Sesto episodio della saga cinematografica di Alien e secondo prequel della stessa dopo il discusso Prometheus, Alien Covenant è un film ambizioso ma solo parzialmente riuscito e che in parte condivide molte delle perplessità espresse in occasione dell’uscita del precedente episodio.
Il film inizia con un algido flashback che ci mostra il momento della presa di coscienza dell’androide David, già fra i protagonisti di Prometheus. Probabilmente il primo della stirpe di esseri sintetici che assisteranno da quel momento in poi gli uomini nel corso delle loro interminabili missioni spaziali, David, già dal momento della propria “nascita”, mostra di essere in conflitto con il proprio creatore. Superiore a lui per forza, intelligenza e longevità, l’androide si chiede per quale motivo dovrebbe sottomettersi a chi gli ha dato la vita.
Il conflitto che muoverà il film, e che in parte costituiva il nucleo anche del precedente, è così presto chiarito: quello fra autocoscienza e sottomissione. Peccato che, fin da subito, Scott e i suoi autori lo declinino in una chiave trasparentemente superomistica e wagneriana. Non solo, infatti, invitato a suonare un brano di Wagner al pianoforte David sceglie la quarta scena da L’oro del Reno (chiamata anche L’entrata degli dei nel Valhalla), ma la fortezza in cui lo ritroveremo più avanti è chiaramente ispirata a un noto quadro del pittore simbolista svizzero Arnold Böcklin, L’isola dei morti, opera molto amata da Adolf Hitler ed esposta, fino al 1945, nella cancelleria del Reich (un altro artista svizzero, Giger, autore delle scenografie e del character design di Alien, nel 1977 realizzò un rifacimento di questo quadro intitolato Omaggio a Böcklin).
I riferimenti alla mitologia nazista sono palesi e voluti, ma lo svolgimento della tesi non tiene conto delle differenze presenti nell’assunto. Il concetto di Übermensch, che descriveva la presunta superiorità della razza ariana, si basava, appunto, su falsi presupposti e teorie scientifiche a oggi ampiamente superate, al netto di alcune recrudescenze. I nazionalsocialisti tedeschi, insomma, contrapponevano l’uomo all’uomo, cercando di creare una società in cui gli eletti, gli ariani, potessero dominare sulle altre “razze”, destinate a servire quest’ultimi.
La genia di cui David sembra essere il capostipite, in effetti, non è più umana se non in senso esteriore. E in effetti, anche se di un essere umano David conserva le sembianze esteriori, dell’uomo supera molti limiti, primo fra tutti quello della mortalità e della finitezza. La differenza fra la follia nazista e la lucida ribellione dell’androide è, appunto, sottilmente diversa in senso prometeico. David e i suoi simili, che hanno avuto quasi sempre un ruolo centrale in questa saga, sono in tutto e per tutto degli schiavi, dei sacrificabili, che inoltre sono posti nella condizione di non essere consapevoli di questa condizione. Anche l’amoralità attraverso cui ci viene restituito il personaggio di David è tale se giudicata attraverso parametri che non necessariamente gli appartengono, in quanto modellati sull’uomo e non su un qualcosa che è appunto oltre l’uomo.
Lo spettatore, insomma, rispetto al personaggio di David, è costretto a interrogarsi su un dilemma non da poco: rispettare la sua lotta per l’indipendenza e l’autoaffermazione o parteggiare per la sopravvivenza del proprio genere? Senza scordare – ma senza neanche approfondire – gli ovvi collegamenti all’attuale alba di un momento post-operaista in cui le macchine stanno entrando massicciamente in conflitto con l’uomo.
Alla conclusione del prologo, l’azione si sposta sull’astronave interstellare Covenant che trasporta un carico di 2.000 coloni, più un certo numero di embrioni, verso una nuova casa in un altro sistema solare. Qualcosa, naturalmente, va storto, e il capitano e l’equipaggio decidono di atterrare, richiamati da una misteriosa interferenza audio, su un pianeta fino a quel momento escluso dalla mappatura di quel settore del cosmo.
Da questo punto in poi cominciano i veri problemi, riguardanti il film in sé più che le sorti dell’equipaggio della Covenant. Scott e gli sceneggiatori del film mostrano infatti di non aver incamerato le critiche mosse a Prometheus e affastellanno una serie di leggerezze e illogicità che minano l’indubitabile fascino visivo del film.
L’astronave viene seriamente danneggiata da una imprevista tempesta di neutrini (ma si tratta forse di un errore di traduzione?). Peccato che i neutrini non abbiano carica elettrica e che praticamente siano privi di massa. Chi sta leggendo questo articolo è stato probabilmente attraversato da queste particelle senza accorgersene. Ma questa leggerezza – un po’ da nerd – non rovina la credibilità del film come le successive.
Su tutte: la cieca fiducia con cui un equipaggio che, si suppone, dovrebbe essere adeguatamente addestrato a valutare rischi e conseguenze di ogni scelta, fa sbarcare una propria congrua rappresentanza su un pianeta sconosciuto. L’alternativa a questo sbarco è passare altri sette anni in sonno criogenico. Il pianeta è, al momento del primo contatto, completamente avvolto da una “tempesta di plasma” (altro esempio di terminologia scientificamente impropria), che rende difficoltose e a tratti impossibili le comunicazioni con l’astronave madre. Invece di aspettare che la tempesta si plachi – magari per settimane, ma sempre per un tempo incommensurabilmente più breve rispetto alla prospettata e pericolosa attesa di sette anni –, il comandante e l’equipaggio si ostinano ad atterrare.
La scelta, altrimenti totalmente illogica, viene giustificata dalla fede del capitano Billy Crudup. La stessa fede che in passato gli aveva precluso tale carica – in un mondo, supponiamo, in cui la razionalità scientifica ha assunto un valore assoluto. Crudup assurge a tale ruolo, infatti, dopo la morte improvvisa del suo superiore, marito della protagonista del film, Daniels. Peccato però che questo ulteriore conflitto, quello fra credo e scienza, sia lasciato quasi subito cadere nel nulla.
Come nel precedente Prometheus, la squadra d’esplorazione, che sembra più un gruppo di liceali che si dedicano a una scampagnata, procedendo in un territorio sconosciuto e potenzialmente ostile senza caschi né altri tipi di protezioni specifiche, tocca tutto quello che gli capita sottomano, finendo inevitabilmente per essere infettata dal patogeno che porterà allo sviluppo degli xenomorfi protagonisti della saga. Di altre meno rilevanti debolezze e destabilizzanti incongruenze il film è pieno, ma non vogliamo qui né rilevare troppo né togliere a chi lo vedrà il piacere di scoprirle da solo.
Anche sul piano visivo e immaginifico il film è ambivalente. Se da un lato le scenografie della grande necropoli in cui i superstiti dell’astronave troveranno rifugio sono impressionanti per l’insolita astrazione con cui la città è tratteggiata (al netto degli omaggi pittorici di cui sopra), così come il design e l’animazione degli xenomorfi, nelle diverse fasi di sviluppo degli stessi, che continua a essere la parte più interessante dei film della saga, alcune specifiche scene precipitano nel ridicolo una pellicola che vorrebbe assurgere a un ritmo e una spazialità quasi liturgiche.
Ridley Scott, in un’intervista, ha descritto il primo Alien, per la sua stessa regia «un B-movie ben riuscito». Ma se il capostipite trovava la propria forza proprio in una delicata alternanza fra pieni e vuoti, fra claustrofobiche scene di azione (o di attesa dell’azione) e momenti contemplativi (il rinvenimento dell’astronave aliena, ad esempio), in Alien Covenant l’alternanza risulta più esasperata, diviso com’è il film fra dissertazioni etico-filosofiche (spesso banalotte) e scene d’azione che almeno in un caso sembrano appartenere più all’universo di Sharknado (la sequenza del bombardamento patogeno) o di un horror di media fascia anni Ottanta (la scena di sesso in doccia) che a quello di uno dei più blasonati registi europei (ma da molto tempo, bisogna dirlo, incapace di proporre un film che sia al livello della fascinazione indotta dai suoi esordi).
Pur volendo valutare questo film per se stesso, i paragoni con gli altri film della saga di Alien sono inevitabili. L’ostinazione, dopo l’abbandono di Sigourney Weaver, di proporre volitive eroine femminili, si scontra inevitabilmente con lo scoglio della protagonista originaria, modello tutt’oggi insuperato per quanto riguarda i filoni dei generi sci-fi e action più in generale.
Inoltre, la ripetitività ossessiva di alcuni temi e schemi (il mostro in agguato, il rapporto ambiguo fra uomo e androide, la composizione eterogena dell’equipaggio, l’ambivalenza insita nella maternità ecc.) rendono non solo prevedibile lo svolgimento della trama, ma precipitano lo spettatore in un vortice continuo di déjà-vu, che se da un lato hanno l’indubbio vantaggio di far sentire l’appassionato fidelizzato a casa, non possono che strappare qua e là qualche sbadiglio.
Anche l’annunciata svolta gore («Stavolta volevo il sangue», ha dichiarato ancora il regista) non si è apprezzabilmente concretizzata: l’incremento di squartamenti e decapitazioni non regge il confronto con l’ansia claustrofobica e adrenalinica che i primi due film sono ancora capaci di indurre.
Insomma, gli elementi in gioco sono sempre questi e lo sguardo di Scott non è certo migliorato con gli anni. Forse sarebbe il caso, mantenendo un ruolo da supervisore, di passare il testimone a qualcuno capace di iniettare nuova linfa in una saga che si trascina un po’ stancamente, come successe nel 1986 con il passaggio di testimone a James Cameron. Perché il principale difetto di Alient Covenant è quello di apparire, sotto molti punti di vista, un film senile.
Prometheus, che pure non è immune da critiche – e come detto molte ne sono state fatte, forse più di quelle che meritava – aveva almeno l’indubbio merito di rompere con alcune schematicità che in Covenant sono state recuperate e riproposte senza grandi variazioni. Resta impressa, nel susseguirsi un po’ confusionario di scene e inseguimenti, una notevole, delicata e brutalmente ironica sequenza di seduzione omoerotica post-umana.