Merian Caldwell Cooper, personaggio del quale probabilmente non avete mai sentito parlare, è un creatore di mitologie. Ha fatto molte cose nella sua vita: nato nel 1893 a San Diego è stato ufficiale dell’aviazione militare americana e polacca, ha creato la squadriglia dal nome impronunciabile che ha combattuto contro i sovietici durante l’occupazione russa della Polonia nel 1919-1921 (ed è stato prigioniero di guerra di Mosca), ha fatto il consigliere di amministrazione per Pan-Am, ha fatto l’avventuriero, il viaggiatore attorno al mondo, il produttore cinematografico, fino ad arrivare all’Oscar alla carriera nel 1952, la stella sul marciapiede di Hollywood, la famosa Walk of Fame, nel 1960 per poi morire nel 1973 di un brutto male. Soprattutto, è stato l’inventore di King Kong.
Sua infatti è l’idea e la sceneggiatura del primo film (perché King Kong è un personaggio che nasce direttamente nel mondo di celluloide, non arriva da qualche romanzo di avventura) dedicato al re di Skull Island. Hollywood apprezzò particolarmente questa storia, che è stata rivisitata con due remakes e due seguiti (King Kong contro Godzilla e King Kong il gigante della foresta) ma che ha anche segnato decisamente l’immaginario globale. King Kong è, assieme a Godzilla e qualche altro mostriciattolo della disfunzionale famiglia allargata nippo-americana dei super-mostri live-action, uno degli eroi più popolari dei tempi moderni. Anche grazie alla sua ricaduta nel mondo dei videogiochi (Donkey Kong, a cui la Nintendo elettronica deve così tanto) e non solo. La bellissima Fay Wray è la donna che ha ipnotizzato una generazione creando un’ideale di eroina.
Fast forward ai giorni nostri. Torno dal cinema multisala Uci Bicocca di Milano dove, con qualche giorno di ritardo rispetto all’anteprima riservata alla stampa (alla quale ero assente giustificato) ho cercato di recuperare per adempiere al mio dovere di critico. Film in lingua originale, questa volta, per vedere di apprezzare l’audio oltre che il visivo. Cenetta leggera e grandi speranze.
Al momento dell’uscita del film le speranze erano alte, grazie anche ai buoni trailer e a un cast di spessore (i principali sono Tom Hiddleston, bell’attore che oggi va tanto di moda, Samuel L. Jackson che invece va sempre bene, John Goodman, che è solo una parziale sorpresa, e l’intensa Brie Larson che è una bella che ha anche vinto un Oscar) ma poi aveva raccolto critiche non univoche diciamo. Si sentiva puzza di bruciato, insomma. Stai a vedere, mi sono detto, che mi hanno fatto la solita impepata di cozze.
Fast forward ancora più avanti: ho visto il film e navigo sui siti che ne parlano alla ricerca di particolari. La trama probabilmente la sapete o la potete immaginare: siamo nel 1973 e un gruppo di militari, scienziati e civili si trova a esplorare questa misteriosa isola “scoperta” grazie ai primi esercizi di telerilevamento satellitare (una fotogrammetria aerea degli esordi e veramente dall’alto) all’indomani della fine della guerra del Viet-Nam. Ognuno dei personaggi ha la sua bella motivazione per fare quello che fa e si intuisce che alcune di queste motivazioni entreranno in rotta di collisione generando quel conflitto necessario all’avanzamento della storia, e in più si respira un po’ lo spirito di Aliens, con i marines spaziali che girano per la giungla spaziale armi spianate seguendo itinerari carichi di tensioni e probabili morti violente.
Con un film così l’unica cosa che posso cercare nei forum è la conferma che effettivamente il personaggio di Brie Larson abbia una macchina fotografica d’epoca: una Leica M3 (un oggetto abbastanza costoso di metà anni cinquanta, coerente con una fotogiornalista che si è fatta le ossa sul campo in Viet-Nam) ragionevolmente attrezzata, che si porta sempre al collo e con la quale punteggia la storia: si vedono le sue inquadrature nel telemetro che purtroppo un paio di volte fa da zoom (ahi ahi), e poi i suoi scatti che diventano in bianco e nero. Sopravviverà? Sopravviverà la sua macchina fotografica? La pellicola verrà mai sviluppata? Una lievissima digressione: alcuni anni fa sono uscite fuori le fotografiche che facevano i fotografi del popolo vietcong per raccontare la guerra dal loro punto di vista: foto fatte nelle risaie e in altri contesti veramente scomodi e sviluppate dentro una scatola da scarpe in una buca o dietro a una capanna. Sono le foto dei vincitori e sono impressionanti. Fine della digressione.
È tardi, ho girato in lungo e in largo, ma non riesco a toccare ancora il nodo centrale della recensione di un film. Togliamoci il dente e diciamolo subito: Kong Skull Island è una festa per gli occhi, con effetti e scene d’azione da paura ed è ben recitato, ma ha una sceneggiatura con dei buchi che prende vento anche se la chiudi in una stanza senza finestre.
Voglio dire: le sceneggiature hanno molti obiettivi e tante possibili maniere ma fondamentalmente devono raccontarci una storia. E lo devono fare senza contraddizioni e senza buchi. Qui invece si salta da tutte le parti e l’unico che apparentemente abbiamo idea di cosa sta facendo dall’inizio alla fine è lo scimmione. Che è bello da paura, gigantesco, potente, violentissimo, con degli occhi più espressivi della metà del cast, ma è anche un timidone solitario e orfano di padre e madre che non sa più cosa fare per togliersi di mezzo le creature demoniache che provengono da sottoterra. Da un sottoterra cavo con un mondo magico che, quello sì, mi piacerebbe tanto che andassimo ad esplorare (la casa di produzione ha i diritti anche di un paio di film di Godzilla e chissà che non si decidano a fare un bel remake degli incontri tra i due bestioloni).
La critica planetaria è abbastanza divisa: in parte a favore, in parte tiepida e in parte contro questo film che ha decisamente incassato poco rispetto a quanto è costato (siamo ancora in rosso) e che ha uno sforzo di produzione e un cast che sembrano più figli di un compromesso siglato a Yalta che non di una scelta organica e meditata.
La brava Larson è quasi stata lapidata per la scelta (che lei definisce di passione per la storia) di un film così disimpegnato rispetto ai suoi ruoli abituali. Ci potrebbe però essere del vero: si è anche portata dietro la sua macchina fotografica a pellicola (una Nikon F, si intravede in una scena) che racconta di avere da quando era bambina e ha scattato foto interessanti sul set, forse stunt pubblicitario o forse vera passione.
Questo film, visto nelle sue condizioni migliori (in lingua originale in un buon cinema e non in 3D, sennò diventa una sagra della torta in faccia) ha molti pregi visivi e cinematici, di azione. Ha però dei forti limiti nel modo con il quale fluisce la storia, inclusa una certa, impressionante mancanza di senso dello spazio e del tempo, per cui i personaggi e le loro azioni – che dovrebbero accadere tutte in due giorni e mezzo su un’isola dalla geografia ben definita – diventano strane creature che si teletrasportano di qua e di là, zompano, vanno avanti e indietro, trovano due giorni dopo ancora pezzi che funzionano dei resti di apparecchiature sfasciate (un registratore a bobina che dopo 18 ore ancora funziona, incastrato in un loop da “subito dopo l’incidente la ruota ancora sta girando”). È tutto strano, sottilmente molto strano. E pensi che forse è perché ci ha lavorato una legione di persone per quasi tre anni, con tre sceneggiatori (Dan Gilroy, Max Borenstein e Derek Connolly) e chissà quanti assistenti e ghost.
Il problema, dopo attenta riflessione, si vede emergere anche dalla recitazione di Goodman e di Jackson, a tratti dispersa e lunare (invece Hiddleston è sempre perfettino, come la sua compagna ideale: Kong manco cerca di rubargliela!). Ed è un problema di approccio. Il film è talmente ricco di realismo, effetti speciali, mascheratura (è dopotutto un film in costume ambientato nel 1973, più di quarant’anni fa) ed escapismo vario che non si percepisce l’aspetto favolistico o simbolico. E non è neanche un filmone kolossal della generazione dei filmoni kolossal che sono stati realizzati da Stephen Spielberg e George Lucas. Insomma, manca l’autoironia se non in pochissimi tratti, e non si capisce mai quando il film dovrebbe diventare un’altra cosa. È dramma vero? È farsa? È un’allegra scampagnata nel bosco, brillante ma sostanzialmente innocua come una fiaba oppure è un pugno in faccia come un film di azione e suspence vera?
Chi ha messo insieme il lavoro non si è deciso sino in fondo. Si immagina una storia frammentata da diversi comitati e decisioni che l’hanno portata ad essere quella che vediamo oggi al cinema, con sottrazioni, troncamenti, rimixaggi. E il filo logico, il tono, si perdono. È più difficile farlo visivamente, e grazie al cielo non succede, perché un film come questo è costellato di effetti speciali e di scene di azione che richiedono una cerca strutturata adesione a una traccia ben definita e scandita dei tempi. Però il resto è un mezzo delirio e a tratti fa addirittura rimpiangere Lost, la famigerata serie Tv ambientata su un’isola misteriosa, perché almeno quella aveva il senso del tempo per quanto riguarda il movimento degli attori sull’isola e il flusso del tempo. Kong invece si prende un po’ troppo sul serio ma poi non si capisce più se è un film super-realistico oppure va pensato con una leggerezza che però non traspare molto dallo sforzo di scrittura dei personaggi, rappresentazione e anche dalla loro stessa recitazione.
Vale dunque i vostri sudati sette euro (se al vostro cinema costa questa cifra) oppure no? La produzione, sappiatelo, è al lavoro per fare Godzilla vs. Kong, previsto per il 2020: c’è già la solita squadrona di sceneggiatori che riempie una stanza intera al lavoro per cercare di mettere assieme anche un universo “coerente” (si fa per dire) attorno al quale sviluppare altri film con i protagonisti dei vecchi franchise nippo-americani (King Kong per un periodo era stato licenziato alla Toho, non dimentichiamocelo) e nuove, inedite ma ovviamente gigantesche creature. La Terra una volta era “loro” e “loro” se la vogliono riprendere, viene ripetuto qua e là nel film. C’è anche questa nuova entità segreta del governo degli Stati Uniti, la “Monarch”, che farà da collante a tutte le storie, probabilmente ambientate in epoche diverse.
Tutto molto bello, ma il film che c’è nei cinema i sette euro li vale? Beh, solo se ci andate tra appassionati di “super-monster movies” e questo lo volete vedere per le scene mozzafiato di combattimento e per non restare indietro con il vostro lavoro di collezionisti di esperienze konghiane, sì. Altrimenti, se pensate che la vita sia troppo breve, anche no.
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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio. Il suo canale Telegram si chiama: Mostly, I Write.