HomeRecensioniNovitàOutcast vol. 3: quel depresso ragazzo di provincia

Outcast vol. 3: quel depresso ragazzo di provincia

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Qualche mese fa, sempre su queste pagine, si parlava di come Outcast fosse una delle serie più diluite in circolazione. Forse l’esempio più esplicito e compiuto di un trend dilagante che ha saputo mietere anche qualche vittima illustre. In quell’occasione si erano tessute le lodi della nuova creazione di Kirkman, ma ci si era anche dato appuntamento alle prossime uscite per poterne tirare le somme in maniera più approfondita.

outcast 3 fumetto kirkman saldapress

Il terzo volume è arrivato nelle librerie italiane in questo periodo, mentre l’edizione da edicola ha fatto il suo ingresso nel quarto ciclo narrativo. Saranno riusciti i nostri eroi a dare una svolta significativa alla storia o saremo ancora in fase introduttiva? Ormai sono passati due anni e mezzo dal primo numero – quasi 20 uscite in lingua originale –, un intervallo di tempo lunghissimo dove fino a qualche anno fa avrebbero trovato spazio un buon numero di vicende auto-conclusive.

Veniamo quindi subito al dunque: mi spiace deludere chi si aspettava qualche vigoroso colpo di coda, ma l’andazzo rimane sempre quello. Certo, alcune situazioni del passato sono state chiarite, qualcuno ha cominciato a venire allo scoperto, mentre certe terribili verità ora sono finalmente svelate.

In una serie tradizionale avremmo assistito ad almeno tre o quattro scene madre, di quelle in grado di svoltarti il volume, ma Outcast tutto pare ammantato da una cupezza e da un grigiore che rende impossibile anche solo il godersi qualche uscita a effetto. Ed è proprio per questo che, paradossalmente, la serie funziona alla grande.

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Non parliamo di un horror stancamente metaforico, di una rilettura di qualche classico o di un polpettone post-moderno dove trovarci qualcosa di divertente. Outcast parla di un ragazzo depresso e della sua ricerca euristica verso la comprensione dei suoi poteri. Scordatevi svolte narrative risolte con una geniale intuizione alla Jeff Goldblum – avete presente no? Quando il bistrattato scienziato di turno capisce tutto fissando un particolare inutile – ma preparatevi piuttosto a vedere il nostro protagonista pestato a sangue mentre un sacerdote legge l’elenco del telefono. Che sembra essere l’unico metodo credibile per capire se a fare effetto siano le scritture sacre, le urla o la presenza di un religioso.

In Outcast sembra tutto concepito per ammazzare ogni forma di romanticismo. La provincia dove è ambientato non è la riproposta nostalgica dei paesini popolati dai ragazzini di Stephen King o l’ennesima stanca rilettura di Twin Peaks. Qui la provincia è la provincia. Fosse ambientato in Italia avrebbe trovato posto tra i capannoni del nord-est o nei paesotti denuclearizzati della pianura padana. Io ci abito in un posto simile, solo traslato in ambiente più montano, e vi assicuro che le cose andrebbero davvero come ci vengono raccontate in queste pagine. Lente e insinuanti, intrise di un understatement che non ha nulla di nobile ma molto di mediocre. Non a caso Kirkman viene dal Kentucky, non certo il centro del mondo. Viste dalla prospettiva di chi nasce e cresce in certi posti pare che le cose più fighe succedano sempre lontano. Figurarsi l’apparizione di un demone.

La narrazione di Outcast procede per strade tutte sue rispetto a quanto proposto dal resto della produzione mainstream statunitense. Le pagine si stratificano, dando spazio a numerosi riquadri sospesi tra il close-up e la micro-ellissi, contribuendo al montare di una tensione fatta di piccole cose e particolari nascosti. Penso sia la prima volta che una produzione così smaccatamente commerciale riesca ad appropriarsi in maniera tanto convincente e sottile di meccaniche sviluppate da sperimentatori come Chris Ware. Certo, prima c’era arrivato l’Occhio di Falco di Fraction e Aja, ma lì era l’aspetto visivo al centro dell’attenzione. Spesso si aveva quasi l’impressione che certe cose fossero inserite in sceneggiatura apposta per essere messe sulla pagina in quel modo. Qui invece è del tutto diverso. C’è una scrittura ben precisa e le tavole si adattano a rappresentarne graficamente l’andamento subdolo e claustrofobico.

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Da tale prospettiva appaiono ancora più scontate e gratuite certe splash page messe lì proprio a titillare un’emotività abbastanza da discount. Il primo piano sulla sorella sconvolta dopo l’inevitabile epifania, il cliffhanger con il cattivo in compagnia della nipotina del protagonista. Roba telefonatissima e già vista un milione di volte. La sceneggiatura e la regia funzionano al meglio solo quando il progredire della storia viene spogliato da ogni forma di magia o trucchetto atmosferico. Quando parla del suo Dono il protagonista non esita a chiarire come «Dio non mi ha dato un cazzo», stroncando in maniera brutale ogni forma di misticismo. Lo stesso potere viene riletto in chiave quasi scientifica, definendolo ereditario. Come una malattia.

Curioso come un autore navigato come Kirkman non si sia reso conto del punitivo standard di plausibilità richiesto quando si ricerca il realismo in situazioni impossibili come queste. Se per la gran parte delle pagine il gioco funziona alla grande – gli errori, la ricerca, i rimorsi, l’incapacità di capire e le idiosincrasie dei personaggi – la principale svolta narrativa del volume appare come totalmente assurda e pretestuosa. Se bastava fare quella domanda alla bambina per chiarire una situazione che si trascinava da diversi anni, perché non farla subito? Una svista piuttosto grave, ancora più evidente se si considera la visione complessiva del fumetto.

Un pregio enorme della serie rimane, invece, la sua capacità di funzionare in maniera perfetta in due colorazioni diverse, riuscendo a mantenere un’identità ben definita per entrambe le versioni. Le tinte gelide del trade paperback o la cappa plumbea del bianco e nero da edicola. Proprio come succedeva nella celebre doppia versione colore/fade to white della Lady Vendetta di Park Chan Wook. Solo che se la il bianco stava a simboleggiare la purificazione (attraverso la vendetta) qui c’è, ancora una volta, solo e sempre grigio.

Outcast vol. 3
di Robert Krikman, Paul Azaceta e Elizabeth Breitweiser
traduzione di Stefano Menchetti
Saldapress, 2016
136 pagine, 19,90 €

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