Rileggendo La morte di Wolverine ho fatto una profonda riflessione di cui voglio rendervi partecipi. Ma quando è stata l’ultima volta che ho letto una bella storia di Wolverine? Perché riesco a ricordarmi di quando ho letto una bella storia con Squirrel Girl ma di Wolverine niente? E questo è un bel problema se considerate che Wolverine ha un monte pagine cospicuo ed è stato per lungo tempo il mio personaggio preferito (due nozioni altrimenti estranee che trovano qui un brioso punto di contatto).
Come ha scritto Andrea Antonazzo sulle nostre pagine:
«Nel 1991 Wolverine era ancora un personaggio affascinante e lontano dallo stereotipo del classico supereroe. Un burbero mutante dal cuore nobile e dal passato indecifrabile, diviso tra i doveri di X-Man e i vagabondaggi in giro per il mondo con l’intento di saldare conti personali, che fossero nel nativo Canada o nell’immaginaria isola di Madripoor.
Nel giro di pochi anni, il successo del personaggio l’avrebbe mandato quasi definitivamente in vacca per via di una sovraesposizione eccessiva sia all’interno che al di fuori dei fumetti. Allo stesso tempo, tutti gli sceneggiatori che si occupavano di lui si affannavano ad aggiungere indizi sul suo passato misterioso, spesso inutilmente e quasi sempre senza coerenza. Tra accavallamenti, sovrascritture, mezze verità, doppi e tripli giochi e semplici script mediocri, si è così creata intorno al personaggio una quantità di spazzatura tale da sovrastare la sua essenza.»
Il ragionamento, a cui non andrebbe aggiunta che una virgola per tracciare la parabola editoriale del personaggio, conclude proponendo Arma X di Barry Windsor-Smith (anno 1991) come picco della vita editoriale di Wolverine. Interpongo un concetto in questa congiuntura: ci sono stati episodi felici dal 1991 a oggi, però è vero che questi luoghi ameni vengono asfaltati da tutta la cattiva letteratura prodotta nel nome di Logan. Può La morte di Wolverine colmare una misura da troppo tempo lacunosa?
Prima di rispondere, bisogna capire come arriva Wolverine all’appuntamento con il Triste Mietitore. Distillato all’essenza, Wolverine è una miscela di violenza e romanticismo. È un guerriero compassato, un eroe riluttante che cerca di migliorare sé stesso e che ama fortissimo. Un solitario che non vuole uccidere, ma lo fa molto bene e non ha tentennamenti quando necessario, e che ogni volta viene tirato dentro alle situazioni. Chris Claremont, colui che ha dato senso d’esistere agli X-Men, lo sceneggiava come il cowboy o il samurai del futuro, contemporaneamente ronin e uomo senza nome, in una sinergia culturale rara al tempo ma coerente con il concetto di evoluzione della specie rappresentato dai mutanti.
Come tutti gli X-Men, sotto certi aspetti è anche un adolescente (la vita amorosa, la socialità). Non si è mai sobbarcato responsabilità verso gli altri e ha sempre fatto i conti con i propri coinvolgimenti emotivi a cose fatte. Questo lo ha messo in netta opposizione a Ciclope, leader del gruppo, maturato precocemente e pronto a caricarsi sulle spalle il peso del mondo, di fronte a un padre putativo (Xavier) con cui si è trovato spesso in dissenso, quando non assente. Nella parte tarda della sua vita i ruoli si sono invertiti, Wolverine è diventato Ciclope, rigoroso, responsabile, e Ciclope ha assecondato i moti rivoluzionari che covava nel profondo dell’animo. L’emarginato ribelle era diventato il capoclasse e viceversa. Wolverine si è integrato nella società supereroistica, comparendo in quasi tutti i principali supergruppi (è un problema quando uno dei tuoi personaggi più amati dal pubblico è un lupo solitario e per sfruttare il suo appeal commerciale finisci per snaturarlo), diventando persino insegnante di una scuola, una deriva che ha macchiato d’irritazione una serie altrimenti molto bella (Wolverine and the X-Men).
Autori del XXI secolo come Jason Aaron, Brian Bendis o Mark Millar hanno rispettato la caratterizzazione di Claremont accentuando determinati aspetti (il senso di colpa Bendis, l’antieroismo violento Millar) senza mai contestualizzare le storie come faceva Claremont, non tenendo a mente che le trame in cui Wolverine funziona meglio sono i racconti pulp. Le sue avventure combinano l’escapismo di Indiana Jones con la gravitas di Rashomon. Ma con l’ascesa di popolarità e il conseguente aumento di storie a lui dedicate, imbrattacarte e scribacchini ne hanno fiaccato i capisaldi.
Negli anni Novanta Logan divenne definitivamente macchietta di se stesso a causa di gente come Larry Hama, autore del personaggio per quasi tutta la decade. Hama, incastrato tra il suo desiderio di giocosità e i dettami editoriali, venne criticato a scena aperta perfino dall’editor italiano Luca Scatasta, curatore della testata Wolverine, sulle cui pagine della posta nel 1998 lo definì «non certo un genio». All’alba del nuovo millennio, con l’approdo del personaggio in qualsiasi serie Marvel, il problema si è acuito al punto che adesso ci tocca inserire tra le storie migliori di Wolverine le bagatelle di Mark Millar come Nemico pubblico o Vecchio Logan.
Ecco, tutto questo preambolo per dire che le aspettative su qualsiasi cosa con Wolverine protagonista sono bassissime. È pur vero che arrivati sul fondo si può cominciare a scavare, ma il senso di timore reverenziale che ogni professionista ha affacciandosi al personaggio è inesistente. Come sceneggiatore, c’è da stare più tranquilli a vedersi affidata Wolverine piuttosto che Daredevil, una serie che mediamente è sempre volata alta in termini di qualità, e le attenzioni del pubblico saranno meno pressanti se lavori sugli Avengers o Spider-Man invece che su Logan. In uno strano contrappasso, la grande quantità di storie, per la maggior parte mediocri, solleva dal peso di un’eredità non sempre eccelsa.
La morte di Wolverine è costruito su uno spunto di base cristallino – una taglia sulla propria testa porta Logan in un viaggio di sola andata Canada-Madripoor-Giappone alla ricerca dell’aguzzino che ne demanda il corpo – arricchito dalla perdita del fattore rigenerante, un dettaglio in grado di creare la tensione adeguata per quella che dovrebbe essere l’ultima storia del Ghiottone. Staccato dal resto degli avvenimenti di casa Marvel, si pone come il tentativo di realizzare qualcosa che resti nel tempo e possa affiancarsi a Arma X: estrema semplicità della trama, ricerca di pathos esasperato, disegni iperdettagliati di uno Steve McNiven che già di per sé si lascia ammaliare facilmente dai particolari grafici. Come un Greatest Hits la storia tocca tutti gli elementi che hanno reso Wolverine l’antieroe che conosciamo – il Giappone, i nemici e compari storici (Ogun, Sabertooth, Kitty Pryde, Lady Deathstryke) – e ogni capitolo evoca una delle sue personalità – soldato, vagabondo, samurai, vendicatore.
Lo scrittore Charles Soule cerca di scrivere Wolverine rispettando le convenzioni ma evitando i cliché (se deve succedere qualcosa di aspettato sarà meglio farlo accadere nella maniera più inaspettata possibile) proponendo una narrazione sensoriale (descrizione di odori, suoni, consistenze) asciutta e frankmilleriana, e cura anche le parti più piccole – un mirabolante Reed Richards che, davanti a una persona in punto di morte, gli annuncia con grande esercizio di tatto che non sono mai stati amici. Quando non sono espositivi, i dialoghi scivolano piani sulla storia e forse proprio per questo tanti momenti sono dedicati alla narrazione visiva, contribuendo a spostare l’elemento autoriale su McNiven, qui alla sua prova migliore. Quando Wolverine deve comunicare che ha perso i propri poteri, invece di dirlo a parole, poggia la mano su un vetro e fa vedere il sangue scorrere.
Soule e McNiven riportano sulla pagina il senso di sacrificio e mortalità delle prime storie di Claremont, in cui bastava poco per dare del filo da torcere a Wolverine e la tensione era scatenata da eventi mondani: dei comuni ninja erano sufficienti a fargli temere per la propria vita. La semplicità e l’abbassamento della posta in gioco denudano la saga da ogni velleità o cinismo, rafforzandone l’effetto. Qui no, non c’è altro, non servono universi paralleli che si scontrano per giustificare una morte. Sembra quasi che il team creativo abbia remato contro l’hype creato dal marketing Marvel, preventivando proprio quel cinismo alla base di ogni morte fumettistica.
Era la cosa che più dava fastidio di Vecchio Logan di Mark Millar: il cinismo spregiudicato con cui conduceva la storia, l’uso sarcastico che faceva dei rimandi al passato, prendendo un oggetto dall’alto valore nostalgico come il fuoristrada dell’Uomo Ragno e riproponendo in tre o quattro scene facendogli fare sempre la stessa cosa, con quel sorrisetto di chi ti sta mostrando una reliquia del passato verso cui potevi anche aver provato dell’affetto dicendo «Hai visto? È o non è un po’ una cagata?». La non-spettacolarità de La morte di Wolverine e la volontà di creare una storia in una bolla temporale, oltre alla bontà della fattura, sono gli elementi che potrebbero far entrare la miniserie nel Canone wolveriniano.
La morte di Wolverine
di Charles Soule e Steve McNiven
traduzione di Fabio Gamberini
Panini Comics, 2017
128 pp a colori, € 12,00
Leggi anche: “Logan” è un film esistenziale, triste, disperato e bello