Mi risulta davvero difficile parlare di I figli del buio (Agenzia Alfa n. 38) con lucidità. Da una parte abbiamo i disegni di un Massimo Dall’Oglio mai a questi livelli, capace di adattare la sua poetica di forte derivazione nipponica ai bisogni della più storica delle case editrici italiane. Dall’altra la sceneggiatura di Alessandro Russo, sicuramente di grande respiro, piena di spunti e idee interessanti ma che finisce per avvitarsi su se stessa diventando ben presto pesante e troppo verbosa. Eppure il volume partiva nel migliore dei modi, con uno strano omicidio e una coppia di detective che più male assortita non poteva essere. Il più classico degli incipit da noir, con giusto un pizzico di buddy movie, calato in un contesto fantascientifico che sa tanto di futuro passato. Un po’ come quando si rivedono i vecchi episodi di Spazio 1999, con quelle bizzarre tute da astronauta dotate di pantaloni a zampa. All’epoca dovevano sicuramente apparire come la cosa più moderna possibile, ma con il passare del tempo hanno cambiato completamente significato. Sembrerà strano, ma da questo punto di vista la scelta di Dall’Oglio non poteva essere che la migliore possibile.
Il suo segno riesce a essere trait d’union tra il consueto realismo bonelliano e una serie di richiamo ai grandi classici della sci-fi nipponica a fumetti. Un recupero che ha dalla sua un pregio non indifferente: non cade mai nella facile nostalgia. Ci riesce evitando con cura tutti i cliché dell’epoca, diciamo tra gli Ottanta e i Novanta, ed evitando nello stesso tempo vari anacronismi fuori tempo massimo. Il disegnatore sardo riesce a restituirci una sua visione personale della fantascienza, senza mai neppure cercare di nascondere le fonti della sua ispirazione. Il risultato, tranne alcune incertezze sui volti, è davvero straordinario. Lo si vede soprattutto in un campo troppo spesso trascurato nella produzione occidentale contemporanea: il design delle tecnologie. Andando controcorrente rispetto a certi trend ormai imperanti, Dall’Oglio preferisce sfoggiare un’idea di disegno industriale tutta rivetti, placche di metallo, tubature e snodi a vista. Una serie di feticismi tecnici inutili andati persi nel corso degli anni, eppure ancora in grado di funzionare alla perfezione.
Per il disegnatore, la tecnologia non è una quinta di cartapesta in cui muovere i personaggi, ma parte integrante della narrazione. Non insegue un plausibilità campata per aria – altrimenti lavorerebbe al MIT invece che per la Bonelli – ma rende comunque ogni squarcio del suo futuro qualcosa di reale e materico. Come se ogni vite fosse stata messa lì per una precisa ragione. Una ricerca di tangibilità che trova conferma soprattutto nei campi lunghi. Se gli interni dei suoi mondi paiono sempre cabine di qualche sommergibile post-bellico, le panoramiche sulle città non di distanziano troppo da quelle in cui oggi stesso vive una buona fetta della nostra popolazione. Un ragionamento molto simile a quello fatto da Nolan nel momento in cui decise di tramutare la Gotham City barocca di Burton e Schumacher in una Chicago dai toni grigio-azzurri. Potrebbe risultare una scelta banale, ma in realtà funziona molto meglio dei vari Luna Park alla Futurama.
Sembra un paradosso, ma è un realismo a cui si accede tramite un espressionismo tecnologico sempre più trascurato. Detto in poche parole: la tecnologia, ancora oggi, per sembrarci plausibile deve sembrare complicata, grigia, austera. Anche se quello che ci si para davanti agli occhi non ha alcun senso logico. Perché, in fondo in fondo, anche se ci appoggiamo quotidianamente agli ultimi ritrovati della tecnica, questa ci intimorisce ancora. I nostri cellulari possono fare cose impossibili, ma proveremo sempre reverenza per qualcosa di enorme, metallico e pieno di lucette. Prendete pagina 79 di I figli del buio e provate a non rimanere a bocca aperta, eppure dubito che il disegno abbia qualche fondamento ingegneristico fondato.
Antonio Serra, creatore di Nathan Never, in un vecchia intervista al portale Wikinotizie dichiarava che «La fantascienza è morta. Qui sono sicuro: la tecnologia l’ha uccisa. Persino mia madre non percepisce più come assurde le cose che prima erano fantascienza. Perché c’è il telefonino, il computer, l’iPod, il televisore ultrapiatto. È magia? No, è la tecnologia che ha vinto». Ogni gadget nelle nostre mani fa cose folli e fa di tutto per apparire il più semplice e lineare possibile. Questo migliora la nostra vita? Senza dubbio. Limita la presenza di inquinamento visivo? Certamente. Ci fa sognare futuri lontani e favolosi? Neanche per scherzo. In una prospettiva simile non è possibile pretendere che un disegnatore riesca a immaginarsi tecnologie futuristiche al contempo plausibili ed evocative. Non è più tempo per le tecnologie arrugginite di Ralph McQuarrie.
A cercare di essere attinenti agli orizzonti futuri ammirabili dal presente, si finirebbe per immaginarsi un domani a metà tra la dittatura di un hippy orwelliano come in The Circle o le tinte pastello di Her. Il massimo della visionarietà paiono essere le scritte colorate in realtà aumentata. È un bisogno deleterio di essere fighi a tutti i costi, che ci sta facendo perdere il gusto della sci-fi più vecchia scuola. Pensate alla semplificazione della divisa degli stormtrooper nell’ultimo Star Wars, in grado di trasformare uno dei design più iconici di sempre in action-figure a grandezza naturale. Oppure alla differenza tra le astronavi della saga Alien, tutte sbuffi di vapore e paratie stagne eppure in grado di entrare nel mito, e le dimenticabilissime astronavi griffate Apple di Oblivion. Ogni città futuristica vista nei blockbuster dello scorso decennio pare una riproposta ancora più lineare e plastica di quanto già fatto da Syd Mead decenni fa. Il risultato è uno svuotamento di significato davvero impressionante. Cosa che non succede con le contorte, sgangherate e caotiche architetture di Koji Morimoto. Probabilmente il futuro non sarà mai come se lo immagina lui, ma a noi cosa importa? Si legge fantascienza anche per rimanere stupiti.
Nel – seppur bellissimo – trailer di Valerian e la città dei mille pianeti, quante inquadrature copiate dagli episodi di Star Wars firmati George Lucas ci sono? Riuscite a trovare le differenze con un Mass Effect: Andromeda qualsiasi? Senza poi tirare in ballo saghe a fumetti come Saga o Descender, dove l’apparato tecnologico pare essere quasi un peso per il disegnatore. Probabilmente l’approccio di Massimo Dall’Oglio potrebbe essere visto da molti come sbagliato in partenza, legato a una visione vetusta e superata del genere. Sarebbe un errore imperdonabile, perché le sue visioni hanno un peso che è difficile ignorare. Possiamo quasi sentire la superficie di droidi e mezzi di trasporto resa ruvida e rovinata dallo scorrere del tempo . Il risultato è simile a quando i registi odierni scelgono di utilizzare effetti speciali fisici rispetto alla CGI. Sono soluzioni vecchie e poco efficienti, con un sacco di limiti, ma funzionano dannatamente bene. Spesso molto meglio di certi barocchismi in CGI. Pensate solo alla differenza tra il rathtar dell’ultimo Guerre Stellari e alla Cosa di John Carpenter. Quale dei due continua a popolare ancora i nostri incubi a più di trent’anni dalla sua apparizione e di quale ci siamo già scordati i connotati?
Agenzia Alfa n. 38 – I figli del buio
di Alessandro Russo e Massimo Dall’Oglio
Sergio Bonelli Editore, 2016
290 pagine in bianco e nero, € 6,80