HomeFocusOpinioniResident Evil: al cinema il capitolo finale di una saga (quasi) artigianale

Resident Evil: al cinema il capitolo finale di una saga (quasi) artigianale

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Per quelli tra noi che si sono persi nella città elettrica di Akihabara, tra i grattacieli bonsai dell’impero dei videogiochi (sfacciata autopromozione: racconto quella storia in questo ebook), si chiama ancora Baio Hazādo, ma in Occidente si chiama da sempre Resident Evil. Parliamo ovviamente della saga di videogiochi creata da Capcom (casa nipponica per l’intrattenimento videoludico nata nel 1979) che a partire dal lontano 1996 ha attraversato quasi tutte le console disponibili sul mercato. Dal Game Boy fino alla PlayStation, passando per tutto quello che c’è nel mezzo.

resident evil playstation Bill Sienkiewicz
Il primo “Resident Evil” per PlayStation, illustrazione di Bill Sienkiewicz

La storia di Resident Evil è semplice: non abbiamo più notizie della squadra Bravo, inviata in una villa sulle colline attorno a Racoon City per indagare un misterioso caso di perdita dei contatti con l’abitato. Il nostro elicottero fa scendere il team composto da Chris Redfield, Jill Valentine, Albert Wesker, Barry Burton, Joseph Frost e Brad Vickers che viene subito attaccato da cani zombie (sbranano il vecchio Frost, che termina così la sua comparsata, una delle più rapide nel mondo del videogame), aprendo la via a un vero e proprio inferno di eventi il cui apogeo è la perfida Umbrella Corporation.

Resident Evil ha reso mainstream un genere, l’avventura d’azione horror a sfondo fantascientifico, che si è rivelato particolarmente popolare non solo tra gli amanti del videogame. È stato uno dei primi titoli, venti anni fa, a rimettere in circolazione l’idea degli zombie, e a creare il mix tra credenza e scienza (il virus magico e l’immaginario voodoo) che ancora oggi impera nelle narrazioni dominanti degli immaginari collettivi pop.

La grafica di Resident Evil è sempre stata fortemente caratterizzata da un gusto occidentale nonostante la base sia stata costruita totalmente in Giappone, e l’estetica che ne risulta è forse una delle più intriganti e meglio riuscite in questo tipo di ibrido. Anche perché l’immaginario è stato trasposto per vari altri media, dai fumetti ai romanzi, arrivando fino a una serie di film per il grande schermo alquanto particolari e, anche qui, con un immaginario visivo totalmente disancorato rispetto ai filoni mainstream delle solite baracconate americane.

Milla Jovovich resident evil flm
Milla Jovovich, dal primo film di “Resident Evil”, 2002

La traiettoria di Resident Evil non è solitaria. Sempre nel 1996, infatti, nasceva Tomb Raider, altro grande colosso dell’intrattenimento pop, il cui primo film è stato interpretato da Angelina Jolie nel 2001. E proprio l’anno dopo anche Resident Evil arriva al cinema con Milla Jovovich, splendida interprete del personaggio principale (Alice Abernathy), ascesa a grande visibilità grazie al ruolo di musa del regista francese Luc Besson e per aver recitato in film come Il quinto elemento e Giovanna d’Arco. La Jovovich ha una filmografia insospettabilmente più lunga e articolata di quel che sarebbe lecito aspettarsi, ed è effettivamente una brava attrice, non solo una modella dalle proporzioni statuarie da usare come “corpo” attraente per riempire il vuoto apparente di un personaggio dei videogiochi o di un film di fantascienza. Nella serie di film offre una apprezzabile capacità recitativa e un’energia fisica come performer di scene d’azione di tutto rispetto.

Come per i videogiochi, così anche per i film tratti dalla storia base, la “ur-narrative” (se vogliamo provare, qui e adesso, a creare una categoria nuova per abbracciare il seme della storia che poi viene fatto fruttare su differenti media… sennò potremmo neoplatonicamente chiamarla “ipostasi narrativa”) si materia e si dispiega in una serie di titoli. Però, mentre Tomb Raider va avanti per due episodi (Lara Croft: Tomb Raider del 2001, Tomb Raider: La culla della vita del 2003) più uno in arrivo probabilmente entro il 2018 (un reboot con la svedese Alicia Vikander nel ruolo di Lara Croft e l’ambizione di creare un universo espanso che comprenda anche altre “ur-narrative” provenienti dal mondo dei videogiochi: Just Cause, Hitman, Deus Ex e Thief), il nostro buon Resident Evil prende una strada inaspettata.

Innanzitutto perché i film sono molto più numerosi: quattro giapponesi in computer grafica e sei americani interpretati dalla Jovovich, incluso Resident Evil: The Final Chapter – da pochissimo uscito nelle sale italiane – che marca la fine della traiettoria cinematografica della storia: interessante perché di solito si lascia sempre socchiusa la porta per un eventuale seguito, mentre la scelta autoriale di far collassare l’universo narrativo cinematografico all’interno di sei episodi è ragguardevole. Ma c’è di più.

L’ucraina naturalizzata statunitense Jovovich non solo ha “sposato” il personaggio di Alice Abernathy ma è convolata a nozze anche con il regista, il britannico Paul W. S. Anderson, specializzato in regie di film tratti da videogiochi (Mortal Kombat del 1995, per esempio) che fa spesso pure da sceneggiatore e, con la moglie, da produttore ai vari capitoli della saga. Insomma, i due hanno trasformato Resident Evil in un affare di famiglia, in una sorta di produzione altamente spettacolare e ricca di effetti speciali ma con un passo più artigianale, paragonabile a quello della famiglia Broccoli per James Bond-007. Così, nonostante finora l’estetica alla James Bond sia stata innegabilmente più vicina ai primi due film di Tomb Raider, invece di costruire un mondo con un’autorialità più ruspante e genuina, Resident Evil è paradossalmente la serie culturalmente più ibridata, mezza giapponese e mezza americana, portata avanti da una famiglia europea in un universo alternativo a quello già di per sé fantastico di un videogioco di fantascienza horror.

Resident Evil ha avuto, parallelamente allo sviluppo della serie di film e di videogame (le storie sono sostanzialmente svincolate e prive di una continuity comune anche se afferiscono alla stessa “ur-narrative”), anche una sua evoluzione nel mondo dei comics. Tutte le grandi produzioni, a partire da Star Wars che ha definito i confini del blockbuster e soprattutto del merchandising alla fine degli anni Settanta, hanno avuto una vita anche come serie a fumetti. La cosa importante è capirne la rilevanza. La serie a fumetti originale di Star Wars non era affatto male, e aggiungeva elementi alla storia senza espanderla, così come hanno fatto i romanzi tratti dai soggetti dei film (ne ho parlato un po’ di sfuggita qui). La serie di Star Trek, sia a fumetti che a cartoni animati, ha invece contribuito in modo sostanziale alla prosecuzione della storia, allargando l’universo narrativo e creando un canone molto più ampio (poi è successo lo stesso anche con Guerre Stellari, che però con l’attuale reboot Disney ha deprecato tutto ciò che sta fuori dei film principali) ma è stata meno determinante esteticamente rispetto alla sua controparte lucasiana.

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Copertina di “Resident Evil” #6, WildStorm 2011

I comics di Tomb Raider sono abbastanza dimenticabili, mentre la potenza narrativa di Resident Evil esce in maniera ambigua ma interessate dalla sua trasposizione a fumetti. In parte perché c’è da affrontare il doppio problema dell’estetica (con Milla Jovovich protagonista dei film fuori canone) e del canone della storia. La scelta è stata in realtà più semplice. Mentre per i romanzi si è aperto il doppio binario di quelli tratti dalla serie di videogiochi (scritti prevalentemente da S.D. Perry) e quelli tratti dalla serie di film (scritti da Keith R. A. DeCandido), per il fumetto la gestione dei diritti è stata diversa e la produzione è stata fatta tutta in Giappone, con tre stagioni di manga (Umbrella Chronicles del 2007, Marhawa Desire del 2011 e Heavenly Island del 2014) che mettono in circolazione un immaginario completamente differente anche da un punto di vista estetico. La Marvel aveva provato, nel 1997, ad aprire la via con una serie di fumetti (promozionali alla versione del gioco per PlayStation e abortiti dopo un numero) e così aveva fatto anche la Image assieme a WildStorm, con cinque albi in tutto. WildStorm è tornata alla carica pochi anni fa, nel 2009, con una nuova serie scritta da Ricardo Sanchez e illustrata dai veterani Kevin Sharpe e Jim Clark, che si è conclusa con il sesto episodio nel 2011.

Da questo mare di possibili variazioni sul tema esistono una serie di elementi di continuità che sono sostanzialmente legati all’epopea dei videogame (alquanto nutrita: 28 titoli originali comprese le variazioni al gioco di azione) e alla sua storia. La narrativa all’interno di questi videogiochi è un elemento molto forte e caratterizzante e l’aderenza dei romanzi a questa traccia è più complessa e articolata di quanto non si pensi, ma interessante da seguire. In Italia i romanzi sono arrivati in parte con la mondadoriana Urania, che ha dedicato alla scrittrice americana Stephani Danell Perry (che tra l’altro è sposata all’autore di fantascienza e sceneggiatore Steve Perry) sei titoli su sette, oggi piuttosto preziosi perché introvabili ma alquanto gustosi da leggere.

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Il primo romanzo di “Resident Evil” pubblicato nella collana Urania

I manga e i comics invece rimangono decisamente più sulla superficie, nonostante gli sforzi autoriali. In parte perché la Perry è una vera professionista della relazione tra serie televisiva/videogame e i relativi romanzi “tratti da”: al suo attivo ha quattro romanzi di Aliens, due Aliens vs Predator, sei Star Trek: Deep Space Nine, due Star Trek: The Original Series e uno sul film d’animazione del 2009 di Wonder Woman. Con questa capacità di tessere attorno, davanti e sotto il testo, la Perry dà profondità a Resident Evil e ripete in qualche modo il lavoro artigianale della coppia Jovovich-Anderson.

La mia conclusione alla fine di questa carrellata horror è semplice: nella produzione di forme derivative di storytelling la strada dell’artigianalità e della ricerca di sensibilità specifiche è vincente rispetto a quella di produzioni più strutturate e complesse. Fare un videogioco e un kolossal richiede una strutturazione maggiore rispetto a quella di un libro o di un fumetto, che sono atti autoriali più a misura d’uomo. Il risultato, a mio avviso, si vede.

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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio. Il suo canale Telegram si chiama: Mostly, I Write.

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