Leggere Manu Larcenet significa confrontarsi con uno dei corpus più significativi del fumetto contemporaneo. Diciamolo pure: Larcenet è uno dei grandi autori dei nostri tempi.
Prima che l’attenzione venisse catalizzata da Blast, poderosa opera in quattro tomi, Larcenet aveva già assestato un poderoso destro a tanti (supposti) “maestri della bande dessinée”. All’epoca della sua prima traduzione italiana, nel 2007, Lo scontro quotidiano passò relativamente inosservato, vuoi per ragioni legate allo stile – apparentemente – semplice e tradizionalmente francese (larghe e ariose campiture pastello, tratto cartoonesco), vuoi per ragioni narrative, in virtù dello spazio ispirato al vissuto personale di un autore all’epoca poco noto.
In realtà Lo scontro quotidiano è stato sia un passo verso la maturazione di un fumettista che si è poi confermato un artista di rango, sia un’opera che merita attenzione per la sua originalità e, soprattutto, attualità. Già, perché attraverso la storia di Marco, Larcenet racconta la Francia di oggi e soprattutto propone un’analisi che porta alla luce un rimosso decennale, intuendo in netto anticipo le derive sociali e culturali di un paese che, in questi ultimi anni, sta affrontando uno dei suoi periodi più travagliati.
Lo scontro quotidiano narra la vicenda personale, ma anche e soprattutto familiare, di Marco, giovane fotografo che, dopo anni passati sui fronti di guerra, decide di ritirasi a vita privata nella campagna francese. Un reporter nauseato dal suo stesso lavoro, insomma. Gli anni di analisi sembrano non aver prodotto alcun giovamento: Marco soffre di frequenti attacchi di panico, che lo colgono nei momenti meno opportuni. Un evento tragico – il suicidio del padre, malato di Alzheimer – imprimerà alla sua lenta quotidianità un nuovo ritmo. Larcenet riversa nella figura di Marco riflessioni personali sulla vita, sull’arte in generale, ma non esclude pungenti affermazioni sulla politica e sulla dignità dell’uomo.
Dall’io al sé. Autostrade, crisi di panico e corpi femminili
Dopo le prime sequenze, un momento su tutti arriva a chiarire la complessità dell’opera: la rassicurante palette cromatica si incendia in un rosso feroce, che si stempera nelle campitura seppia in cui si chiude lo sguardo di Marco. In questa scena dal forte realismo si intrecciano, indistintamente, uno sguardo falsamente oggettivo sulla realtà e una sottile riflessione sulla natura dello sguardo. L’idea esposta attraverso l’immagine e il monologo privato è chiara: la traiettoria del discorso si sposta progressivamente dall’interiorità al mondo, in un movimento di appropriazione e guadagno di senso.
Continuiamo a seguire questo movimento interno al fumetto di Larcenet (i riferimenti ai numeri di pagina vengono dall’edizione integrale pubblicata da Coconino Press, 2014).
Le foto di Marco fanno la loro comparsa a pagina 14, dopo la notte passata a casa del fratello George. Qua, le foto delle autostrade francesi sostengono una breve confessione:
Ho avuto a lungo molta paura di guidare in autostrada… [L’analista] mi ha detto che, a ben pensarci, una macchina ha molti punti in comune con una bara… che lanciarsi a velocità innaturali su una strada in cui non si sa niente delle persone che guidano le altre bare è una cosa che da’ da pensare […] Da allora non ho più paura. Che cosa buffa la psicoanalisi.
A questa prima sequenza ne seguono altre due, sempre dedicate a foto di esterni: strade di campagna, alberi, staccionate etc etc. Un rigore anonimo e quasi distaccato a cui fa da contrappunto una voce sottile e impaurita:
Un attacco di panico è una cosa impressionante […] Imparare a conviverci significa avere una paura inconsulta che in ogni istante tutto salti per aria… significa non avere mai pace finché non avrò trovato la causa scatenante. Non ho potuto far altro che adeguare la mia vita a questo imprevedibile disordine.
La fuga di Marco – il suo venir meno, apparentemente, alla fatica dello “scontro quotidiano” – è un corrispondere al disordine e all’imprevedibilità della sua condizione. Le crisi di panico di cui soffre sembrano preludere alle epifanie di cui soffre Polza Mancini, il corpulento protagonista di Blast. Non è un caso che in entrambe abbia un ruolo fondamentale la figura paterna.
In Grassa Carcassa, primo volume di Blast, mentre racconta la sua versione dei fatti agli ispettori di polizia, Mancini prende le mosse dal corpo marcescente del padre, malato terminale. La morte di questi spinge uno scrittore quarantenne a lasciare la sua vita precedente e ad affrontare un viaggio per ritrovare se stesso, lasciandosi tutto alle spalle. Compresa la moglie e una vita di placida normalità. In realtà, l’incontro con la morte lo condurrà al suo primo blast: un’esperienza difficilmente descrivibile, in cui Polza, strappato dalla goffaggine dell’esistenza, diviene tutt’uno con se stesso alla presenza di un enorme Maoi.
Come già ne Lo scontro quotidiano la scelta grafica delle sequenze di blast è eccentrica, e fa convivere diversi registri e materiali espressivi. L’intento è restituire un’esperienza-limite attraverso un linguaggio che diverge da quello narrativo. Larcenet vuole rendere le epifanie mistiche, e dove il linguaggio del personaggio si fa involuto e glossolalico quello del fumettista si fa scarabocchio infantile. Ciò che prova Polza è potente, profondo e lo spinge in una corsa affannosa contro il tempo, alla ricerca di sempre più frequenti blast. Mancini trova se stesso nel più totale abbandono, in un percorso autodistruttivo che fagocita ogni particella della sua vita precedente, aumentando esponenzialmente l’imprevedibile disordine della vita. Ma se Polza asseconda il caos, Marco, invece, cerca di fare ordine.
Tuttavia le similitudini non finiscono qui. Una delle svolte fondamentali impressa da Larcenet alle vicende dello scrittore psicopatico in Blast ha inizio con l’ingresso in scena di Carole. Ne Lo scontro quotidiano è l’altrettanto imprevedibile incontro con la veterinaria Emilie a imprimere la prima importante svolta. Lo sguardo del fotografo si relaziona per la prima volta con l’altro. Figure nude – delicatamente sfiorate da dita maschili – sono il nuovo soggetto che fa capolino nelle foto di Marco. Una crasi tra immagini e parole atterrisce il lettore:
Nessuna donna è mai riuscita a sopportare a lungo la mia totale inettitudine ad avere un minimo di serenità… io stesso mi trovo profondamente insopportabile. Per non parlare poi della sessualità che per me resta qualcosa di misterioso, attraente ma molto intimamente violento.
Il protagonista – e con lui l’autore – si mette a nudo e incomincia ad accostarsi con timore e prudenza all’altro. L’anonima figura femminile che domina i pensieri di Marco cozza con la concretezza e il pragmatismo di Emilie, che strattona Marco dall’altra parte della vita. Eppure, è la vita stessa che improvvisamente richiede piena partecipazione. La rivelazione della malattia del padre, la morte del piccolo gattino Adolf, la voglia di un nuovo progetto fotografico strappano apparentemente Marco all’autoreferenzialità. Da personaggio ego-riferito, totalmente piegato sul suo dolore quotidiano, Marco incomincia a guardare nuovamente il mondo, a sentirsi impegnato dal e nei confronti del mondo. E tutto ciò lo spinge a non ritrarre dei semplici correlati oggettivi del suo dolore, ma volti.
Dal sé al tu. Volti, impegno politico e rimosso nella Francia di Le Pen
Se i volti sono un elemento frequente nel fumetto, in Larcenet lo sono per motivi particolarmente importanti, frutto di precise strategie artistiche. Emmanuel Lévinas, le cui riflessioni si sono soffermate spesso sull’importanza del volto, discutendo con Philippe Nemo affermò:
La relazione con il volto può… essere dominata dalla percezione, ma il volto in quanto volto non si riduce. C’è innanzitutto la dirittura stessa del volto, la sua esposizione diretta, senza difesa. La pelle del volto è quella che rimane più nuda… benché di una nudità dignitosa, la più spoglia dato che nel volto si trova un povertà essenziale […] Il senso di qualcosa sta nella sua relazione a qualcosa d’altro. Il volto, al contrario, è senso da solo: tu sei tu… Il volto conduce al di là.
A pagina 74 compaiono i primi ritratti degli operai del Reparto 22, il cantiere navale in cui per anni ha lavorato il padre di Marco.
Il ritorno alla fotografia coincide con il recupero del passato. E il processo non è certo indolore. Infatti, sin da subito tra Marco e il vecchio Bastounet si apre un divario dovuto alle scelte elettorali di quest’ultimo. Deluso dalla sinistra e dalla gestione dei sindacati, il vecchio operaio decide di appoggiare le posizioni del Front National. Sebbene scritto nel decennio scorso, nel lavoro di Larcenet affiorano le problematiche sociali e politiche vissute oggi dalla Francia. Gli attentati che hanno colpito la capitale francese hanno fomentano nel popolo francese una delusione che si riverbera in un crescente consenso del Front National di Marine Le Pen.
Larcenet lega il tema politico ad un rimosso storico, creando così un feedback tra le vicende personali di Marco e la storia sociale del paese. Il processo che conduce il fotografo verso un racconto del “paese reale” è un sentiero privilegiato: un ritornare a toccare direttamente la vita nelle sue forme più immediate, nelle sue urgenze quotidiane, nelle richieste inascoltate. Marco incarna una figura di intellettuale ormai anacronistica. Un intellettuale engagé, come scrisse Jean Paul Sartre, il cui compito è «mutare…la condizione sociale dell’uomo e la concezione che egli ha di se stesso».
Le idee espresse da Sartre nel lontano 1944, nello scritto programmatico per la rivista Les Temps Modernes, avevano trovato maggiore espressione nel saggio Qu’est-ce que la littérature? del 1947, in cui il filosofo francese cercava di stimolare una letteratura ‘partecipata’, il cui fine era quello di fare appello alla libertà del lettore. L’idea di Sartre si scontrava contro la realtà: in una società divisa in classi l’esercizio della libertà non poteva essere puro. L’attuazione di una letteratura del genere presupponeva l’impegno dell’intellettuale nella “distruzione” della società classista.
La concezione di Sartre oggi suona anacronistica e desueta. Ecco perché l’impegno del protagonista del libro di Larcenet passa dalla politica per una via diversa: a partire dall’incidenza del volto. Contro qualsiasi forma di totalitarismo e di classismo razzista, contro qualsiasi forma di classificazione e di spersonalizzazione, Marco oppone alla latenza e alle politiche economiche la singolarità del volto. Eppure Marco è disincantato. Nonostante l’impegno e la dedizione, la sua opera non ha alcun valore redentivo né sulla sua persona né sulla situazione dei soggetti ritratti. Sarà il fortunato incontro con l’editore Guy Payrac a cambiare le carte in tavola.
Condensare il tutto in un libro diviene per Marco un obiettivo fondamentale: far rivivere quel sentimento corporativistico e quella dignità che derivava dalla “consapevolezza della loro fatica”. Una dignità – quella del dolore – evaporata e che Marco ricostruisce pezzo a pezzo non in astratto, agitando spettri di Marx, ma partendo dall’evidenza dei volti, dalla fisiognomica scavata dalla fatica e dal sole. L’obiettivo di Marco è quello di “lasciare andare la bellezza e custodire le cose che hanno contato”. Questa ricerca di senso interseca qualcosa di più ampio e profondo. Da un lato il protagonista attraverso l’arte rielabora il lutto, recuperando così in un sol colpo il rapporto con il padre – morto suicida – e il contatto con un mondo che sembrava ormai dissolversi. Dall’altro, però, fa i conti con qualcosa che investe in pieno l’orizzonte di qualsiasi possibile relazione con l’altro.
Decolonizzare l’Altro. La fine dell’oblio della guerra di Algeria.
Quello di Larcenet non è solo un tentativo di auto-analisi mediata dalla forma romanzesca, ma è soprattutto una riflessione politica che valica la cronaca per toccare un tema rimosso e imbarazzante per la Francia: la guerra di Algeria.
Storicamente l’espressione “guerra di Algeria” si è affermata nei discorsi pubblici solo dopo che il deputato socialista Jacques Floche propose, nel 1999, un disegno di legge finalizzato a sostituire nei documenti ufficiali tutte le circonlocuzioni con cui era stata censurata tale dicitura. La proposta sarà approvata prima alla Camera e poi al Senato e promulgata dal presidente della Repubblica francese il 18 ottobre dello stesso anno. Tale disposizione legislativa potrebbe sembrare un semplice vezzo semantico, ma in realtà alla base vi era la precisa volontà di mettere tra parentesi l’oblio attivo di un vissuto coloniale, tracimato in efferata violenza non solo sul territorio africano ma anche nella stessa Parigi (mi riferisco ai fatti del 17 ottobre 1961, quando oltre 200 algerini furono uccisi dalla polizia durante una manifestazione del Fronte di Liberazione Nazionale). In seguito alla legge Floche, in Francia dal 2002 c’è stata un’accelerazione della memoria. Si sono moltiplicati – quasi sino all’inflazione – i saggi e gli studi che ricostruiscono una sequenza della storia francese che era stata volutamente rimossa per nascondere non solo il volto oscuro della grandeur francese, ma anche le violenze indiscriminate perpetuate dalle milizie francesi nel quinquennio del conflitto.
Larcenet risente di questo clima e pertanto la sua analisi politica del presente si lega a quella precisa fase storica. Il timore per l’insorgere di nazionalismi – storia che si ripete in questi ultimi anni, nella Francia presa di mira dagli attacchi dei fondamentalisti islamici – porta il fumettista ad affrontare un nodo difficile da districare, spesso eluso dalla sinistra francese a favore di un’apologetica della Repubblica Missionaria. Ed ecco il confronto con il tenente Gilbert Mesribes che, attraverso tutto il libro, diventa di fondamentale importanza per la vita di Marco.
Proprio intorno a questo snodo, l’atteggiamento di Marco attraversa diversi stadi. Dopo aver saputo che il vecchio Mesribes ha preso parte alla rappresaglie contro la resistenza algerina – che spesso si concretizzava in violenze gratuite, stupri e torture indiscriminate – decide di interrompere qualsiasi contatto, nonostante l’affinità. Dopo il suicidio del padre, Marco cerca di capire qualcosa di più dell’uomo, ma nonostante la lettura delle piccole note lasciate in un diario, Marco sembra non riuscire a raggiungere la quadratura del cerchio: tutto rimane sfuggente.
Un evento fortuito, il ritrovamento di una foto – ironia della sorte – in cui sono ritratti Mesribes e suo padre lo convince a cercare nuovamente il vecchio tenente, che gli racconta con franchezza e senza alcuna mistificazione cosa è successo in Algeria a suo padre. Il racconto di Mesribes mette in luce il dramma di un giovane soldato costretto a prender parte alle azioni di guerriglia, alle torture e alle esecuzioni sommarie, impreparato a gestire il carico di violenza scatenato. Come hanno rimarcato Benjamin Stora e Mohammed Harbi, più di cinque milioni di francesi, nella Francia del principio del XXI secolo furono toccati dalle vicende del conflitto franco-algerino. Migliaia di ragazzi nati tra il 1932 e il 1943 furono chiamati a combattere una «guerra senza nome» – secondo la definizione di John E. Talbott in The War without a name – credendo di prendere parte a semplici operazioni di pacificazione o mantenimento dell’ordine. Sull’esperienza del ritorno, Philippe Lambro, nel romanzo autobiografico Des feux mal éteints (Gallimard, 1967), scriveva:
Nessuna universalità, ognuno per sé. Non c’era niente da raccontare, e nessuno con cui confidarsi. Ma, qualunque esperienza avesse fatto, appena ne era uscito ogni soldato si vedeva avviluppato dal silenzio e dall’oblio, poiché nessun adulto francamente voleva assumersi la responsabilità di averlo mandato laggiù, nessuno accettava di specificare in nome di che cosa questo ragazzo aveva vissuto ciò che aveva vissuto. Al ritorno chi era stato coinvolto in un conflitto destinato ad essere dimenticato si trovava, quindi, nella situazione di non poter raccontare quanto accaduto(gli), di non poter rielaborare in una memoria collettiva il trauma. L’unica via percorribile era quella della rimozione, con l’inevitabile conseguenza di incidere negativamente sull’identità personale e, di qui, sulla stessa identità collettiva di una nazione.
Marco, purtroppo, arriva in ritardo, non potendo contribuire personalmente a rievocare quel passato rimosso, aiutando quindi il padre a rielaborare il trauma. L’esperienza algerina è quell’incomprensibile che attraverso le pagine del diario paterno, ma che Marco non riesce a intuire e che Mesribes, ormai esule volontario, aiuta a comprendere, dando quindi a Marco la chiave per comprendere sino in fondo la figura paterna, con i suoi limiti e le sue ossessioni.
L’esperienza algerina attraversa in filigrana le pagine del diario paterno. Qualcosa che Marco intuisce ma non riesce a spiegare. Solo la confessione di Mesribes, esule volontario, potrà dar corpo a quell’inquietudine rimossa, permettendo quindi a Marco di comprende sino in fondo la figura paterna, con i suoi limiti e le sue piccole ossessioni.
Sullo sfondo politico su cui si muove Lo scontro quotidiano, il percorso personale del protagonista potrebbe allora essere visto come una duplice metafora storica usata da Larcenet: un discorso sulla mancata elaborazione del lutto da parte del popolo francese, ma anche una messa in guardia dalle ricadute violente contro i nuovi soggetti politici più o meno originari dei territori delle ex-colonie.
In realtà, il fenomeno è complesso. Le nuove identità sorte contemporaneamente a questo processo di analisi del passato si legano, infatti, a fenomeni di riconoscimento a volte indipendenti da questo passato rimosso. Più che altro, la laica Francia sembra non voler riconoscere i nuovi soggetti e le forme di rivendicazioni contro lo Stato che fanno parte della loro prassi politica. Il tutto è abbastanza ingarbugliato e Larcenet glissa nonostante la palesi preoccupazioni che trapelano dalle pagine del romanzo. Marco, alter ego dell’autore, è intimorito dal futuro. E con il senno di poi, ne ha tutte le ragioni.
La sottile arte dell’equilibrismo
Marco pianta chiodi. Li pianta come suo padre, con la stessa ostinata perseveranza, ma finalmente libero da sovrastrutture ideologiche, senza quell’assillo delle radici che erano una forma di auto-castrazione. Pianta chiodi con perseveranza muovendosi come un equilibrista. La sua vita, ora, è un impegno su più fronti: la famiglia, dopo l’arrivo della piccola Maude, e il lavoro, ma soprattutto il libro sul Reparto 22.
Marco deve fare un passo indietro rispetto a quello che ha sempre pensato sulla vita. L’ideologia – colma di pregiudizi – con cui ha sempre condotto il suo combattimento quotidiano cade a pezzi. E una scrollata generale all’impalcatura teorica con cui ha affrontato la vita, portandolo sull’orlo del collasso, viene dalle parole dal vecchio Pablo. L’operaio, nonostante esulti per la vittoria di Sarzoky contro Ségolène Royal nelle elezioni presidenziali del 2007, non si tranquillizza. Il suo spirito di osservazione è segnato da uno spiccato realismo, che comprende l’inarrestabile complessità della realtà, non imbrigliabile in formule o sistemi politici. L’esercizio di equilibrismo che Marco conduce quotidianamente lo convince che ogni ideologia è destinata a fallire e che rimane solo la poesia a restituire un senso ad un mondo che sembra correre verso il caos e che qualsiasi tentativo di contenimento non riesce a contenere.
L’ultimo tomo si apre con una scena delicata. Marco gioca insieme a Maude, mentre si rincorrono tra la neve. E’ un bozzetto familiare che ricorda, per i colori e il tono infantile, le tavole di Bill Watterson. Il mondo infantile, stralunato e creativo, che irrompe attraverso Maude nella vita di Marco diventa una risorsa vitale per approcciare il mondo: sono gli occhi della bimba a guidare Marco nel riscoprire lo splendore dei particolari, aprendolo allo stupore e alla bellezza. Scrive Marco/Larcenet al margine delle foto dedicate al mondo di Maude:
La vera disperazione pone questioni così cruciali che non riesce ad adattarsi a nessuna ideologia. La truffa ideologia è quella di voler convincere la gente che esiste una verità. La realtà, allora, non conta più se non nella misura in cui può conformarsi a quella verità. Eppure la povertà o le metastasi, per esempio, sono abissalmente indifferenti al Dow Jones o alla linea di un partito. Qualcuno di certo obietterà che lo sono altrettanto alla poesia, e invece si sbaglia…la poesia è l’unico modo libero che abbiamo per cogliere quello che davvero conta…la poesia ripaga di tutto.
La poesia che irrompe attraverso gli scarabocchi dei bambini – e che un peso specifico avranno anche nell’economia di Blast, insieme al simbolo totemico del gufo, presente anche nell’apparato simbolico de Lo scontro quotidiano – diviene per Marco l’unica via praticabile per mostrare il proprio impegno. Un modo per impegnarsi nei confronti di un mondo che non risponde ad alcuna ideologia o analisi sociologica, che ripudia l’universale e l’a-priori, che risponde a qualsiasi inflessione metafisica con uno scarto nervoso e violento.
Il solo mezzo a disposizione di Marco per circoscrivere porzioni di mondo è la fotografia, che per sua stessa natura gode di uno statuto specifico. La sua specificità è quella di fissare l’apparenza degli eventi, di produrre una testimonianza in un mondo in cui la traccia non è più affidata alla trasmissione orale. Inoltre, come ha notato John Berger, le foto non ‘traducono’ le apparenze ma le ‘citano’, differendo così dal disegno. Mentre ogni segno che verghiamo è riferito ad un modello reale o immaginario, e si riferisce a segni già tracciati da altri, la foto no: essa preleva dal reale una traccia, un istante, creando una discontinuità. Ecco perché Larcenet sceglie come alter ego un fotografo. La maniera peculiare con cui la fotografia ritaglia l’apparenza differisce in maniera sostanziale dal disegno. Scriveva Berger in Fotografia e verità:
Ogni fotografia è un possibile contributo alla storia, e ciascuna di esse, in circostanze particolari , può essere usata per interrompere il monopolio che la storia ha oggi sul tempo.
Marco, allora, attraverso la poesia delle sue foto, cerca di mettere tra parentesi l’evento traumatico della distruzione del cantiere navale, strappando i volti degli operai del Reparto 22 all’oblio della storia e non introiettandoli in una visione politica o ideologica, ma lasciandoli apparire di per se stessi, compiendo quindi un decolonizzazione del volto da parte di un pensiero teorico. I volti appaiono e si manifestano come bellezza, così come gli scarabocchi privi di senso appesi alle pareti dell’asilo frequentato da Maude.
Larcenet abbandona la serie così: con la distruzione del cantiere navale e con la prossima pubblicazione del libro dedicato al Reparto 22. Durante le interviste rilasciate a ridosso della pubblicazione dell’ultimo tomo, il fumettista francese si diceva ormai proiettato verso un’altra opera e che gli eventi narrati ne Lo scontro quotidiano erano giunti ad un punto di stallo o di equilibrio. Marco aveva concluso il suo percorso ormai pacificato con il mondo, meno ansioso e meno irruente. Era ormai impegnato a piantare chiodi, come suo padre.