Il viaggiatore distante è un’esperienza che arriva da lontano. Esordì nel 2008 per Black Velvet Editrice, ma era partita già da qualche anno prima, con un viaggio a New York dell’autore. Raccontava la storia di un viaggio personale, arricchito di esperienze romanzate, attraverso una serie di “quaderni” aperiodici. Ne uscirono due albi a distanza di un circa un anno l’uno dall’altro, prima che l’esperienza della casa editrice giungesse al termine. Ora l’autore del Viaggiatore distante, Otto Gabos (I Camminatori, Esperanto, L’illusione della terraferma) ha ripreso quell’esperienza e l’ha portata avanti con Coconino Press. Ma non si tratta di una ristampa, e non solo per la presenza di nuovi capitoli, visto che anche i precedenti sono stati notevolmente rivisitati.
In libreria, da qualche settimana è arrivato il primo volume, intitolato Atlantica (176 pagina in bicromia), mentre il secondo è in lavorazione. Intanto, abbiamo intervistato Gabos per farci raccontare chi è il “viaggiatore distante” e che cosa c’è di particolare da sapere su questa nuova edizione della sua opera più personale.
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Visto che è passato un po’ di tempo dalla prima edizione (parziale) di questa storia, ci vuoi ricordare come è nato, ormai quasi 15 anni fa?
Tutto è nato durante il mio primo viaggio negli Stati Uniti. È stato per le festività del Natale del 2000. Attraversavo un periodo davvero instabile dal punto di vista soprattutto logistico. A giugno, dopo quindici anni, avevo lasciato Bologna con l’idea di trasferirmi a Roma. Avevo trascorso un’estate nomade senza casa in giro con valigia e cartella con laptop e disegni. Un’esperienza anomala e allo stesso tempo bizzarra. Mi piaceva questo vagare da un luogo all’altro con pochissime cose al seguito. Ero stato in Sardegna, a Parigi, a Napoli, Roma e pure da qualche altra parte che ormai mi sfugge. Qui si manifestarono i primi sintomi del viaggiatore distante. Svegliarsi senza capire in che letto sei, dove sei, non avere punti di riferimento.
In qualche modo mi stavo ripulendo da anni di sedimentazione acquisita. A tratti era esaltante, e le idee per nuovi progetti arrivavano da sole senza nemmeno cercarle. Poi in autunno, complice una storia d’amore appena nata, ero rientrato a sorpresa a Bologna. Senza una casa, ospite da un amico in centro, dove non avevo mai vissuto prima. Ho scoperto la città da un’altra ottica, da altro punto di vista e alla fine mi sono innamorato di nuovo di questo luogo di adozione che avevo abbandonato per sopraggiunta saturazione. Il viaggio negli Stati Uniti, con quella che poi sarebbe diventata mia moglie, è stato uno spartiacque per la mia vita di prima e quella che sarebbe arrivata dopo. Gli USA erano il coronamento di uno sogno della mia infanzia. Essere all’interno del mito, il luogo dove avevo pensato di vivere quando leggevo i supereroi Marvel.
Mia moglie è italoamericana, viene dalla contea del Westchester anord di New York. La sua famiglia abita a qualche chilometro da Chappaquah, dove si trovano i Clinton e la sede del Readers Digest’s, in mezzo agli stessi boschi della scuola per mutanti degli X Men, nella stessa città dove c’era la sede dell’IBM e dove George Washington aveva fondato il primo nucleo di consapevolezza degli Stati Uniti. L’impatto è stato forte, oltre ogni mia previsione. Un mese denso di avvenimenti, esperienze, appunti. Parte di questi sono poi usciti in un reportage tra testo letterario e fumetto sul primo numero della rivista Black dell’allora giovanissima Coconino. In Totally Americanized c’era il primo nucleo di narrazione di quello che sarebbe stato poi Il viaggiatore distante. Era anche la prima volta che cercavo di disegnarmi e inserirmi in un tessuto narrativo.
La prima versione del romanzo iniziò un anno dopo esserci trasferiti in quei luoghi. Mi ero preso un periodo sabbatico e, in attesa della nascita di Marc – il nostro primo figlio –, mi ero messo a sperimentare. Disegnavo e scrivevo senza una commissione, senza la pressione di una scadenza o consegna. Disegnavo esplorando e sperimentando. In quell’anno americano ho riscoperto il piacere di disegnare. Mi ero installato a casa della nonna di mia moglie, una signora ultra-novantenne che mi osservava curiosa mentre ero intento in un’attività lavorativa per lei aliena. Quello è stato un momento fondamentale che ha reso possibile una mia rinascita come autore. In quei mesi ho pensato di continuare e sviluppare Totally Americanized. Non sapevo dove sarei andato e come l’avrei fatto, ma sapevo che sarebbe stato un romanzo importante. Almeno per me. Prove su prove, pagine rifatte alla ricerca di uno stile efficace che non arrivava mai. Disegnare me stesso e raccontare di me e di altre persone che conoscevo direttamente si era rivelato da subito una questione complicata. Molto difficile. A momenti impossibile. Per arrivare al primo volumetto uscito con Black Velvet ho impiegato altri quattro anni.
Quanto c’è di autobiografico nel libro e quanto di romanzato?
La componente autobiografica è molto alta. Parto da me e da quello che conosco per poi andare altrove. Non avendo mai lavorato prima su narrazioni autobiografiche non sapevo da dove iniziare. Non sapevo dove far passare il confine tra sincerità e finzione. Se la verità doveva essere un obiettivo e una regola da seguire con onestà e rigore intellettuale oppure se al contrario potevo prendermi delle libertà. Ho la tendenza a essere severo con me stesso, odio la retorica e raccontarsi con il rischio di raccontarsela poteva rivelarsi una trappola letale. E poi c’era anche l’aggravante di doversi disegnare.
Disegnarsi è anche più imbarazzante che raccontarsi a parole. Ti devi osservare da un punto di vista più oggettivo possibile, devi ricreare un tuo simulacro verosimile, cogliendo peculiarità e modalità fisiche ed espressive. Scoprendoti non ti piaci mai, anzi spesso ti fai addirittura schifo. Succede la stessa cosa di quando si ascolta la propria voce registrata. Non sei tu, sei pessimo e sgradevole. Una scalata quasi senza appigli. Non riuscivo a ingranare e buttavo via le pagine. A un certo punto stavo per rinunciare al progetto. Poi ho trovato degli escamotage che sono stati la mia salvezza. Gli occhi a lenticchia ispirati ai vecchi fumetti americani come Little Orphan Annie e l’uso di un camuffamento minimale ma essenziale. Ho copiato Orson Welles che entrava sul set con un naso finto. La sua maschera per il personaggio da interpretare. Così mi sono cambiato il naso, ho indossato la mia maschera e ho creato la giusta distanza tra il me stesso scrittore e il me stesso personaggio. Una liberazione.
Alla fine mi sono cambiato anche il nome. Nella prima versione ero Romeo Benetti (come il calciatore) e facevo il traduttore, in questa nuova scrittura sono Romeo Fiorenza, con il cognome del mio primo personaggio e anche quello di mia nonna, e sono autore di fumetti. In questi anni di interruzione forzata ho acquistato coraggio. Mi sono sentito finalmente pronto a usarmi come personaggio. Ho deciso di oscillare da una componente autenticamente autobiografica a un approccio di finzione ma comunque plausibile, raccontando cose che sarebbero potute accadere. Certe in seguito sono accadute davvero. Ero talmente dentro all’argomento e alla testa dei personaggi che ho vissuto momenti di vera esaltazione. Mi sentivo psicologo e drammaturgo. A tratti temevo però di anticipare, se non influenzare, eventi che si sarebbero potuti creare.
Sono partito con la narrazione raccontando gli incubi. Non una novità per me, considerato che è stata una modalità che avevo usato spesso in passato in altri lavori. In questo caso però c’era una componente inedita: l’ansia da paternità. Sognavo mio figlio che a volte era posseduto e indemoniato e parlava in sanscrito, oppure che era un mostro mutante o un alieno glaciale. Mio figlio nel primo incubo che compare sul libro addirittura non era ancora nato, eppure gli somigliava fisicamente in un modo impressionante. Quasi un sogno premonitore, una divinazione inconscia. Dagli incubi poi è arrivato a cascata il resto.
Visto che si tratta di un lavoro in parte autobiografico, che racconta anche certe ansie di un periodo della tua vita, che cosa ha comportato, da un punto di vista emotivo e sentimentale, riprendere questa storia?
In questa nuova edizione ho affrontato la questione emotiva in modo frontale. Sono andato a confrontarmi e scontrarmi con eventi del passato, lavori del tutto mai portati a compimento. Sto iniziando a fare i conti, solo adesso, con ferite di famiglie, traumi dolorosi che avevo cercato di tenere arginati nell’ambito dell’intimità più profonda. Ora li sto lasciando affiorare liberamente, parlo con loro, sto iniziando a confrontarmi raccontandoli.
Certe cose sono uscite allo scoperto dopo lunghe chiacchierate con Igort, che è stato il mio editor per questo romanzo, e con Daniele Brolli. Questa operazione di scavo, di rivelazione e di condivisione è solo un primo tentativo. Penso che ci vorrebbe un romanzo specifico per affrontare in maniera più compiuta ciò che adesso è appena abbozzato. Magari il terzo volume del Viaggiatore. Ora sto lavorando al secondo, che si intitola The Empire State – proprio come lo stato di New York sulle targhe automobilistiche –, in cui concludo questo ciclo americano. Poi si vedrà.
Come esplicita bene il titolo, il viaggio e la distanza sono i temi principali della storia, visti dallo sguardo del protagonista che si ritrova a vivere lontano da casa. Che differenza c’è stata lavorarci ora che hai messo della distanza, temporale, da quelle vicende, rispetto a quando erano ancora “calde”?
Fa un certo effetto raccontare adesso eventi di parecchia anni fa. Nel frattempo mio figlio è nato e cresciuto, è arrivata un’altra figlia. Certi personaggi, anzi, certe persone del romanzo sono morte; il quartiere di White Plains dove si svolge la vicenda è cambiato radicalmente. C’è stata la guerra in Iraq, è arrivato Obama, ora Trump e soprattutto sono crollate le Twin Towers. Ciò che raccontavo in diretta è diventato, nel mentre, cronaca e adesso storia. A volte la lentezza non è un male assoluto, ti consente di mettere sfuoco gli eventi, dargli una lettura che va dall’emotiva (quando racconterò dell’avanzata dei carrarmati nel deserto iracheno) al racconto della nascita di mio figlio già avvenuta e metabolizzata. Ci saranno momenti in cui racconterò di noi due adesso. Il passato visto con altre lenti. Penso che alla fine la narrazione se ne gioverà.
E poi c’è anche la sfida con la memoria. Cercare di recuperare frammenti e sensazioni lontane. Tornare negli stessi luoghi e lavorare in diretta è stato impegnativo e lo sarà ancora. Sentendo suoni noti, assaporando gusti e odori familiari la memoria si andava a ricomporre rapidamente. Le madelaine di Proust hanno avuto per l’ultima parte del romanzo un ruolo di primo piano. Ancora una volta la componente nostalgica che molto spesso segna i miei lavori è tornata in scena. Da certe cose non si scappa. Sei fatto così e va bene così. Nei momenti di distanza dall’America ho attinto da un grande archivio fotografico composto negli anni. Immagini scelte, catturate e stivate che, quando mi tornavano di fronte, spesso mi apparivano come inedite. Una scoperta che si rinnovava di continuo. Un viaggio nel viaggio a distanza di tempo e di spazio. Tutto perfettamente in linea con lo spirito iniziale del progetto.
Nel libro, l’autobiografismo si confonde con la commedia e il giallo. Come si intersecano questi generi tra loro? Che cosa ne viene fuori?
In pratica il romanzo oscilla tra autobiografismo e autofiction. Dove Romeo racconta di Gabos e Gabos racconta di Romeo. Ci compenetriamo, dando vita a un’altra entità narrativa, a un personaggio altro che ci somma in qualcosa di assolutamente unico e diverso dai modelli originali. Le incursioni tra giallo e commedia sono state naturali. Non le ho nemmeno programmate, sono il frutto delle situazioni raccontate con modalità letterarie che amo e che fanno parte di me. Il fatto poi che il mio doppio si calasse in un’indagine, mettendo in campo peculiarità comportamentali mie, è stato davvero divertente.
E lo sarà ancora, anche perché nel secondo volume questa direzione è destinata ad accentuarsi. Chiaramente sarà un giallo sgangherato assolutamente eretico, quai senza canoni. Il versante della commedia è invece assolutamente autobiografico. Le vicende sono proprio andate così. Dalle conversazioni con nonna Acheropita ai matrimoni sfarzosi, dalle passeggiate a Manhattan alle interviste nelle varie Little Italy che arriveranno a breve.
Immagino che tu abbia dovuto confrontarti anche con la tua evoluzione grafica. Quali sono le differenze principali che hai trovato o che hai voluto affrontare per rendere magari la storia più contemporanea?
Riprendere il lavoro dopo quasi dieci anni portava a una serie di riflessioni. Quanto dovevo rimanere fedele al segno? Dovevo accostarmi alla nuova produzione all’insegna di una continuità stilistica? E nel caso sarei stato in grado di imitare il me stesso del passato? Qualche anno fa, nell’ultimo periodo della Black Velvet, avevo iniziato la terza parte, che ora è diventata il quarto capitolo del volume in libreria. Avevo deciso di riprendere il disegno con cui avevo iniziato. Un segno a pennello che avevo definito “barbarico”, per l’approccio allo strumento, non usato di fino, ma con impeto. Era un periodo in cui lavoravo tanto per il mercato dell’illustrazione educational, dove impiegavo solo un segno chiuso, nitido e pulito senza possibilità di interpretazioni ambigue. Era un percorso di ricerca giunto a saturazione, e la pennellata barbarica mi era sembrata la soluzione giusta, o almeno liberatoria. A distanza di anni mi sono calmato, accettandomi maggiormente. Non ho ancora raggiunto una serenità espressiva, ma almeno sono più tollerante.
Nei nuovi capitoli ho scelto la discontinuità. Nessun recupero filologico, ma ho lasciato che il tempo trascorso esercitasse la sua funzione. L’ho disegnato come mi sentivo di disegnarlo adesso. È così che sto disegnando il secondo volume. Effettivamente è più solare.
Però, una volta finiti i capitoli nuovi, sono andato ad affrontare gli altri. Ho analizzato le tavole, le vignette. Ho buttato via, rimontato sequenze, aggiunto altre. Ho riscritto i testi, asciugandoli e apprezzando la gioia dei tagli, intesi come opportunità di sintesi e di pulizia da sbavature frutto di un’autoindulgenza residua. Sono intervenuto assottigliando certi segni, andandoli e rifinire dove erano troppo ruvidi, ho rifatto teste, occhi, mani, dettagli. Un lavoro di cesello che doveva essere quasi invisibile e che forse noteranno in pochi, ma che per il me stesso maniaco erano di importanza capitale.
È anche grazie a queste fisime da pignolo che si riesce a consegnare in clamoroso ritardo. Succede. Di contro mi sembra di avere fatto le cose abbastanza vicine a come le avevo in mente.
Questa ultima fase del libro, specialmente il primo capitolo, dove introduco il mondo, l’ho disegnata ancora una volta in America, dove tutto era iniziato. Mi piacciono le storie circolari e la loro ritualità di esecuzione. L’estate 2016 è stata un periodo faticoso, a tratti estremo, per orari e ritmi di lavoro. Disegnavo dall’alba a notte fonda per un paio di giorni e poi esausto prendevo il treno e andavo a New York, dove camminavo, soprattutto camminavo, e scrivevo a mente le pagine mancanti. Ero di nuovo il viaggiatore distante, ero definitivamente fuori dal mondo. Tornavo su questa terra, la contea del Westchester, intervistando le persone che conoscevo riguardo alle loro intenzioni di voto per le imminenti presidenziali. Dopo un po’, che Trump avesse serie possibilità di vittoria mi era apparso palese. Poi, rientrato in Italia con l’acqua alla gola e la scadenza ampiamente compromessa, Gabriele Peddes mi è stato di grande aiuto per la stesura della bicromia dei capitoli inediti. Provvidenziale.
Quando Il viaggiatore distante iniziò a essere pubblicato, affermasti di voler «costruire un romanzo scritto e disegnato che non si ponesse il vincolo della lunghezza espressa in pagine». Quanto è rimasto oggi di quell’affermazione, in seguito all’uscita in volume della storia?
Rimango della stessa idea. Sia nel primo volume che nel secondo mi sono lasciato e mi sto lasciando andare al flusso narrativo. Non penso necessariamente in sedicesimi. Racconto quello che serve come in qualsiasi romanzo. Una modalità che mi fa sentire libero e dà il giusto peso al racconto. Poi è chiaro che interviene il lavoro di editing, dei tagli, degli spostamenti. È quello il vero lavoro in un romanzo, ma seguire il flusso è fantastico. Questo ciclo americano si chiude con il secondo volume, ma nel mentre ho preso appunti e progettato altri viaggi, altre storie.
Se Coconino apprezzerà e le vendite saranno valide, vorrei davvero che Il viaggiatore fosse il mio diario condiviso. Un seriale atipico dove la continuità e le storyline sono scandite dalle vicende della vita, dai luoghi dove sono stato a quelli che spero di visitare. Il racconto degli spazi esterni che si affianca al racconto degli spazi interiori, quelli più intimi popolati da mostri, fantasmi che magari, portati allo scoperto, si rivelano angeli. Al momento non mi pongo limiti, non mi pongo obiettivi se non quello di dare alle stampe il secondo volume in tempi ragionevoli, senza lasciare passare altri dieci anni. Magari prestissimo. Una questione di dignità e rispetto per i lettori, troppe volte illusi. Non la smetterò mai di rammaricarmene.
Una cosa è certa, dalle lettere e dalle testimonianze che sto ricevendo, sono andato a toccare corde della sensibilità che mi stavano particolarmente a cuore. E questo mi sembra un buon viatico per continuare.