La vulgata dovreste conoscerla: il 1986 fu annus mirabilis per il fumetto statunitense. Un millesimato che imbottiglia al suo interno Maus, Il ritorno del Cavaliere Oscuro e Watchmen. Articolando meglio: l’anno in cui i fumetti made in USA diventano adulti, oscuri e si affrancano dal loro pubblico consolidato per finire sulle pagine delle riviste, negli occhi del pubblico casuale e sulle bocche dei lettori non avvezzi, portando al tempo stesso l’industria in una fase di splendore e crisi.
Questa sintesi, buona e giusta, trova quasi tutti d’accordo (eccezione: Ben Schwartz, che in Best American Comics Criticism asserisce che il 2000, anno di uscita di Jimmy Corrigan e David Boring, sia stato un anno di rilevanza ancora maggiore). Tuttavia, la sintesi non è la spiegazione. E allora vale la pena, a trenta anni di distanza, (ri)porsi una domanda: come è potuto accadere che tante ‘cose’ si siano concentrate in quel momento? Come è possibile che il 1986 sia diventato “l’anno che cambiò il fumetto” (soprattutto statunitense)?
Perché se è, non dico comprensibile, ma almeno tollerabile che un autore come Frank Miller abbia sfornato nel giro di un anno Devil: Rinascita, Elektra: Assassin, Il ritorno del Cavaliere Oscuro e Amore e guerra, risulta più enigmatico come queste opere, figlie di percorsi lunghi, si siano concretizzate – editorialmente, se non creativamente – nello stesso arco di tempo.
C’erano una volta le annate di Hollywood (e New Hollywood)
Nel cinema, il 1939 è da molti considerata la migliore annata della Hollywood classica. In quell’anno solare escono, tra gli altri, Il mago di Oz, Via col vento, Il signor Smith va a Washington, Ombre rosse e Ninotchka. Un’abbondanza giustificata dalle coincidenze o, invece, possono essere individuate delle ragioni sul perché tanti classici siano usciti in un anno solo? È una domanda per altre sedi ma, per non abbozzare che una teoria, si potrebbe notare come il 1939 arrivò una dozzina di anni dopo l’adozione del sonoro. A una generazione di distanza da Il cantante di jazz, la tecnologia era stata compresa con sufficiente sofisticazione dagli autori da permettere loro di usarla con cognizione di causa.
Lo stesso dicasi per il 1982, conosciuto per l’alta quantità di film che sarebbero diventati iconici. In quella estate uscirono una miriade di titoli (Blade Runner, E.T., La cosa, Tron, Conan il barbaro) che convogliavano tutti i moti e le energie della New Hollywood, su un piano tanto tematico quanto tecnologico. Detta altrimenti: quelli che erano stati i bisogni di raccontare di Apocalypse Now ora si traducevano in Conan il barbaro, e di contro gli effetti speciali (insieme alle nuove tecniche di marketing e distribuzione) de Lo squalo e Guerre Stellari si diramarono come fuochi d’artificio in pellicole quasi da art house.
Il 1939 e il 1982 furono dunque, per farla breve, gli anni “giusti” all’interno di un percorso evolutivo dell’industria del cinema americano. Quelli in cui tutte le piccole, graduali innovazioni si raggrumarono in un unico, denso momento. E il 1986 fumettistico?
Con le dovute variabili, mi sembra una riproposizione di questo modello. Ovvero, un anno in cui arrivarono a compimento, facendo sistema, le trasformazioni culturali e tecnologiche del decennio (circa) precedente. Più che un anno di “invenzioni”, fu il momento dell’esplosione a scoppio ritardato «di fumetti memorabili che rivoluzionarono il mezzo in America, quanto o di più della Silver Age, e i cui effetti si sono estesi fino al XXI secolo» (Peter Sanderson, su Sequart).
Nel frattempo, nei lontani anni Settanta…
Nel 1986 erano passati trent’anni da quando l’editor Julius Schwartz aveva introdotto la nuova versione di Flash in Showcase #4 – noto per l’essere il momento iniziale della cosiddetta Silver Age – e venticinque dalla pubblicazione del primo numero di Fantastic Four. I supereroi moderni dell’età argentea partirono qui: personaggi rotondi, maggior consapevolezza e sofisticazione editoriale. Un terreno su cui la Marvel si trovò più a suo agio di quanto fece la DC perché, come scrive Daniele Barbieri ne I linguaggi del fumetto, «I fumetti Marvel nascono già pronti a un’America multiculturale e multirazziale e si riveleranno nei decenni successivi molto più adeguati di quelli della DC ad affrontare il cambiamento sociale».
Denny O’Neil e Neal Adams alla DC e Stan Lee, Jack Kirby e Steve Dikto alla Marvel, dimostrarono che il fumetto supereroistico poteva essere un mezzo di espressione personale. Non tanto quanto gli underground comix, s’intende. Il panorama del fumetto alternativo stava vivendo uno stravolgimento parallelo. Nascosto nei recessi della controcultura, era diventato mezzo prediletto per autori come Harvey Kurtzman, Robert Crumb e Gilbert Shelton.
I loro lavori trattavano di sesso, religione e politica e i personaggi facevano uso di droghe, liberi dalle censure imposte dal Comics Code. Ma, dopo i fasti degli anni Sessanta, arrivati a metà dei Settanta i comix erano entrati in una fase di fiacchezza creativa e si erano normalizzati. A tal punto che la stessa Marvel, “adottandone” parzialmente la formula e gli autori, li aveva addomesticati con la testata Comix Book (durata due anni dal 1974 al 1976, presentò opere di Art Spiegelman, Trina Robbins, S. Clay Wilson e Gary Hallgren) e lasciò che i suoi autori ne rimanessero influenzati. I cosiddetti comix cedettero dunque il passo al fumetto alternativo, indipendente o addirittura autoprodotto, che tendeva verso temi autobiografici, pure stimolanti ma meno orientati a obiettivi ‘antagonisti’. Complice anche un fattore infrastrutturale: la nascita di un nuovo sistema distribuitivo, il direct market lanciato da un pioniere come Phil Seuling, ovvero una rete di negozi specializzati (le fumetterie) in cui i prodotti “non generalisti” trovarono una loro confortevole nicchia.
Lo scenario, rivisto con la nostra consapevolezza odierna, inizia a chiarirsi. Il 1986 fu un momento importante soprattutto per quelle storie che già esistevano e che ora, con nuove infrastrutture pronte ad accoglierle, venivano riscoperte. In particolare, nel 1986 era ormai consolidato un sistema che nella decade precedente si era evoluto dal proprio brodo primordiale (le edicole) verso una condizione (le fumetterie) che, con i vantaggi e gli svantaggi del caso, aveva avvicinato il fumetto a un prodotto editoriale più vicino al libro che alla rivista. Il salto che dovettero fare Maus – serializzato sulla rivista Raw tra gli anni Settanta e Novanta e i cui primi sei capitoli uscirono in volume quell’anno – o altre opere (Miracleman debuttò in America e American Splendor di Harvey Pekar, realizzato tra il 1976 e il 2008, uscì in volume per la prima volta) per arrivare negli scaffali delle librerie, diventò un percorso possibile e concreto.
Nel frattempo, i fumetti di supereroi anni Settanta parlavano di una realtà attraversata da nuovi conflitti sociali, droga e morte. La Silver Age aveva ceduto il passo alla Bronze Age, dove i temi del fumetto underground venivano rilavorati in un contesto supereroistico, come la morte di Gwen Stacy o gli archi narrativi sull’abuso di droghe (prima su Amazing Spider-Man e poi su Green Lantern). Ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Thomas S. Kuhn spiega che qualsiasi nuova scoperta scientifica inizia con la consapevolezza dell’anomalia, il riconoscimento che la natura ha violato le aspettative del paradigma. Il passo successivo è lavorare affinché l’anomalia diventi l’elemento normativo del paradigma. Come anomalia, la dipartita di Gwen venne fatta rientrare nello schema della regolarità – la Bronze Age – diventando solo il primo dei tanti eventi luttuosi che avrebbero seguito. E intanto Marvel e DC erano pronte a rischiare con una nuova generazione di autori, tra cui l’ondata di britannici che invase le coste statunitensi a partire dal 1983, quando l’editor DC Len Wein assunse Alan Moore per scrivere Swamp Thing. Ma era vero anche il contrario: gli autori (e i lettori) erano pronti a scommettere su nuovi editori. Fondata nel 1986, Dark Horse diventerà la casa di nomi conosciuti e inediti, locali e stranieri, pop e indie come Frank Miller, Mike Mignola, Sergio Aragonés, Stan Sakai e Paul Chadwick.
«Quello che cambia è il mainstream, il genere che ha definito i fumetti», scrive Sanderson. «E l’elevazione di alcuni di quei fumetti generalisti da soap opera adolescenziale ad arte vera e propria segna il reale punto di demarcazione. Quando opere come Watchmen dimostrano livelli di complessità e rilevanza culturale superiore a molti romanzi o film, allora si capisce che il mezzo fumetto si è evoluto». La frattura forte tra fumetto indipendente e mainstream sembrò sanarsi quando, uscito il primo albo di Batman: Anno uno, Art Spiegelman andò da David Mazzucchelli e gli disse: «Per colpa tua ho dovuto comprare un fumetto di supereroi. Non accadeva da quando ero bambino».
L’ansia dell’influenza e gli autori di comics
Nel 2002 Geoff Klock pubblicò How to Read Superheroes and Why, saggio in cui elaborava la teoria della “revisionist superhero narrative”, un’idea di narrazione revisionistica per il contesto dei comics supereroistici che aveva al centro del proprio discorso Il ritorno del Cavaliere Oscuro e Watchmen. Molte delle idee di Klock prendevano spunto dal critico letterario Harold Bloom, che con L’angoscia dell’influenza aveva parlato dell’importanza cruciale dell’influenza che un autore (un poeta, nel caso dell’analisi di Bloom) esercita su un altro. Proseguendo il suo discorso, Bloom affermava che ogni lettura da parte di un autore, un lettore o un critico è in realtà un travisamento («reading is misreading», nella più efficiente dicitura originale). L’atto che pare neutro del leggere è già di per sé una rilettura del materiale, un atto interpretativo.
Il ritorno del Cavaliere Oscuro è uno dei più importanti lavori nella tradizione della narrativa supereroistica perché costituisce la prima rilettura della Storia del fumetto, nello specifico la Storia di Batman. Una delle differenze con la comprensione di Bloom della poesia è che Miller non ha scritto un poema sotto l’influenza di qualcuno ma ha scritto un personaggio i cui aspetti sono stati determinati dai lavori dei suoi predecessori: non può avere una conoscenza vergine del personaggio perché ogni cosa che gli altri autori abbiano mai scritto è successa, in qualche forma, al personaggio.
In pratica, dove l’ansia dell’influenza descritta da Bloom stava nello stile, nel caso dei supereroi emergeva nella narrazione stessa: «Il ritorno del Cavaliere Oscuro è la prima opera nella storia dei fumetti supereroistici che tenta una sintesi di quarantacinque anni di storia batmaniana in un unico luogo».
Lo stesso si può dire di Watchmen, che però affrontava la materia di Miller da un’altra prospettiva. L’esplorazione di Moore delle ragioni – spesso sessuali – dietro ai vigilanti mascherati gettava una luce disturbante sulle storie del passato e costringeva il lettore a rivalutare – revisionare – ogni supereroe. Dove Il ritorno del Cavaliere Oscuro era trionfale ed esagerato, l’estetica di Dave Gibbons rendeva Watchmen, come ha scritto Evil Monkey, «sommesso, mediocre, pieno di personaggi grigi. In un gioco di equilibrio impossibile da replicare, la grandezza di un fumetto supereroistico derivava dallo svelamento di quanto fosse patetico. Non psicopatico, asociale, disturbato, ambiguo o ogni altra rilettura sbagliata andata per la maggiore negli anni seguenti». O, come ebbe a dire lo stesso Miller: «Entrambi uccidemmo i supereroi. Alan fece l’autopsia, io il funerale in pompa magna».
Urgenza di cambiare
Come colto da acatisia, il panorama fumettistico avvertì quindi una urgenza del rinnovamento. Le voci degli autori giovani e il nuovo sistema del direct market contribuirono a creare una pressione culturale sui creativi affinché iniziassero a concepire eroi moderni. O a revisionare i vecchi. Complice l’evento editoriale Crisi sulle Terre Infinite, DC Comics fece piazza pulita di tutte le storie convulse che aveva raccolto in quarant’anni di pubblicazioni. Agli sceneggiatori venne dunque data carta bianca per creare versioni contemporanee degli eroi più celebri, personaggi antichi per un nuovo pubblico. La Wonder Woman di George Pérez iniziò un ragionamento sulle origini del personaggio che si trascina fino a oggi. E John Byrne in Man of Steel ribaltò gli elementi fondativi di Superman spostando il peso sul lato umano del personaggio.
Prima di renderlo più adatto al contemporaneo, la DC volle dare il giusto tributo al vecchio Superman e lo fece sulle testate gemelle Superman (#423) e Action Comics (#583), con quella che avrebbe dovuto essere l’ultima (e definitiva) storia del personaggio, Che cosa è successo all’Uomo del Domani?. Il fumetto di Alan Moore e Curt Swan rappresentava un sentito requiem alla Silver Age, periodo che Crisi sulle Terre Infinite voleva definitivamente lasciarsi alle spalle (anche se nel frattempo era già arrivata – e stava per concludersi – la Bronze Age). Vent’anni dopo l’opera di Moore e Swan sarebbe stata indicata come primo esempio di un filone ulteriore, un recupero delle atmosfere della Golden e Silver Age che prendeva il nome di “Neo-Silver movement” e che avrebbe poi incluso lavori come 1602 di Neil Gaiman e Andy Kubert e All Star Superman di Grant Morrison e Frank Queitly.
Se da una parte DC rilanciava in maniera radicale i propri eroi, Marvel dall’altra festeggiava i suoi primi 25 anni con la creazione di un nuovo parco editoriale che puntava a una lettura più realistica dei personaggi. Progetto personale dell’allora editor-in-chief dell’azienda Jim Shooter, il “New Universe” fu il tentativo (fallito, poiché chiuse dopo pochi anni) di prendere la lezione di Stan Lee e accelerarla per gli anni Ottanta. Il mondo Marvel, partito con soggetti che mischiavano il quotidiano al fantastico, si era gradualmente scrollato di dosso la componente ‘quotidiana’ ed era diventato un posto popolato da robot, alieni, realtà parallele e mostri cosmici. Shooter voleva riportare tutti coi piedi per terra e mostrare come il vero mondo, il nostro, avrebbe reagito all’arrivo di individui dotati di superpoteri. Il mondo che raccontavano gli autori in seguito al famigerato “Evento Bianco” – l’stante che donò abilità speciali ai vari protagonisti – avrebbe dovuto essere talmente realistico che Shooter impose la sincronia tra lettura e narrazione: i fumetti si sarebbero svolti in tempo reale. Un anno per il lettore sarebbe corrisposto a un anno per il personaggio.
Una serie in particolare mostrava l’evoluzione logica dell’idea di Lee. L’autore aveva dotato i propri personaggi di superpoteri e superproblemi, mettendo al centro delle vicende i loro conflitti psicologici ed emotivi. Spider-Man era nevrotico, Hulk soffriva di disturbo dissociativo dell’identità e problemi di controllo della rabbia. Gli eroi erano soprattutto degli individui affetti da disturbi psichici. Ecco allora che D.P. 7 di Mark Gruenwald e Paul Ryan dipingeva i supereroi come membri di una clinica per il paranormale, in cui ogni paziente poteva beneficare di terapie di gruppo e consulti medici. Non per curare, beninteso, ma per comprendere e far fruttare il proprio dono. In pratica gli X-Men, nella vita “reale”, non avrebbero frequentato una scuola privata ma sarebbero finiti in un istituto psichiatrico. Questo dette l’occasione agli autori di rappresentare il trattamento psichiatrico in una luce più positiva rispetto a quanto facevano in DC con il manicomio di Arkham. D.P. 7 mostrava un’America più a proprio agio con il concetto di malattia mentale.
Sullo stesso crinale si poneva The ‘Nam, serie incentrata sugli eventi della guerra del Vietnam, visti attraverso gli occhi di Ed Marks, un soldato semplice dell’esercito statunitense. Raccontata anche questa in tempo reale (tra un episodio e l’altro trascorreva un mese effettivo), The ‘Nam si soffermava sulla quotidianità della vita, alternando momenti di noia ad attimi di terrore. La forte verosimiglianza era enfatizzata non sono dall’esperienza dello sceneggiatore Doug Murray, reduce della guerra in Vietnam, ma anche dalla presenza, in terza di copertina, di un glossario che spiegava i termiti più tecnici e gergali utilizzati dai militari.
Storie di traumi collettivi e di morte (anche di Dio)
Malattia e morte furono uno dei refrain del 1986. Quel senso di morte veniva da lontano, dalle storie dell’Uomo Ragno, degli X-Men o di Capitan Marvel, la cui dipartita nel 1982 aveva simbolicamente coinciso con il debutto della linea editoriale Marvel Graphic Novel (storie ‘adulte’ per il pubblico sofisticato del direct market).
Crisi sulle Terre Infinite parlava dell’annichilazione di infinite realtà, Maus di Olocausto, Watchmen cela la paura della minaccia nucleare. Ma anche la serialità degli X-Men con Massacro mutante imbrattò di sangue e dolore l’annata fumettistica. E ciò che più funziona in quella messa per la Silver Age che va sotto il nome di Che cosa è successo all’Uomo del Domani? è «lo straniamento indotto dall’inserimento di dinamiche esogene – leggi: la morte – all’interno di una diegesi che ‘odora’ ancora di ingenuo escapismo anni Sessanta» (parole di Daniele Croci).
Altro nerbo è la ricerca attorno a un dio o una volontà superiore. Maus e Watchmen ritraggono un mondo in cui Dio sembra non esistere – e se esiste, è un essere blu (in Moore) che sta col pisello di fuori ed è insensibile verso i tormenti dell’uomo. L’uomo che i supereroi li aveva fatti nascere, Jack Kirby, era da tempo dedito ai personaggi divini. Nel 1986 uscì infatti The Hunger Dogs, l’ultima storia de Il Quarto Mondo. Quando realizzò The Hunger Dogs, Kirby era a sua volta uno di quelli della vecchia guardia, e le pagine finali in cui dominava la figura di Altopadre suggerivano neanche troppo implicitamente come, per l’autore, il futuro fosse in mano ai decani. Un altro padre fondatore dei fumetti, Will Eisner, era in attività con la serie Will Eisner’s Quarterly, il cui ottavo e ultimo numero uscì nel marzo 1986. Nell’albo di congedo, il fumettista propose tre storie che parlavano di personaggi avanti negli anni. Uno di questi, il protagonista di The Dreamer, era una versione romanzata di Eisner, che guardava indietro alla propria carriera artistica con sguardo crepuscolare. «Il 1986 fu un anno di transizione per i fumetti, e alcuni di questi mostrano come i loro creatori stessero decidendo di proposito come partecipare a questa transizione», scrive Sarandon. Quindi Spiegelman, Kirby, Eisner «guardavano il loro passato per riproporlo sotto nuova veste al presente», un tempo che forse non sentivano propriamente loro.
Il 1986 segnò la piena entrata in una nuova fase, la Modern Age, da cui forse non siamo ancora usciti. Almeno a sentire quanto è ancora ‘forte’ la presenza di questo anno nella coscienza collettiva (nel Canone) di tanti fumettòfili. Un po’ come per le costellazioni, a volte sembra arbitrario il giudizio che porta a unire quella stella a quell’astro per formare una figura stilizzata. Quel Sole non poteva essere lasciato lì a brillare per conto suo? Non può essere che sia stato solo il caso? «Di fondo esistono dei fattori», ha detto Mauro Uzzeo durante il panel “1986: storie dell’anno che cambiò il fumetto” andato in scena alla scorsa Lucca Comics & Games. «Commistione perfetta tra crisi – che come ci ricordano i nostri amici asiatici significa “opportunità” –, la ricerca di strade nuove e possibilità date agli outsider perché intraprendano queste strade nuove».
A metà degli anni Ottanta il terreno era stato arato, e il palco era pronto per essere calcato. C’era una nuova generazione di professionisti che aveva passato gli anni Settanta a inserirsi, adattarsi e posizionarsi nel sistema, e che era pronta a imporre la propria voce. C’erano editori e un pubblico pronti ad ascoltare quelle voci. C’era una certa nuova categoria merceologica che aveva preso piede, il graphic novel, e un sistema distributivo a sua volta pronto ad accogliere quel prodotto. Combinati insieme, questi fattori produssero l’ultima grande rivoluzione (americana) del mezzo, i cui effetti si sono fatti sentire per molto tempo nella volontà di realismo e adultità di certi testi, fumettistici o filmici.
Postilla: nel 1986 uscì un solo film hollywoodiano tratto da fumetti, Howard il papero. Credo si chiami contrappasso.
*Si ringrazia Daniele Croci per gli spunti forniti.