River of Crime è una storia di Spirit che Darwyn, poco più di vent’anni, passa i venerdì sera a copiare. Darwyn lavora come cameriere in un pub, gli piacerebbe disegnare fumetti ma non sa cosa fare della propria vita. È in quel pub che origlia le conversazioni di due editor di una rivista musicale che hanno fatto le ore piccole a causa del licenziamento del loro art director. Dopo aver comprato un numero della rivista e ridisegnato tutte le pagine, Darwyn viene assunto, ma non immagina certo che da grande finirà col disegnare lo stesso personaggio che titillava le sue fantasie. Neanche Matt, che è figlio unico e ha un diario in cui scrive che vuole fare l’astronauta, ha in mente di lavorare su un personaggio pulp come Spirit. Francesco, che con Matt ha reinventato Zorro per i lettori di fumetti, men che meno.
Azione mistero avventura. L’essenza di Spirit sta nelle tre parole in calce a ogni sua storia. Più della divisa (completo blu, fedora, guanti e mascherina), è l’ecletticità del tono a contraddistinguere il detective creduto morto in quel di Central City. Creato nel giugno 1940, The Spirit compariva ogni domenica nell’inserto dei maggiori quotidiani statunitensi, e nelle sette pagine (otto, all’inizio) che i giornali gli concedevano Eisner poteva variare la formula al punto da farne tela su cui disegnare intrighi internazionali, screwball comedy, racconti di gangster, favole morali, scorci fantascientifici, perfino musical e libri per bambini in rima. “Azione avventura mistero” erano tre promesse che andavano mantenute, non importava come.
A contribuire alla mitologia del personaggio, uno stuolo di autori che è andato a bottega da Eisner e lo ha aiutato durante e dopo la sua permanenza nell’esercito: Jules Pfeiffer, Jerry Grandenetti, Jim Dixon, Wally Wood, Lou Fine e tanti altri ghost-writer che scrivevano sceneggiature, disegnavano, ripulivano le matite, assistevano.
Ma Spirit è sempre stato legato a un solo nome, quello di Will Eisner. E pensarli divisi era un affronto che lo stesso Eisner non era pronto a commettere. Nonostante occasionali ritorni, aveva mandato in pensione Denny Colt, dando istruzioni al suo editore, Denis Kitchen della Kitchen Sink Press, di non proseguire le storie del personaggio. Una volontà che Kitchen ha sempre rispettato, a caro costo, dato che il nome di Spirit attraeva lettori e vendite. «Erano anni che gli suggerivo di lasciare che altri realizzassero storie di Spirit», ci racconta Kitchen. «Ma solo verso la fine si convinse a far giocare altri autori nella sua sabbionaia».
Che Eisner tornasse a lavorare su Spirit era fuori discussione. Ci avevano già provato negli anni Settanta, quando ormai Colt rappresentava il passato. Davanti a lui c’erano Contratto con Dio, La forza della vita, Dropsie Avenue e gli altri lavori più personali. Ma Kitchen continuava a insistere, sperando che il ritorno di Spirit avrebbe risollevato le sorti della casa editrice. Eisner accettò, in nome dell’amicizia che lo legava, lui signore così distinto, a Kitchen, hippie con lunghi capelli cenciosi e pantaloni a zampa. «Will amava dire che entrambi fumavamo la pipa, solo con sostanze molto diverse dentro». Ed entrambi capirono che il rapporto tra Spirit e il suo autore era terminato quando questi consegnò all’editore The Last Hero, una lunga avventura (50 pagine) che rimase inedita per la qualità non eccelsa. «Si vede che hai realizzato questa storia perché hai dovuto e non perché hai voluto», gli disse Kitchen dopo averla letta.
Quando Kitchen negli anni Novanta ci riprovò, partì dal presupposto che The Spirit: The New Adventures (tradotto anche in Italia da Panini Comics come Le nuove avventure) avrebbe dovuto avvalersi di nuove penne, in un’ipotetica antologia senza fine in cui le voci del fumetto moderno si univano in un coro elogiativo, decostruttivo, distorcente o reverenziale. Voci che, pensava l’editore, avrebbero accettato all’istante. Invece gli autori si dimostrarono scettici verso The New Adventures, non tanto per l’idea in sé ma per il timore che il nome di Will incuteva in chiunque. Eisner stesso dovette rincorrere Neil Gaiman tra i corridoi della fiera di Gijon, in Spagna, portarlo a passeggiare sulla spiaggia della città, macinare chilometri prima di persuaderlo con la richiesta di vedere delle storie di Spirit realizzate da lui. Alan Moore, invece, accettò in automatico per via di una somma che gli era già stata riconosciuta per un lavoro mai realizzato (una proto-versione de La Lega degli Straordinari Gentlemen con Simon Bisley).
Moore recuperò il gusto compositivo de La storia di Gerhard Shnobble e realizzò un trittico pastiche di tutto quello che era Spirit, creando, a parere del diretto interessato, una delle storie migliori che avesse mai scritto. A Gaiman e Moore si accodarono nomi di fascia alta come Eddie Campbell, Paul Pope, Joe R. Lansdale, Paul Chadwick, Kurt Busiek, tutti artefici di sentiti omaggi, qualitativamente validi ma inservibili a fresare il terreno per il futuro. Come ha scritto Andrea Plazzi, editor, traduttore e principale promotore eisneriano in Italia: «La serie della Kitchen Sink degli anni Novanta contiene cose bellissime ma sono quasi tutte più omaggi che veri tentativi di rifondare il personaggio per riproporlo in maniera sostenibile sul mercato moderno».
The New Adventures durò il tempo di un sogno, perché la Kitchen Sink fallì mentre l’ottavo numero della serie veniva mandato in stampa. Così, all’alba del nuovo secolo Eisner e Kitchen andarono alla ricerca di un nuovo editore, trovando casa alla DC Comics. «Credo volesse sistemare tutte le questioni lasciate in sospeso perché si era reso conto della precarietà delle sue condizioni», ricordava Darwyn Cooke a The Comics Journal. «E quindi tutti questi accordi vennero siglati prima della sua operazione. E poi è successa la cosa peggiore che potesse accadere».
Poco dopo la morte di Eisner, Cooke, fresco del successo di New Frontier, ricevette la chiamata dell’editor Mark Chiarello. Il lavoro sulla versione Golden Age dei supereroi DC aveva convinto i vertici che la sua fosse la sensibilità giusta per affrontare Spirit. La reazione di Cooke fu una mistura di esaltazione e terrore. «Non è che fossi granché convinto», ha raccontato a Bob Andelman nella biografia Will Eisner. Una vita per il fumetto. «Ci pensai a lungo e mi convinsi che non avrei dovuto farlo. Tutti avrebbero voluto vedere un omaggio o una replica di qualcosa che già era successo. Sarebbe stato come quando hanno rigirato Psycho. E io non volevo essere il tizio che rigira Psycho». Questa volta si trattava di introdurre Spirit a un pubblico nuovo, su un palcoscenico più grande grazie ai potenti mezzi di DC. Era il primo, serio, tentativo di rifondare il personaggio, dopo quello di fine anni Novanta, che più che una costruzione programmatica era stata una sequela di omaggi genuflessi e riverenze filologiche alla fonte.
Dopo The New Frontier, Cooke era diventato il riferimento principale per qualsiasi operazione che guardasse al passato. Insofferente verso la stigmatizzazione, si sarebbe poi rifiutato di lavorare con Grant Morrison su una storia per la collana Multiversity ambientata nella Golden Age, ma l’elemento crime, unito alla passione per Eisner, lo spinse ad accettare l’incarico. Darwyn era pur sempre il ventenne che il venerdì sera ne stava a casa a ricopiare ossessivamente la tavola d’apertura di A River of Crime, avrebbe potuto tradire così il sogno?
Forse, si convinse, forse in realtà avrebbe potuto farcela. Bisognava solo avere un’idea convincente in testa. «Vidi dello spazio per giocare, se l’avessimo portato nel mondo d’oggi avrei potuto introdurre nuovi tipi di storie e personaggi». Cooke optò per un unico, cruciale, cambiamento: spingere in avanti il personaggio e collocarlo nella contemporaneità del lettore. «A prima vista, ambientare The Spirit in una Central City del Dopoguerra sembrerebbe la mossa giusta per la serie. Ma se rimuoviamo l’immagine seducente che Eisner dà degli anni Quaranta dal cuore della striscia troveremo il racconto di persone, della vita nella città, di storie senza tempo che parlano al lettore a prescindere dalla collocazione temporale». La cosa più semplice sarebbe stata attualizzare i personaggi con quello che andava di moda nella cultura pop coeva. Immaginarsi Ebony come se avesse dovuto interpretarlo Dave Chappelle, per esempio, dargli un suo patois, osare, affidandogli qualche battuta citazionistica. Questo lo avrebbe reso datato, vecchio e non classico. E fu proprio in questa differenza che se la giocò Cooke.
Restava inalterata l’impostazione narrativa di Eisner: raccontare un storia autoconclusiva. Solo che Cooke aveva a disposizione 22 pagine, invece delle 7/8 che i giornali avevano concesso a Eisner. La dilatazione degli spazi influenzava il ritmo, meno sincopato, e l’occhio del lettore, che potevaindugiare nei momenti di quiete e negli angoli buii delle vignette. Le storie autoconclusive furono una sfida che Cooke lanciò anche ai colleghi: «Le storie in più parti hanno preso piede perché così gli sceneggiatori non devono pensare tanto. Devi inventarti una sola storia e trascinarla per sei numeri. È un modo più facile per guadagnarsi da vivere».
E nemmeno del protagonista trovò nulla che valesse la pena cambiare. Quando gli chiedevano se non avesse paura di farlo sembrare demodé, con quegli abiti, lui rispondeva: «Sì, ma non mi dispiace se pensano che Denny sia fuori moda con il cappello e il completo e tutto quanto, ne farò spunto per qualche battuta. Ma lui è così. Per me Spirit è un anacronismo che continua a esistere in un mondo molto moderno».
«NON CI SARÀ NESSUNA DECOSTRUZIONE», tuonò Darwyn nel manifesto programmatico che inviò a DC. Lo scrisse in maiuscolo, lo sottolineò, tradendo il senso di ottimismo e sincerità sotteso alla sua poetica. E poi continuò:
Il fumetto di genere americano. La sua varietà di personaggi, ambizioni e innovazioni narrative sono un risultato senza precedenti che resiste al tempo. Per intraprendere una sfida mensile di questa magnitudine ci sono due direttive che vanno rispettate con uguale impegno ed entusiasmo:
1. Preservare e se, umanamente possibile, arricchire l’essenza di Spirit. Dare ai lettori di lungo corso una visione contemporanea della magia che li ha incantati per decenni e introdurre una nuova generazione all’irresistibile attrazione di questo ricco dramma umano. Azione, crimine, romanticismo, commedia e pathos saranno dispensati generosamente nello “spirito” della striscia originale.
2. Mentre rimaniamo fedeli alla visione eisneriana del mondo e di Central City, dovremmo attenerci anche alla sua idea che i lettori vadano intrattenuti con tecniche di narrazione contemporanee, nuove e appropriate. Penso che questo fosse importante per Will e sia la chiave per evitare il semplice omaggio.
A fare da apripista alla serie, la DC organizzò un one-shot disegnato sempre da Cooke ma scritto da Jeph Loeb, in cui Danny Colt incrociò le mazze con Batman. Batman/The Spirit è un crossover meno peregrino di quanto si pensi. Erano anni che Eisner tentava di ibridare la propria creatura con gli altri universi. Negli anni Ottanta, insieme a Denny O’Neil, aveva progettato un team-up con Ala d’Acciaio e aveva tentato più volte di concretizzare la cosa, mentre Jim Shooter non coronò mai il sogno di vedere l’Uomo Ragno scontrarsi con Spirit (Eisner comunque lo rassicurò che «Spirit farebbe le scarpe all’Uomo Ragno»).
Loeb premette il pedale del camp come se la cosa non potesse influire minimamente sul peso narrativo di una storia che, con tutta la leggerezza del caso, sarebbe stata un momento unico per ragionare sulle figure di Spirit e Batman. Ma l’obiettivo era un altro, l’importante era presentare Spirit a un pubblico di neofiti, attratti dall’esca sempreverde di Batman, e far comprendere loro gli elementi di decodifica dell’universo eisneriano. Il problema era che Loeb sembrò aver fatto un lavoro minimo di ricerca, e quando pose il personaggio al fianco di Batman si capì subito di che pasta pensasse fosse fatto: per integrare eroi che vanno a due velocità diverse, invece di spingere in avanti Spirit per il pubblico del nuovo millennio, tirò indietro Batman, riportandolo alle atmosfere naïf delle origini. Perché Batman aveva proseguito il suo cammino editoriale, macinando anni di storie e mutando con il mutare dei tempi, mentre Spirit, inattivo, era rimasto nella sua cornice temporale, cristallizzato a quelli che sembravano, fumettisticamente parlando, tempi più semplici. Eppure, alle loro origini, Danny Colt e Bruce Wayne erano stati personaggi simili, fortemente pulp, le cui vicende erano state calate in un mondo urbano attanagliato dalla criminalità. Solo che a un certo punto Batman aveva iniziato a prediligere il genere puro del supereroismo, mentre Spirit aveva tagliato le storie con l’umorismo. Cooke spiazzò tutti e invece della retromarcia di Loeb puntò sull’attualizzazione del contesto: Danny Colt fu calato nel XXI secolo. Cambiavano le tecnologie, restavano immutate le dinamiche e il tono scanzonato. Ancora una volta, azione avventura mistero.
E fu con il suono dirompente di una grancassa che lo Spirit moderno debuttò in Ice Ginger Coffee. Cooke prese le distanze dalla teatralità di Eisner, preferendogli il taglio cinematografico di Jack Kirby, e aprì il primo numero con una doppia pagina di Spirit che correva tra le luci al neon di Central City, in un fermo immagine somigliante al retrofuturismo de Gli Incredibili. Il regista del film, Brad Bird, era a sua volta un patito di Eisner: era arrivato a tanto così dal realizzare il lungometraggio animato di Spirit e, non riuscendoci, lo aveva omaggiato di continuo nei suoi lavori (ne Il gigante di ferro, mettendo un suo fumetto nelle mani del bimbo protagonista, e ne Gli Incredibili, dando alla famiglia Parr la stessa mascherina di Denny Colt).
Catapultando Spirit negli anni Duemila, Cooke lo mise di fronte ai media, alle pubblicità imperanti, a nuove tipologie di crimine (il furto d’immagine) e a Internet, in quello che probabilmente fu l’albo migliore, il decimo, Morte per televisione, in cui fu presa di mira la punditocracy (espertocrazia) di commentatori e opinionisti come Rush Limbaugh e Ann Coulter, personalità dalle opinioni radicali i cui nuclei concettuali non stanno nelle parole che pronunciano ma nella foga con cui le urlano, dieci anni prima della loro deriva gentista.
Il lavoro fu intenso, e gli editor Scott Dunbier e Kristy Quinn gli guardarono le spalle muovendo una macchina produttiva che, oltre a tenere conto delle solite impellenze, era comandata dal modus operandi di Cooke e dalla sua ricerca patologica di perfezione: a differenza dei colleghi, utilizzava il metodo Marvel, per cui, dopo aver scritto la trama passava direttamente al disegno, lasciando per ultima la fase di sceneggiatura vera e propria. Inoltre, controllava ogni vignetta e controverificava ogni scelta del colorista.
Dopo un anno di storie, Cooke abbandonò la serie. Avrebbe dovuto produrre altri dodici numeri in veste di sceneggiatore, lasciando al sodale J. Bone le impellenze grafiche, ma questi si ritirò dal progetto. Quando, durante la scelta del rimpiazzo, venne a sapere che anche il team editoriale dietro la testata sarebbe stato cambiato, Cooke si chiamò fuori. Alla fine del suo percorso, lo Spirit di Cooke venne definito «un personaggio ancora più difficile da gestire. Visto quanto in alto l’asticella sia stata alzata da Eisner prima e da Cooke poi, è ormai praticamente impossibile raggiungere tale standard».
Dopo l’abbandono di Cooke, Mark Evanier, Sergio Aragones, Mike Ploog e un’altra manciata di autori si succedettero nella gestione del titolo, che calò nelle retrovie delle classifiche di vendita – dove già il nome di Cooke non era riuscito a fare miracoli – e terminando la sua corsa con il numero 32, nell’ottobre 2009.
Passarono un paio d’anni, la DC si stava rilanciando con l’evento The New 52 e i vertici pensarono di accorpare una serie di licenze d’epoca per creare un universo condiviso da eroi della Golden Age. L’idea che ne uscì fu First Wave, una collana che metteva insieme personaggi pulp come Spirit, Doc Savage e Blackhawk. A capo del progetto Dan DiDio, che chiamò Brian Azzarello a supervisionare il parco testate e a scrivere la Bibbia per i vari autori. Da buon aziendalista, Azzarello propose di aggiungere qualche nome spendibile come Batman, nella versione anni Quaranta, introducendo l’idea che questo universo fosse abitato da supereroi senza poteri veri e propri. L’impianto pulp pareva perfetto per le avventure di Spirit, peccato che i dettami di Azzarello – insieme a Ed Brubaker uno degli sceneggiatori più stilisticamente limitati dell’industria – fossero all’insegna del duro e puro, dello schiaffo con rinculo, dello sparo a bruciapelo.
Seguendo le impostazioni del truce Azzarello, il team creativo assoldato per Spirit (Mark Schultz – rimpiazzato poi da David Hine – e Moritat) spogliò il personaggio dell’umorismo, lo privò dell’eccletticità e lo ridusse a un detective di genere. Schulz lavorò con l’idea che Spirit funzionasse al meglio nella zona di confine tra la legalità della polizia e le sue connessioni con la malavita. Nelle interviste, Schulz non nascondeva il fastidio di questa imposizione, ma lasciava anche trasparire il sollievo di non doversi confrontare ad armi pari con Cooke. La cappa gettata dal canadese era pesante, e il suo nome iniziava a venire citato in coppia con quello di Eisner sempre più spesso.
L’avventura finì dopo 17 numeri e nessun segno nella memoria della collettività (in Italia il progetto fu pubblicato, in maniera discontinua, Bao Publishin). The Spirit divenne una testata non dissimile da uno dei tanti titoli noir del mercato, con un segno grafico snaturato e scelte narrative discutibili. In questa incarnazione, per esempio, Ebony era una ragazzina che ricordava per impostazione la Carrie Kelly de Il ritorno del Cavaliere Oscuro. L’unica cosa che aveva di interessante questa serie era la storia secondaria presente nei primi numeri. Si trattava di storielline in bianco e nero di poche pagine, affidate ad autori ospiti, sulla scia di Batman: Black & White.
Cooke spiegò la debacle dell’approccio realista a Spirit in un’intervista a Panels and Pixels: «Quando ero un ragazzino, Neal Adams era un dio. È il tizio che ha dato il via a un nuovo stile. All’epoca credevo fosse l’unico modo di disegnare i fumetti. E poi ho scoperto Alex Toth e Will Eisner. E anche se non li trovavo gradevoli quanto Adams da guardare, ci tornavo spesso sopra. Non potevo sottrarmi all’idea che una linea più semplice comunicasse in maniera molto più chiara. Se vai oltre la tecnica di disegno, quale dei due approcci fornisce maggiore profondità emotiva e connessione con il lettore?».
Era il 2013, e la DC sembrava pronta a lasciar andare uno dei personaggi più importanti del fumetto americano, forse pensando che Spirit stesse bene nel passato, sigillato nei ricordi, fissato nella storicizzazione. Dopo tredici anni di attività editoriale, restituì i diritti di sfruttamento alla Kitchen Sink, non prima di aver detto addio a Spirit nello stesso modo in cui l’aveva accolto, con un crossover, Rocketeer e Spirit: Pulp Friction, team-up interaziendale (Rockeeter è in mano alla IDW), sui testi di un fresco Mark Waid.
L’anno successivo, dopo l’annuncio dell’acquisizione da parte di Dynamite Entertainment, specializzata in property d’epoca (The Phantom, Dracula, Lone Ranger), Matt Wagner fu scelto dalla casa editrice per via dei suoi lavori sulle icone retrò Zorro e Green Hornet, oltre che dei suoi Grendel e Sandman Mystery Theatre, fumetti che avevano analizzato il noir e gli eroi del passato.
Anche Wagner, come Cooke, rifiutò l’offerta. Due volte. Perché non conosceva abbastanza il mondo, credeva di non avere nulla da aggiungere alla mitologia, perché l’eredità era pesante. Perché tutte le idee che gli venivano in mente pensando a Spirit erano già state messe su carta da Eisner anni prima. Attraversate le fasi che accomunano tutti gli autori di Spirit prima di lui, Wagner acconsentì e scavallò Cooke per tornare alle origini, ai fumosi anni Quaranta, ma puntando, primo di tutti, su una trama di ampio respiro. «L’intera produzione di Eisner su The Spirit è composta da racconti di sette pagine», spiegò a CBR. «Ho pensato che quel terreno lo aveva già coperto bene, non c’era altro da fare con quel personaggio in quel formato. Perché non fare una storia lunga di dodici numeri?»
Impegnato ai testi, Wagner faticò a trovare un disegnatore. Cooke era stato troppo bravo, ammise nelle interviste, avevaa lasciato un segno forte quasi quanto quello di Eisner, e trovare un disegnatore che fosse in grado di reggere il confronto non era facile. Per Wagner la scelta migliore sarebbe stata Eric Powell, il creatore di The Goon, ma questi era troppo impegnato e si sarebbe limitata a realizzare le copertine della miniserie. Alla fine la scelta ricadde su Dan Schkade, una mano che non si allontanava dal segno di Cooke.
Giocando con l’assenza di Spirit, i due recuperarono un’idea centrale della poetica eisneriana che Wagner pensò di poter spingere all’estremo: Spirit non è il protagonista della striscia, è solo un elemento, spesso uno spunto, che fa da volano per raccontare altre tematiche. Gli esempi sono tanti, ma in storie come Dieci minuti, Lo spirito natalizio del 1940 o Orango, l’uomo scimmia Danny Colt compare a malapena tra una vignetta e l’altra, lasciando che la trama risolva se stessa. Allora perché non rimuoverlo del tutto dall’equazione e rendere il cast di supporto (Ellen, il commissionario Dolan, Ebony) i protagonisti?
Il risultato, Chi ha ucciso Spirit? (pubblicata in Italia da Editoriale Cosmo), è una maxisaga in dodici numeri eccessivamente verbosa e ripiegata su stessa, un esercizio di variazione sul tema non particolarmente ispirato. È quasi più soddisfacente l’incontro dello scorso gennaio con Dick Tracy, a opera di Joe Staton e Mike Curtis, amarcord tenace in cui i due sembrano figure speculari dello stesso archetipo. Fa più ben sperare la recentissima incarnazione, varata in tempo per i cento anni di Will Eisner, a opera dell’italiano Francesco Francavilla, il cui passato pulp (Zorro, The Black Beetle) sembra il biglietto di presentazione perfetto per un rilancio di Spirit.
Le scelte editoriali attuate nell’ultimo decennio senza Eisner sono chiare fino all’ineluttabile. Cooke, Wagner e Francavilla sono autori che hanno costruito le rispettive carriere sulle direttive del pulp, delle atmosfere criminali, della riscoperta e del guardarsi indietro – con dosi diverse di nostalgia. Uno solo, per ora, ha sfiorato la grandezza e, nel suo piccolo, è diventato ulteriore modello per ogni aspirante sognatore che si appresta a confrontarsi con Spirit. Non c’è modo di sfuggire allo stampo eisneriano che, per quanto vario, è segnato nella memoria collettiva per quella miscela calibratissima di azione avventura mistero.