di Michael Chabon*
All’epoca in cui stavo cominciando ad amare i fumetti, Will Eisner era Dio. Non Dio nel senso di Eric Clapton: un dio di fronte a cui inchinarsi, fronte a terra, in un’orgia di nebbia da ghiaccio secco e laser. Gustave Flaubert ha scritto che “Nel suo libro un autore dev’essere come Dio nell’universo, ovunque presente e da nessuna parte visibile”. Nel 1975, per me Will Eisner era Dio in questo senso. Alcuni dei disegnatori e degli sceneggiatori di quel periodo che mi piacevano di più – Neal Adams, Jim Steranko, Steve Gerber, Steve Ditko – erano stati influenzati direttamente da Eisner ma io non lo sapevo.
Tutto quello che sapevo di Will Eisner lo avevo letto in The Great Comic Book Heroes di Jules Feiffer, già protegé di Eisner. In questo libro fondamentale sulla storia del fumetto, Feiffer spiegava appassionatamente come Will Eisner fosse un genio e un pioniere, colui da cui avevano rubato tutti gli altri; e così via. E io gli credevo, anche se dovevo sostanzialmente credergli sulla fiducia. La storia di Spirit di otto pagine che Feiffer ristampava nel volume – Il gioiello mortale – restò a lungo l’unico esempio compiuto del lavoro di Eisner che avessi mai visto.
Eisner era fuori catalogo, fuori dal fumetto. Come editore, consulente editoriale, talent scout, imprenditore, disegnatore e sceneggiatore, Will Eisner aveva creato il mondo del fumetto come io lo conoscevo, ma finché non mi capitarono per le mani alcune delle successive ristampe della Warren (o forse erano della Kitchen Sink) non avevo idea di chi fosse o di che cosa aveva fatto.
Quando nel 1996 mi accingevo a intervistare Will ero un po’ più informato e avevo appena cominciato a scrivere il romanzo che sarebbe diventato Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay. Una parte fondamentale del lavoro di preparazione era stato procurarmi tutto quanto ero riuscito a trovare di Eisner – The Spirit, i romanzi a fumetti, i libri di teoria del fumetto – ed era diventato ovvio come Feiffer avesse ragione.
Eisner aveva introdotto innovazioni radicali nella pagina a fumetti – alcune adattate dal cinema, altra dal teatro, altre ancora dalla tradizione figurativa delle belle arti – e anche solo questo costituiva un contributo importante. Ma la cosa stupefacente del suo lavoro con Spirit – tutte le sue trovate e la perizia tecnica, le inquadrature ardite e l’uso radicale dell’illuminazione – era quanto ancora apparisse nuovo e fresco, dopo cinquant’anni di costante imitazione da parte di autori grandi, meno grandi e dei loro eredi. Da questo punto di vista era come Quarto potere. E in un certo senso Will Eisner e Orson Welles si stagliano come personalità parallele nei rispettivi linguaggi. Entrambi erano prodigiosamente dotati e già in gioventù riuscirono a mettere le mani su uno strumento – uno studio hollywoodiano, un syndicate editoriale – che avrebbe permesso loro di mettere in luce quei doni in maniera spettacolare. Entrambi avevano un occhio incredibilmente acuto per il talento altrui e il bernoccolo necessario per metterlo al servizio dei propri obiettivi e delle proprie ambizioni. Entrambi furono d’ispirazione sia nascosta che palese, come pietre miliari e termini di confronto, per le generazioni di registi e autori di fumetti che li seguirono.
Ma Will Eisner aveva – era – qualcosa che Orson Welles non riuscì mai, non si permise mai o non ebbe mai la costanza di essere: Will Eisner era un uomo d’affari nato. Era sia Welles che David O. Selznick, Brian Wilson e Clive Davis. Era operaio e dirigente. Era il talento e la persona incaricata di licenziarlo. A volte firmava le buste paga e altre era tra quelli che dovevano tirare la cinghia finché non fosse arrivata la successiva. Apriva società, discuteva contratti, acquisiva diritti, confezionava e vendeva progetti editoriali per terzi. E mentre praticava questo capitalismo da manuale, sognava, scriveva e disegnava. Ha rivoluzionato un linguaggio artistico, sviscerandolo, teorizzandolo e facendone uno strumento superbo per i suoi ricordi, le sue emozioni, il suo modo di guardare al mondo. Ha conosciuto il fallimento, come artista e come imprenditore, perché come artista e come imprenditore correva dei rischi.
A volte è difficile produrre arte sapendo che venderà senza avere l’impressione di svendersi. E a volte è difficile vendere arte prodotta con onestà e senza preoccuparsi di chi l’avrebbe mai voluta, oppure no. Speriamo di trascorrere la vita facendo ciò che amiamo – che dobbiamo – fare e per cui siamo stati adeguatamente dotati dalla natura, da Dio o dal nostro corredo genetico: scrivere, disegnare, raccontare storie. Ma dobbiamo anche sopravvivere e Will lo sapeva. Sapeva cosa voleva dire avere fame, grattare il fondo del barile. Sapeva quale fortuna voleva dire essere nato con un talento per cui altri erano disposti a pagare. Ma non gli mancava neppure la volontà (e quando era fortunato, l’abilità) di indurre gli altri a pagare un po’ di più, ad alzare il prezzo ancora un po’, a strappare un accordo migliore o ad abbassare il costo dei suoi fornitori.
Will Eisner era un grande artista e un abile imprenditore; entrambe le cose, indissolubilmente. Ed era una cosa di lui che amavo molto. Più di cinquant’anni dopo l’uscita in edicola dei primi numeri di Blackhawk e Doll Man e delle altre serie che aveva prodotto per la Quality Comics insieme al socio Jerry Iger, ricordava ancora i dati di vendita, i nomi dei distributori, i minuti dettagli dei successi e dei flop. E capivo come per lui tutto ciò fosse assolutamente interessante e importante quanto i dettagli di un tratto a china, o la quantità di informazione che si poteva comprimere e poi vedere esplodere da tre vignette una dietro l’altra. A volte possono esserci molte strade per la felicità di un uomo; altre volte, assai meno. Ma grazie al suo spessore artistico e al suo acume, al modo in cui si ritrovava e si muoveva nel mondo, come un artista che lavorava per denaro e come un imprenditore che lavorava per l’arte, credo che fosse giunto vicinissimo a trovare una di quelle strade. Sì, fu realmente così fortunato.
*Michael Chabon è scrittore e regista, vincitore del premio Pulitzer per la narrativa nel 2001. Il suo romanzo più famoso è Le fantastiche avventure di Kavalier & Clay, che ha per protagonisti due autori di fumetti. Questo articolo è stato scritto come introduzione della biografia Will Eisner: Una vita per il fumetto di Bob Andelman, pubblicata da Double Shot (traduzione di Andrea Plazzi).