di pensiero al cui interno troviamo immagini (un bel contrappunto ‘ideogrammatico’ alla prosa letteraria) o strambe meditazioni, talvolta concettose, talaltra ironiche (battuta ‘romanissima’ dell’albo: le riflessioni sull’abbacchio).
I continui cambi di scena e di luogo, inoltre, creano un’atmosfera piuttosto teatrale. “Roma dei pazzi” suona allora come una commedia storica in maschera, nella quale ogni personaggio rappresenta un carattere distintivo. Un tono che vale in primis per la nemesi di Mercurio, Tarcisio, quando afferma che «Nessuno mostra agli altri quello che è realmente… chi porta una maschera lo ammette senza ipocrisie ». Una maschera, in fondo, è anche quella indossata dal sempre impassibile Mercurio Loi, con il suo volto somigliante a quello di una scimmia (per volere di Bilotta) e dunque ben lontano dallo stereotipo fisiognomico del classico eroe.
Il racconto, tuttavia, non si distingue certo per suspence o colpi di scena. L’avventura resta un’avventura canonica nel ritmo e negli sviluppi, e l’antagonismo con Tarcisio – già collaboratore e “amico infedele” – ci ripresenta alla fine uno status quo apparentemente inalterato, nonostante le vicende (anche drammatiche) raccontate. Sul piano grafico Matteo Mosca non svolge male il suo compito, tutt’altro. Il suo stile di disegno pulito e minuzioso, nella linea di un naturalismo alla Casertano molto abile nel ritratto e nella caricatura fisiognomica, contribuisce a rendere fin da subito riconoscibili personaggi e luoghi, ma non funge da manifesto ideale della serie.
Sotto l’elegante copertina e il frontespizio realizzati da Manuele Fior (scelto da Bilotta e dalla redazione Bonelli perché in grado di aggiungere una dimensione onirica al realismo del contesto) ci si sarebbe potuti aspettare uno stile di disegno più “rischioso”. Nella rosa degli artisti, come si ricordava, arriveranno anche Sergio Ponchione, Francesco Cattani, Andrea Borgioli, Sergio Gerasi, ma la scelta di Mosca – e di Giampiero Casertano sul secondo numero – ci sembra avere privato la serie di un messaggio, se non di una personalità forte e chiara. Il “lettore medio” bonelliano ne esce certamente gratificato, messo com’è di fronte a un approccio tradizionale, ma le aspettative di rialzare l’asticella del “popolare d’autore” ne risultano inevitabilmente deluse.
Insomma, il personaggio c’è; il contesto è affascinante; gli ingredienti del thriller filosofico lasciano incuriositi; lo stile è in bilico fra tradizionalismo e – se ci passate il termine – “riformismo”, e il disegno non vuole giocarsi subito le carte migliori. Quanto basta per metterci di fronte a una partenza interessante, che non mancheremo di seguire.
Mercurio Loi n. 1
di Alessandro Bilotta e Matteo Mosca
Sergio Bonelli Editore, 2017
96 pagine a colori, € 4,90