C’è una storia a fumetti che è una delle mie preferite (non ho mai fatto una classifica, per cui non ne ho la certezza). È la seconda parte di Nuovi mutanti, saga tratta da Ultimate X-Men. Non la migliore delle collane Ultimate, anzi, quasi maglia nera del parco testate, una serie che al ventesimo numero aveva già finito le cose da dire. Quando la gestione di Mark Millar terminò, nel 2003, gli subentrò Brian Michael Bendis, al suo primo e, per i successivi dieci anni unico, incarico su un titolo mutante. Lo sceneggiatore debuttò, affiancato da David Finch, con un manifesto programmatico: Blockbuster. Rimase sulla serie per un annetto, sceneggiando due cicli, Blockbuster, per l’appunto, e Nuovi mutanti. Le sue storie seguivano il tono impostato da Millar – mondo reale + mutanti minacciati + vrooom vrooom scooteroni – ma sostituivano la caciara con l’umorismo particellare (battute minimali, variazioni, ripetizioni) e l’interesse verso gli high concept con quello verso personaggi e relazioni. Restava pur sempre un fumetto di supereroi, però in mezzo al bailamme Bendis infilava momenti atipicissimi come una storia dove non c’era una lotta né mezza scazzottata, ma solo uno dei protagonisti della serie, Wolverine, e tutto il racconto si concentrava su questo adolescente che scopriva di essere un mutante.
Da qui in poi SPOILER (la storia è di 13 anni fa e ormai la prescrizione dovrebbe aver fatto il suo corso, ma non vorrei togliervi il gusto di recuperarla e capire il contesto senza interposta persona). Il potere mutante del ragazzo consiste nel nebulizzare chiunque gli stia attorno. Si sveglia una mattina e trova i vestiti della famiglia stesi in cucina, le strade fuori casa deserte. Solo quando la sua ragazza lo avvicina all’ingresso di scuola ed evapora davanti ai suoi occhi capisce che in quei pantaloni camicie magliette i suoi cari ci sono morti. Wolverine è mandato dal professor Xavier a fargli da Virgilio e dopo averlo informato dell’estrema pericolosità del suo potere (soprattutto per la reputazione di fronte all’opinione pubblica dei mutanti, in questa cornice temporale impegnati a promuovere una coabitazione pacifica tra umani e mutanti), gli comunica la sua reale missione e procede a giustiziarlo. È una storia devastante, eseguita con un unico gesto, fermo e preciso. Non serve come introduzione a nessun’altra vicenda, non ci saranno ripercussioni di quell’atto e tutto continuerà a scorrere come prima (se non per un minimo dettaglio di trama che non necessitava venti pagine per essere giustificato). In una gestione altrimenti lievissima, Bendis si prende il tempo per questa tangente che mostra quanto cinico e barbarico possa essere il sogno di Charles Xavier aggiornato al XXI secolo.
In un esempio di autocitazione (o forse criptoamnesia) lo sceneggiatore di Portland utilizza le stesse identiche premesse dieci anni più tardi in Il testamento di Charles Xavier, una storia apparsa nel 2014 come tie-in all’evento Original Sin. La storia svela che Xavier aveva fatto la conoscenza di Matthew Modine, un bambino mutante potentissimo, e che lo aveva tenuto sotto controllo per evitare che mettesse a repentaglio il mondo intero. Ora che non c’è più nessuno a prendersi cura di lui, dato che il ragazzo è rimasto orfano, Xavier affida agli X-Men il compito di trovare e badare a Matthew al posto suo. Bendis si fa ispirare da/copia/omaggia se stesso (la prima parte della storia segue paro paro Nuovi mutanti), attuando una riqualificazione narrativa sul proprio materiale di lavoro, cioè prende uno spunto che già aveva sviluppato e lo ripropone con un gusto nuovo, dato dai nuovi contesti o anche dalla nuova sensibilità.
Cosa c’entra tutto questo con Vecchio Logan? Tanto per cominciare, è una storia con gli X-Men scritta da un Bendis che va a recuperare e plasmare le idee di Mark Millar – che con la saga omonima, Vecchio Logan, aveva detto addio ai supereroi Marvel per andarsene a scrivere i suoi fumettoni creator-owned – nello stesso modo in cui aveva preso l’Ultimate X-Men millariano e l’aveva trascinata nel suo terreno di gioco. Sottrae, concretizza, relaziona.
La riqualificazione di Bendis ha tutte le caratteristiche del sogno gentrificatore. Come fosse un quartieraccio in cui spacciano la mescalina e i barboni si scaldano agli angoli delle strade incendiando giornali nei bidoni, Vecchio Logan era un universo che avrebbe dovuto produrre un’epopea millariana e che invece era morto senza lasciare ricordi. Bendis la rimette in sesto, mette un bel parco, chiama le archistar e tira su qualche edificio all’avanguardia, affinché qualche macellaio arricchito si senta in pace con se stesso a comprare lì un appartamento. Il Vecchio Logan di Bendis serve come intermediario tra il mondo di Millar e quello Marvel ed è funzionale a quest’unico scopo. Sarà compito d’altri portare Wolverine verso nuove e (si spera) più entusiasmanti avventure.
Bendis tende a essere pigro e ad andare di pilota automatico, non crea nessun momento che valga la pena ricordare e annacqua l’idea contenuta in una frase in cinque albi americani. I frangenti di Millar erano vuoti ma fracassoni e sempre con un concept al loro interno, un set piece che non sapesse di visto e stravisto. Millar non è il tipo che concluderebbe il film con un raggio che trafigge il cielo di una metropoli, per dire. E infatti, nella sua inconsistenza, l’opera di Miller/McNiven era una mitragliata di immagini che colpivano il lettore (il dinosauro Venom, la banda di Hulk zotici, Ultron casalingo). Vecchio Logan di Bendis presenta le stesse situazioni, un po’ più verbose, un po’ più composte, un po’ meno ciniche, e forza la strada affinché il punto di arrivo sia quello di cui ha bisogno la casa editrice (ossia il vecchio Logan che rimpiazza il Wolverine dell’universo regolare, deceduto in La morte di Wolverine). Tutto nella norma, eh, perché, a differenza di Millar, il Nostro è un collare blu del fumetto che produce produce produce e non ha tempo per stimolare il fattore immaginifico. È colui che ha fatto della decompressione un’arte, osando scrivere un interno numero dei Nuovi Vendicatori solo con splash page del pianeta Terra e poco altro. Per questo, più della miniserie di Millar e McNiven, Vecchio Logan di Bendis evapora a contatto col cervello. Scende nella gola come acqua fresca di cui è impossibile ricordare il gusto.
Rispetto al Vecchio Logan originale resta immutata l’estrema leggibilità, facilitata dalle matite affilate di Andrea Sorrentino. Bendis sa bene che la forza del colpo sta nella rapidità dell’atto, ed è inutile cambiare ciò che funzionava nella formula millariana. Lo dimostra il dialogo nel primo capitolo: Wolverine sta compiendo una mattanza e vede un ragazzo con il costume di Devil. Glielo strappa di dosso urlando «Indossi questa uniforme! Almeno sai a chi appartiene?», «È solo un look», balbetta il giovane. «È solo… È solo bella». Il suo limite più grave risulta però la totale incapacità di reggersi sulle proprie gambe, in quanto legata all’evento Secret Wars. Non gliene farei una colpa in assoluto, ma è difficile che un fruitore casuale – o anche uno appassionato che non segua assiduamente l’universo Marvel – ci si raccapezzi.
C’è una scena che è probabilmente il simbolo di tutte le luci e le ombre della miniserie: Emma Frost del nostro universo introduce al vecchio Logan dell’universo milleriano suo figlio dell’universo Ultimate, in una sequenza che farà venire la dispnea a qualsiasi lettore non avvezzo alle complesse dinamiche sotterranee a questa storia, ma che ha una bella costruzione emotiva (Emma che entra nella testa di Wolverine per dirgli che lo sta per abbracciare, il desiderio di paternità descritto come «un po’ di vita che porta il tuo nome»), a dimostrazione di come l’interesse del raccontare di Bendis, racchiuso nei piccoli momenti tra i personaggi, non sia mai cambiato dai tempi di quella storia su Ultimate X-Men.
Secret Wars Vecchio Logan
di Brian Michael Bendis e Andrea Sorrentino
Panini Comics, 2016
156 pagine a colori, € 14,00