Il 6 marzo 1917, esattamente 100 anni fa, nasceva Will Eisner, tra i più rilevanti fumettisti americani del secolo scorso, creatore di The Spirit e autore di fondamentali romanzi a fumetti come Contratto con Dio, Verso la tempesta e Fagin l’ebreo.
Per l’occasione – e in apertura di un’intera settimana dedicata a Eisner –, pubblichiamo una sua intervista del 2004, realizzata da Andrea Plazzi (a lungo editore – con PuntoZero – e curatore dell’opera di Eisner per l’Italia) per l’emittente radiofonica bolognese Radio Città del Capo, in collaborazione con Emiliano Longobardi, Alessandro Pinna, Simone Satta e Antonio Solinas.
Contratto con Dio è uno dei suoi lavori più importanti ed è considerato un classico del fumetto moderno. La Repubblica ne ha pubblicato un’edizione di larga diffusione che ha avuto un grande successo.
Questa è davvero un’ottima notizia. Mi stupisce, perché dopotutto Contratto con Dio è un libro vecchio di 25 anni e il fatto che interessi ai giovani lettori di oggi è davvero incoraggiante.
Di solito lei è considerato un autore “culto”, “di nicchia”, persino troppo “sofisticato”, idolatrato dai colleghi, dagli altri autori di fumetti e da un piccolo, fedelissimo pubblico. Stavolta invece ha venduto quasi più di Superman [a cui La Repubblica ha dedicato un’analoga edizione; N.d.R.]…
È incredibile… Sono veramente orgoglioso… per tutta la vita ho sempre venduto molto meno di Superman…!
Scherzi a parte, voglio dire che tutto ciò è assolutamente rassicurante, perché quando ho cominciato non scrivevo per il mercato giovane dei fumetti ma per i lettori adulti che conoscevo meglio, e questa era una cosa non solo rischiosa ma anche, come dire, bizzarra? Storie adulte con argomenti adulti… e oggi gli adulti leggono fumetti e questo per me è assolutamente rassicurante. Avevo ragione.
Quale percezione hanno di lei negli Stati Uniti come autore di fumetti?
Negli USA in questo momento le cose sono molto, molto interessanti. Negli ultimi due anni il romanzo a fumetti è stato finalmente “sdoganato”: le biblioteche pubbliche li espongono sugli scaffali e per la prima volta questo tipo di libro viene preso e recensito seriamente. Siamo finalmente giunti a uno spartiacque, a un punto che per tutti questi anni avevamo soltanto sognato. Per quanto mi riguarda, sono entusiasta: finalmente questo linguaggio è diventato maturo e viene letto da lettori maturi a cui offre materiale adulto. Sono contentissimo e vorrei avere 25 anni di meno.
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Col senno di poi, si può dire che Contratto con Dio abbia giocato un ruolo chiave in tutto ciò. Ha dichiarato spesso che il suo tentativo era quello di raggiungere un pubblico più adulto per questo linguaggio. Forse, in una certa misura, lei questo pubblico l’ha creato. È d’accordo?
Non credo che si possa creare un pubblico. Quello che si può fare, quello che chiunque può fare, è cercare di raggiungere un pubblico “dormiente”. Nel 1974-1975 i lettori adulti leggevano soltanto prosa. In quel periodo mi resi conto che il lettore più o meno cinquantenne era cresciuto leggendo fumetti da bambino. Di conseguenza, da adulto non aveva a disposizione nessuna lettura nel medium con cui era cresciuto; era quindi necessario che qualcuno producesse storie credibili per un lettore adulto. Ero anche convinto, quasi religiosamente, immagino, che questo linguaggio fosse in grado di esprimere ben più che qualche battuta o due supereroi che se le suonano. Fu con questo in mente che iniziai Contratto con Dio. Scelsi un argomento che, pensavo, non era mai stato trattato a fumetti, cioè il rapporto con Dio. Qualcosa di assolutamente centrale per tutti noi e di cui diventiamo sempre più consapevoli invecchiando. Un argomento adulto. È così che cominciai.
Ventisei anni dopo Contratto con Dio sta ancora scrivendo e disegnando libri a pieno ritmo, quasi uno all’anno. Che percezione ha di se stesso, come autore e come narratore che utilizza quello che allora era un formato innovativo e che oggi è assai più consolidato?
Be’, è il linguaggio stesso a essere consolidato, cioè la sua capacità di trattare argomenti che vanno al di là delle solite storie di supereroi. Quello che mi interessa… be’, sostanzialmente mi vedo come uno che riscrive costantemente le stesse idee di fondo. Il mio ultimo libro, Fagin l’ebreo, è un tentativo di trovare una nuova direzione, un uso che potremmo definire “polemico” del linguaggio, cioè il suo uso al fine di sostenere una posizione. Credo che sia questo il punto. Credo di essere ancora molto interessato a cercare di restare in testa alla sfilata, per così dire. Mi sento un esploratore, sì, è così che mi sento ancora. C’è ancora così tanto da fare che davvero non posso badare al fatto che sono più vecchio di una volta. [Risate]
Con Fagin l’ebreo, per la prima volta ha affrontato temi forti e controversi come l’antisemitismo.
Sì, esatto.
Mi è sembrato estremamente interessante il modo in cui tratta quelli che chiama stereotipi “cattivi”, contrapposti a quelli “buoni”, e il modo in cui possono influenzare il nostro giudizio. Inoltre – è questo conferisce al libro un tono ancora più deciso – lo ha fatto denunciando un classico della letteratura mondiale come Charles Dickens. Può spiegarci la genesi di questo lavoro ed esattamente che cosa contesta a Dickens?
Cominciamo dalla prima domanda su come ho iniziato questo lavoro. Stavo facendo ricerche sulla narrativa popolare, forse inconsciamente, perché sicuramente contengono il meglio della narrativa più duratura. E lentamente mi resi conto che in questi racconti ai malvagi o ai personaggi ci si riferiva sempre con una connotazione etnica. Per esempio, c’è un italiano? Subito veniva chiamato “l’italiano” o qualcosa del genere, per tutto il racconto, e si smetteva di usare il suo nome. Oppure “il negro”. E questo mi portò a rendermi conto che siamo tutti esposti a stereotipi creati da altri. E che questo ha delle ricadute sulla nostra stessa etica.
Più ci pensavo e più mi convincevo che era questo di cui mi ero occupato quando mettevo in scena gli stereotipi di questo linguaggio. Il punto è che questo linguaggio – che io chiamo “arte sequenziale” – dipende pesantemente dagli stereotipi come parte integrante del suo bagaglio linguistico. Questo significa che noi creiamo immagini che assomigliano a persone che vogliamo vengano riconosciute da altre persone. Per esempio, se chiedevo ai miei studenti «disegnatemi un medico», invariabilmente loro disegnavano un uomo con i baffi bianchi, gli occhiali e uno specchietto in fronte. Nessuno vede più un medico in quel modo, ma il punto è che tutto ciò si è impiantato nella comprensione che intellettualmente abbiamo delle cose.
Rileggendo Oliver Twist di Charles Dickens, con grande stupore scoprii che per tutto il libro Fagin veniva chiamato “l’ebreo”, senza che nessun altro venisse indicato o riconosciuto attraverso una categoria. Iniziai così a fare un po’ di ricerche e imparai che all’epoca, attorno al 1740, gli Ebrei immigrati in Inghilterra erano di una stirpe specifica. Le caricature, come quelle dell’epoca di Cruikshank, erano tutte sbagliate e contribuirono a creare un personaggio che in effetti non esisteva. È la stessa cosa che capita negli USA con la Mafia e i fuorilegge italiani; di solito, nella narrativa americana i malavitosi sono italiani. Il che è ingiusto, ma il punto è che abbiamo creato degli stereotipi che, come un virus, si iniettano nel nostro “corpo intellettuale”.
Quanto alla seconda domanda, sono convinto che in questo linguaggio gli stereotipi siano incredibilmente necessari ma anche che esistano stereotipi “buoni” e stereotipi “cattivi”. E la mia definizione è che uno stereotipo è “cattivo” se viene utilizzato per colpire e danneggiare qualcuno. Ma se lo stereotipo viene utilizzato per rappresentare onestamente un tipo classico, allora è “buono”.
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In parte questo risponde alla domanda seguente. Sostanzialmente, un lettore di quasi uno qualunque dei suoi tanti romanzi che si svolgono in un ambiente connotato etnicamente potrebbe contestarle che lei parla tanto di stereotipi e pregiudizi contro gli Ebrei, ma è anche un ebreo i cui romanzi sono pieni di irlandesi che si chiamano O’Brian e O’Malley, e di mafiosi italiani che strillano “mamma mia!” mangiando pasta e parlando con le mani. Per non parlare del suo “peccato originale”, Ebony, la spalla di colore di Spirit. Sono tutti esempi tratti dai suoi lavori. Li chiamerebbe tutti stereotipi “buoni”?
Per la maggior parte, tutti gli stereotipi che ho dovuto usare non volevano offendere o colpire nessuno. Persino la mia rappresentazione di Ebony era molto attenta in questo.
Bisogna ricordare che, quando scriviamo, tutti noi che scriviamo e che ci occupiamo di comunicazione dobbiamo fare i conti con la mentalità dei tempi. Perciò, quando scrivo di un personaggio di colore e voglio fare ridere nell’America del 1929, quell’umorismo sfrutterà l’incapacità di una persona di parlare correttamente inglese. O il suo aspetto diverso, o il fatto che è originario di un’area rurale del paese. Oggi, nel 2004, non è più possibile fare così. Non è più considerato divertente, o socialmente corretto, se si preferisce, ridere di qualcuno perché non parla bene inglese.
Il periodo e l’epoca, quindi, incidono su come si scrive. Il compito dello scrittore è di comunicare col lettore e di catturarne l’attenzione, creando una sorta di comprensione tra i due, tra il lettore e lo scrittore. E scrivendo ci si appoggia alla memoria e al ricordo, un ricordo comune e condiviso. Nell’introduzione a Fagin parlo estesamente della mia rappresentazione di Ebony e la mia risposta a questo punto è là.
Per tutti questi motivi Fagin è il più controverso di tutti i suoi libri. Ha ricevuto reazioni o recensioni particolari?
Per ora, solo recensioni positive, recensioni librarie intendo. Non ho… be’, in un certo senso speravo che si accendesse una sorta di dibattito, magari su iniziativa della “Dickens Society” o associazioni del genere.
Nel libro, sono stato molto attento a non accusare Dickens di antisemitismo. Dickens non è stato antisemita, è stato cinico. E più tardi si è reso conto delle proprie responsabilità: in una edizione successiva di Oliver Twist ha corretto alcuni dei riferimenti a Fagin. Sono convinto di avere lavorato in un ambito che in questo linguaggio non era mai stato trattato e spero di riuscire ancora a scoprire nuove strade.
L’antisemitismo è – di per sé – un argomento politicamente scottante o come minimo controverso.
Sì, certamente.
Lei è un ebreo nato e cresciuto negli USA, il paese dove probabilmente vive la comunità ebraica più potente e influente al di fuori di Israele. Si sente in qualche modo coinvolto da ciò che da decenni accade in Palestina e in Medioriente? E come?
Risponderò a questa domanda con quello che ho detto alla “Jewish Society” nel 2002, quando mi hanno assegnato il “Lifetime Achievement Award”. La motivazione era “per avere contribuito all’apprezzamento della cultura ebraica nella società”. Ho detto loro che non mi sento un ambasciatore o un “propagandista” degli ebrei. Scrivo di ciò che conosco. Se fossi italiano, scriverei di personaggi italiani e tutti i miei personaggi sarebbero italiani. Se fossi irlandese o se lo fosse la mia famiglia, probabilmente i miei personaggi avrebbero a che fare con degli irlandesi. In definitiva, non mi considero un ambasciatore degli Ebrei, non necessariamente. Semplicemente, si dà il caso che sia ebreo e che scriva di ciò che conosco. Quasi tutti gli scrittori possono dirti che per scrivere in maniera efficace bisogna scrivere di ciò che si conosce.
Fagin l’ebreo è una nuova tappa nel suo viaggio di romanziere, un viaggio iniziato con Contratto con Dio. E nel corso di questo viaggio lei gioca di frequente con la memoria e con i ricordi della sua eredità personale e famigliare. Una sorta di riscoperta delle radici. Quale era la sua consapevolezza di essere ebreo prima di iniziare a scrivere storie ambientate nel periodo della sua infanzia?
La risposta è che gli Ebrei sono sempre molto, molto consapevoli del fatto che sono Ebrei. E che sono una comunità tenace, perché tutta la loro storia di Ebrei, negli ultimi duemila anni, è quella di un piccolo gruppo di persone nel paese di qualcun altro. Gli Ebrei sono sempre consapevoli di ciò, indipendentemente da quello che dicano.
Nel mondo del fumetto, i personaggi che disegnavo in The Spirit erano tutti irlandesi, personaggi con nomi irlandesi, soprattutto perché quasi sempre gli Ebrei cercando di integrarsi, di diventare parte della comunità. È per questo che negli USA trovate tante persone provenienti da altri paesi – italiani, irlandesi, tedeschi – che cambiano il loro cognome in modo che assomigli un po’ di più ai cognomi americani standard. Non è un fatto strano per me, non mi stupisce, e il fatto che io sia ebreo è solo una coincidenza, ed è di queste cose che scrivo.
La sua è una vita lunga e ricca. Qual è il suo rapporto col trascorrere del tempo e con i ricordi?
Certo, invecchio. E in qualche modo i ricordi sembrano come colpirmi cadendo da uno scaffale. E sono tutti incapsulati gli uni negli altri. Anzi, come ho scoperto scrivendo Verso la tempesta, che è strettamente autobiografico e per cui sono regredito nei miei ricordi, per trovarvi ciò che era importante per la storia… be’, i miei ricordi erano come una serie di vignette, incapsulati, incorniciati in vignette, capisci? Ogni singolo fatto viene ricordato sapendo qual è il precedente e qual è il successivo. E questo, soprattutto, perché la vita è un flusso continuo e ininterrotto di eventi.
Quanto alla mia età, devo essere sincero: non mi sento vecchio, davvero. E in genere sono mia moglie e il mio cane a ricordarmi gli anni che ho. Anzi, sono i giornalisti che continuano a ricordarmelo. [Risate] Mi dicono: «Non è stupendo questo vecchio che continua a fare fumetti?». E io: «Cosa ci sarebbe di così bello?».
Ha dichiarato più volte che «Il vero nemico è la vita ». Ne è davvero convinto? E perché?
Il nemico è la vita perché, istintivamente, tutti gli esseri umani lottano per sopravvivere. Sopravvivere significa evitare la morte e la loro vita è una serie di eventi che hanno conseguenze sulla sopravvivenza dei singoli, facendo il loro male o il loro bene. Se accade qualcosa di buono, è perché contribuisce al nostro benessere. Qualcosa di cattivo è qualcosa che minaccia la nostra sopravvivenza.
In una delle mie storie [“Un contratto da onorare”; N.d.R.] c’erano questi due personaggi, di cui uno italiano, tra l’altro. Uno era un vecchio killer della mafia e l’altro avrebbe dovuto essere la sua vittima. E il killer, il bandito, muore nel tentativo di uccidere la sua vittima, e quest’ultimo, la vittima, va al suo funerale.
Vivere è una faccenda rischiosa, punto e basta. E sono convinto che sia la vita il nemico nel senso che è come se fossimo costantemente in lotta contro di essa. Probabilmente è per questo che mi chiedono perché i miei libri sembrano essere accolti meglio in Europa che negli USA. Credo che sia perché quando si vive in città molto popolose, si diventa maggiormente consapevoli della lotta per la sopravvivenza. Forse sto divagando un po’ troppo, ma gli americani tendono a pensare in maniera non lungimirante, in termini di soluzioni immediate ai problemi.
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Negli ultimi anni, Hollywood sembra pervasa da una sorta di “fumettomania”, dovuta al successo di grandi produzioni tratte da serie a fumetti. Cosa è stato dell’ormai quasi leggendario progetto cinematografico di Spirit di William Friedkin?
Molto sinceramente, non mi interessa più. Anzi, trarre un film da Spirit non mi ha mai veramente interessato. In gran parte, perché si tratta di un linguaggio completamente diverso, con cui non sono veramente in buoni rapporti. Questo perché se si fa un brutto film, questo non influirà sull’opinione che si ha del mio lavoro, ma neanche se il film è buono. È per questo che non interessa molto fare film.
Peraltro, una ventina d’anni fa venni contattato da un produttore e lo autorizzai a fare un film di Spirit. Lavorava per la Warner Brothers e si trattava di un film per la TV di un’ora. Andò malissimo, un vero fallimento.
E questo è stato il suo unico tentativo?
Sì, l’unico. Giustamente, trattandosi delle stesse persone che poi fecero il film di Batman, acquistarono un’opzione per un vero e proprio film di Spirit, ma in vent’anni non sono riusciti a realizzarlo e, per quanto mi riguarda, non è importante. Non mi interessa il cinema. Mi interessa solo la carta stampata.
Difficilmente lei esprime opinioni positive o negative sul lavoro di altre persone nel campo del fumetto. Ma se dovesse scegliere tre bei libri da portare con lei in viaggio, o da tenere sempre sullo scaffale?
Uno sarebbe Gen di Hiroshima: è stato pubblicato in Giappone e parla dell’esplosione nucleare di Hiroshima. Trovo che sia un grande capolavoro. Poi, non saprei… Oh, certo, porterei con me qualcosa di Milton Caniff. Ho una raccolta delle sue storie e le trovo stupende. Anzi, lo considero un mio maestro. Da lui ho imparato moltissimo. Poi, una raccolta di Krazy Cat di George Herriman, che considero un grande classico, e un grandissimo genio. Anche da lui ho imparato come coinvolgere visivamente il lettore. Penso che sarebbero questi i tre libri che conserverei sul mio scaffale.