Provate a cercare su Google il significato dell’aforisma di Oscar Wilde «Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze». Vi si aprirà un mondo. Uno tsunami di interpretazioni dettate tanto da un presunto buonsenso quanto da un moralismo piuttosto paternalista. Senza mezzi termini, tutta spazzatura. Secondo la mia esperienza personale, la migliore lettura della massima la da Susan Sontag, mettendola in apertura del saggio Contro l’interpretazione (già citato su queste pagine da Claudio Maringelli). Nelle pagine del noto articolo, la studiosa ci spiega come l’interpretazione possa essere soggettiva e facilmente manipolabile, mentre la lettura dell’opera di per sé richieda cultura, capacità di analisi e poco spazio per l’emotività. Per dire che un fotografia comunica – per esempio – il peso della società sulle spalle del povero uomo moderno bastano un po’ di faccia tosta e un eloquio abbastanza allenato. Per fare invece la mappatura del presente basandosi sulla forma – che da cinquant’anni a questa parte è diventata il contenuto – occorrono invece anni di studio alle spalle e una ricca esperienza di critica.
D’altra parte, mettendosi nei panni dell’artista, cercare di vendere un’installazione imbastendone qualche significato recondito è una cosa; creare qualcosa che abbia valore di per sé è un altro paio di maniche, ben più ostico da indossare. Un dato di fatto che, ça va sans dire, non ammette interpretazioni. E se c’è un artista che questa svolta culturale l’ha vissuta in maniera totale – arrivandoci almeno dieci anni prima rispetto al saggio citato – quello è Andy Warhol. L’uomo che ci insegnato a vivere sulla superficie, a goderne e a rassegnarci a essa. L’artista che forse come nessun altro ha capito il nostro mondo per quello che era effettivamente, fermandosi alle apparenze e realizzando che oltre a quelle non c’è nulla. Siamo solo la parvenza che vogliamo dare, non c’è altro da raccontare. La maschera diventa il vero volto.
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Prendiamo ora quello che forse è il migliore biopic degli ultimi anni, ovvero Steve Jobs di Aaron Sorkin e Danny Boyle. La storia di un uomo che come pochi ha saputo spingere sul concetto di immagine. In quel caso si faceva di tutto per andare oltre il sipario di quello che il grande imprenditore desiderava noi vedessimo. Non a caso tutto il film era ambientato fisicamente dietro le quinte dei suoi noti keynote. La macchina da presa indugiava in quei camerini dove emergeva l’uomo iracondo, incontentabile e drammaticamente diviso. Se sorrisi e dolcevita di Miyake erano la superficie, lì si voleva andare più in profondità. È la tecnica più consolidata nel racconto di vita vera, qui portata a uno dei massimi esempi. Si prende una personalità in vista – solitamente piuttosto idolatrata – e si pretende di raccontare “l’uomo” autentico nascosto nell’ombra della stella. Ma con Andy Warhol questo non era possibile, perché nella sua carriera/vita/performance tutto era autentico e contraffatto allo stesso tempo. E per narrarlo non si può che fare una cosa sola: fermarsi alla superficie, come Adriano Barone e Andrea “Officina Infernale” Mozzato hanno scelto di fare.
In Warhol. L’intervista, tutto si svolge al negativo rispetto al lungometraggio appena citato. Assistiamo a un’intervista dove Andy appare come Andy, spesso in maniera esplicitamente teatrale. Il rito della conversazione con il giornalista/documentarista, per quanto ogni giorno ci vengano spacciati interventi del genere come verità senza coni d’ombra, è costruito per definizione. Non solo il protagonista è su di un palco, ma tutte le luci sono solo per lui. Non riusciamo a vedere cosa c’è alle sue spalle, non abbiamo un sistema di riferimento per capire se quelle quinte abbiano una vera profondità o si tratti solo di scenografie bidimensionali. Per ovviare al problema si sceglie di raccontare la sua vita senza mai cadere in dietrologie o banalità psicoanalitiche da quattro soldi, solo narrando gli snodi più significativi. Ci limitiamo a descrivere quello che vediamo. Non fa nulla se a un certo punto neppure il narratore sa più cosa sia leggenda e cosa testimonianza fedele.
Di ogni fatto riportato viene detto che «c’erano tre versioni diverse». A ogni incalzare dell’intervistatore per andare più in profondità, il Nostro artista si scansa e lascia che sia, ancora una volta, il superficiale corso degli eventi a parlare. Perché questo ci deve bastare per capire. Chiedendo a un artista il significato della sua opera decidiamo di farci manipolare, quando in realtà abbiamo la verità davanti agli occhi. Le paure, le ossessioni, l’anima sempre inquieta di una delle menti più brillanti del secolo scorso sono lì, nella sua ossessione per la celebrità, nelle feste, nel presenzialismo, nell’amare l’etichetta di “commerciale” per mettersi poi a girare film muti di otto ore. Il discorso si fa un poco più debole nel finale, quando finalmente si riesce a fare qualche passo in avanti. Sebbene a un certo punto il libro necessiti dell’intrusione di una sorta di anima a scaldarne le pagine, le cose non cambiano un granché, e si finisce ancora una volta per essere alla mercé dell’artista.
Nonostante la ruvidezza delle tavole – facilmente accostabili alla tecnica della serigrafia – le scelte grafiche di Mozzato vanno più in là del mero scimmiottare la cifra stilistica di Warhol, facendo paio perfetto con i testi. La ricerca di un’estetica che abbracci a pieno le scelte della sceneggiatura centra il suo obbiettivo, componendosi spesso e volentieri di riproduzioni piatte di materiale già esistente. Fotocopie, illustrazioni pubblicitarie, fotografie, vignette di altri fumetti, lavori stessi di Warhol. Tutto pare frutto di qualche tecnica di copiatura seriale a basso costo o di ripescaggio da altri lidi. Anche le vignette disegnate completamente a mano vengono riutilizzate senza pudore, riproponendole spesso senza neppure prendersi la briga di modificarle minimamente. Il risultato è, se mi è permesso l’ossimoro, un magnifico dozzinale. Come i cartelloni pubblicitari, le insegne e le icone a basso costo tanto amate dall’artista al centro del volume. L’insieme potrebbe apparire come forse poco digeribile, ma non c’era altromodo per narrare la vita di Warhol se non aderendo completamente alla sua visione del mondo. Dove i termini bello e brutto non avevano più significato, almeno quanto copia e originale.
In questo senso, L’intervista arriva direttamente al punto. Warhol e la sua arte si spacciavano come la cosa più semplice e democratica del mondo, uguale per tutti e trasparente come l’aria, eppure a oggi si prestano a una marea di interpretazioni possibili. C’è chi ci vede l’esaltazione dell’America e chi una feroce critica. La realtà dei fatti è che il vero capolavoro di Warhol è sempre stata la sua ambiguità, il suo essere indecifrabile e sopra le parti. Totalmente disinteressato a prendere una posizione. Una complessità tanto schiacciante da costringerci, ancora una volta, a limitare il nostro sguardo alla superficie. Alle pareti argentate della Factory, alle copertine per i Velvet Underground, alla bellezza statuaria di un attore incapace come Joe Dallesandro. Alla fine del volume tutta la vita di Warhol si sarà dipanata davanti ai nostri occhi, come uno dei suoi film a camera fissa. Quelli erano i fatti e quelli pensano di aver riportato gli autori. Oppure quello su cui si sono documentati non era che una copia bidimensionale della realtà? Ma ha davvero importanza saperlo?
Nelle ultime pagine sarà Warhol stesso a mettere l’intervistatore davanti a una macchina da presa, a soffocarlo di domande. Un ribaltamento dei ruoli, una copia speculare di un atto già fittizio. «Vuoi diventare famoso per sempre e sconfiggere la morte?» è ultima domanda che porge al malcapitato. Una questione che probabilmente si sarebbe posto lui stesso.
Warhol. L’intervista
di Adriano Barone e Officina Infernale
BeccoGiallo, 2017
208 pagine in b/n e a colori, € 19,00