HomeMondi POPCinema"Logan" è un film esistenziale, triste, disperato e bello

“Logan” è un film esistenziale, triste, disperato e bello

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Il cinema Arcadia di Melzo, alle porte di Milano, quando aprì vent’anni fa fece una gran sensazione in tutta Italia. Anche chi scrive, che all’epoca viveva nella sua natìa Firenze, non poté fare a meno di meravigliarsi e un po’ invidiare la prorompente tecnologia audiovisiva dispiegata in questo futuristico centro per l’intrattenimento cinematografico. Poi, nonostante pochi anni dopo sia venuto a vivere a Milano, a Melzo ci sarò andato tre volte in tutto, perché è fuori mano e alla fine al cinema ci vado quasi d’impulso, all’ultimo momento, ed è meglio andare nel cinema vicino casa.

È stato quindi con una doppia curiosità che sono andato a vedere l’anteprima di Logan, l’ultima incarnazione di Wolverine per il grande schermo interpretata dall’attore australiano Hugh Jackman. Dopo un “rinfresco” molto disorganizzato mi sono seduto nella sala Energia, dove c’è il Dolby Atmos che pompa un anfiteatro molto ampio con superschermo di trenta per sedici metri, illuminato da due proiettori laser 4K. Tanta roba. Peccato però che l’audio italiano non sia mai all’altezza di quello originale: dovremmo prendere la buona abitudine di guardarceli con i sottotitoli i film americani, così risolveremmo anche il problema di generazioni di italiani che balbettano l’inglese. Ma vabbè, questo è un altro discorso.

Con la maschera del cinema ho passato un venti minuti buoni a cercare di ricordare quanti film con Wolverine siano già usciti. Siamo giunti alla conclusione che, contando anche i camei di X-Men – L’inizio (2011) e X-Men – Apocalisse (2016), Jackman ha interpretato in tutto nove film incluso questo [X-Men (2000), X-Men 2 (2003), X-Men – Conflitto finale (2006), X-Men le origini – Wolverine (2009), Wolverine – L’immortale (2013), X-Men – Giorni di un futuro passato (2014) e infine Logan – The Wolverine (2017)]. Tanta roba, direi.

A me Hugh Jackman piace e ha fatto sempre simpatia: miope come una talpa, praticamente un mezzo culturista con il fisico un po’ storto ma da boscaiolo non da rachitico, è perfetto per la parte. Ha anche sposato una donna un po’ più vecchia di lui e questo automaticamente lo ha proiettato in un club molto ristretto di “quelli famosi che si sposano una racchia per coronare una grande storia di amore”: racchia perché lei è più vecchia di lui e quindi deve essere amore e non sesso (come evidentemente accade, seguendo questa logica, quando lui è più vecchio di lei). Nello stesso club c’era anche Ashton Kutcher perché aveva sposato Demi Moore (poi si è separato e si è messo con la collega di That ‘70s Show, Mila Kunis, con la quale ha fatto anche una bambina e più di recente un bambino)(e sì, lo so cosa state pensando: se si è messo con una più vecchia ma ragionevolmente figa deve essere perché lei faceva delle cose da Guiness dei Primati, quello degli scimmioni arrapati con il bollino Docg: dai cercate di crescere, però, e di farvi una vita, su).

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logan recensione wolverine

L’interpretazione del Wolverine fatta da Jackman secondo me è da manuale e ha fatto miracoli per la serie di film della Fox, di cui Logan è effettivamente il vero protagonista: alle volte in primo piano, alle volte sullo sfondo, è comunque l’arma definitiva e allo stesso tempo l’eroe in senso classico, una reinterpretazione del bel tenebroso romantico del sette/ottocento. Combattuto, triste, non è una brava persona, ha dentro di sé l’animale – una malattia molto contemporanea – ma anche un profondo desiderio di solitudine, una depressione neanche troppo strisciante accompagnata a tratti da una patologica vitalità che nel suo caso è decisamente unica (chimica, visto come nasce il personaggio), con una capacità di comprendere i problemi della vita piuttosto semplice, binaria, da uomo medio.

Nel modo di condursi di Logan non c’è nessun piano, nessuna strategia, solo tattica di combattimento: alla fine è un come un ragazzo di campagna, una brutta campagna da dove esce gente temibile ma sempre campagna. Sono tutte cose che fanno di Logan/Wolverine un personaggio fantastico per tragedie e altri tipi di racconti dell’infelicità. Una macchinetta narrativa rassicurante. È quell’amico dal fisico esuberante ma “normale” che vive di sentimenti schietti e se si incazza è meglio cambiare città. A questo punto perdonatemi, o divinità dei comics, se ho scritto che Wolverine ha un fisico normale: però, rispetto a un mondo di mutanti colorati, volanti, trasparenti, flessibili, infiammati, lui è “solo” bestialmente forte con in più il potere di autoripararsi.

Il dramma di Wolverine è però proprio questo: non solo lo hanno maltrattato, drogato, torturato, manipolato e tutto il resto, ma hanno fatto anche di più. Lo hanno anche cambiato “dentro”, mettendogli nella carne e sulle ossa quei corpi estranei che sono i rivestimenti e gli artigli di adamantio (che diventa da primario a beta per effetto della calcificazione introdotta dalle sue ossa e dal suo corpo miracolosi) praticamente inglobandogli fisicamente dentro la sua maledizione. Immaginate se capitasse a voi o a me gli anni di psicanalisi solo per fare pace con il fatto che un branco di scienziati americani criminali ci hanno “potenziato” per esperimento riempiendoci del materiale più duro esistente nella natura della Marvel.

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Per forza Wolverine sta male. Le cose che fa sono dolorose (perché soffre, anche se si ripara sempre: Wolverine incassa peggio di Rocky Balboa quando Ivan Tispiezzoindue Drago lo macella di cartoni e mazzate varie) ma le fa perché ha questo superpotere apparentemente positivo (self-healing, voglio dire, è un superpotere estremamente egoistico ma tutto sommato votato al bene, alla rinascita) che è stato rifunzionalizzato a suon di artigli estraibili e addestramento cieco e militarista per farne una macchina di morte, un soldato perfetto, con annessa incazzatura permanente in una forma di aggressività irreprimibile.

Nelle sue varie comparsate sul grande schermo il Wolverine interpretato da Hugh Jackman ha fatto di tutto: il bel tenebroso silenzioso, l’egoista, il generoso, lo sconvolto (ubriaco perso), il bravo soldatino, il cattivo soldatino, l’animale feroce. Alla fine si allontana, un po’ come fa a periodi anche Hulk, ma rimane comunque nel margine boscoso e piovoso della società: vive praticamente in mezzo alle querce secolari, camicia fuori dei pantaloni e basetta regolamentare oltre (suppongo) allo stivalletto Timberland. Nel film che ho visto l’altra sera Logan fa tante cose sia al confine con il Messico del futuro (in breve: peggio di adesso) che poi nei boschi del Nord Dakota. Si scopre che ha una figlia (è la cosa che si vede nei trailer, niente spoiler non temete) e mette in scena assieme a Patrick Stewart/Charles Xavier e al Calibano un film esistenziale, triste, un po’ disperato a tratti. L’ultimo dopo diciassette anni, nelle intenzioni della Fox. Ragionevolmente l’ultimo su Wolverine, almeno in questa linea storica.

È un buon film? Sì, anche se definirlo cupo e deprimente è fargli un complimento. Lo è in una maniera subdola, quasi residuale rispetto al modo con il quale siamo abituati parlando degli X-Men. Sarà perché alla fine Wolverine è un personaggio da combattimenti all’arma bianca, in ambienti ristretti, con un numero limitato di avversari armati in maniera altrettanto limitata, ma le sue trame sono sempre residuali, laterali, quasi claustrofobiche nonostante le ambientazioni a contatto con la natura. Ma anche chi si perde in una caverna, nel caso di Wolverine è la caverna della sua anima, è a contatto con la natura ma in condizioni di estrema claustrofobia.

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È il crepuscolo, è il momento della tarda maturità, in cui i nodi arrivano al pettine: si invecchia, il tempo passa e il corpo non risponde più come una volta. Chi vive ancora lo fa ai margini della società, in strane famiglie allargate, rifiutando un proprio passato immaginifico (nei fumetti stessi) e incontra la responsabilità della paternità molto tardi. Ma alla fine collabora, perché Wolverine è ferito e tradito ma è un animo semplice, puro. Collabora. Anzi, Wolverine cerca disperatamente di chiudersi in un egoismo che gli permetta di costruire e rafforzare la sua integrità interiore (direbbe Jesper Juul) ma viene regolarmente e drammaticamente dilaniato dal suo bisogno di affetto che lo porta a collaborare con chiunque riesca a superare le sue barriere (in effetti più esili di quel che non sembri perché solo fisiche) che erige a difesa del suo essere, ma che lui stesso non vede l’ora di superare.

Il film che ho visto era alla fine, me ne rendo conto adesso, più un film psicologico che una classica pellicola di azione. E in effetti di scontri e di combattimenti ce ne sono un numero piuttosto limitato e quasi meccanico. Un fenomeno parzialmente scontato vista la solita proporzione 80/20 che viene utilizzata per la trama di questo tipo di film: un ottanta per cento di violenza gratuita e simbolica rispetto a un venti per cento di violenza realmente tale e nient’affatto gratuita, perlomeno ai fini della trama.

Se c’è una cosa che si chiede a un critico non è tanto lo spoiler sulla trama (che poi succede, più o meno involontario ma succede) quanto un giudizio di merito. È un bel film o no? Vale la pena spendere i miei preziosi e con tanta fatica accumulati euro o no? La risposta? È sì, è un bel film, dal passo lento, molto più psicologico che non di azione (ma non temente che di azione se ne vede) e dalla closure finale decisamente importante. Insomma, si fa vedere. E poi quando l’avete visto non fate gli spoileroni, per favore, perché è doppiamente triste per un film come questo.

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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio. Il suo canale Telegram si chiama: Mostly, I Write.

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