Dopo i 10 migliori fumetti classici e i 10 migliori graphic novel, continuiamo ad analizzare l’anno che sta per terminare occupandoci delle serie.
Selezione difficile – come sempre, e come sempre non la sola possibile – ma rappresentativa di un’annata che ci è parsa particolarmente felice soprattutto per la produzione seriale nordamericana. Dentro quindi un bel tot di serie statunitensi, un paio di ottimi manga, una conferma francese che non smette di sorprendere e qualche soddisfazione italiana: un “classico” prevedibile, e una curiosa (e discussa) sorpresa.
Pantera Nera vol. 1, di Ta-Nehisi Coates e Brian Stelfreeze (Panini Comics)
Quando Marvel Comics ha annunciato il giornalista e romanziere Ta-Nehisi Coates – una delle più autorevoli voci afroamericane di oggi – come nuovo sceneggiatore di Pantera Nera, in molti hanno sentito l’inconfondibile odore del marketing. E infatti, boom! Il primo numero ha venduto 300.000 copie, e la serie è diventata subito argomento di discussione sulle principali testate generaliste statunitensi e non, dal New York Times al Guardian, finendo per essere apprezzata sia dai lettori che dalla critica.
Ma questo grande risultato non è semplicemente frutto di una presunta manovra pubblicitaria. Il merito della riuscita sta nelle qualità Coates, capace di dar vita a una solida storia Marvel, tanto avvincente quanto ricca di spunti letterari. Il suo Black Panther è un originale thriller fantapolitico, con radici ben ancorate nell’Africa nera. La storia è concentrata sulle contraddizioni del Wakanda, sempre in bilico fra tradizioni tribali e tecnologie avveniristiche, e su quelle di re T’Challa, sovrano illuminato ma spesso propenso a trascurare il proprio popolo per salvare il mondo con i Vendicatori.
QUI la nostra recensione.
UT nn. 1-6, di Paola Barbato e Corrado Roi (Sergio Bonelli Editore)
Misteri. Efferatezze. Desolazione. Identità perverse. Palazzi abbandonati. Statue viventi (ma nate dalla morte). Parole e scritte enigmatiche. E nebbia. Tanta nebbia. Il mondo creato da Corrado Roi sembra uscito da visioni horror post-industriali che, in un clima piuttosto retro’, urlano immagini di terribile eleganza. La storia di Ut, Iranon, Decio, Caligari e degli altri inquietanti personaggi non è chiara. Ci sono di mezzo luoghi spaventosi, un’umanità “senza memoria” ridotta a istinti primordiali, e trame enigmatiche che portano di domanda in domanda, senza mai offrire vere risposte. UT è la storia corale di una comunità ai confini della fine del mondo, in cui alcuni cercano risposte sulle proprie origini, mentre altri cercano di sopravvivere, e altri ancora – gli “architetti” – si affrontano per una lotta fra conservazione (del poco di umanità rimasta) e promozione del caos.
Alcune delle sequenze di UT grondano di una crudeltà raramente vista nel fumetto Bonelli, ma non è l’horror il vero nucleo del racconto. Ciò che conta in UT, sono due ingredienti: le atmosfere, e i disegni. L’indefinitezza di un mondo e della trama stessa, innanzitutto. Un aspetto che ha fatto storcere il naso a non pochi lettori, ma che ne fa uno dei prodotti Bonelli più bizzarri di sempre. E poi c’è il lavoro di Roi, che qui non solo raggiunge il proprio vertice artistico personale – fra Dino Battaglia e HR Giger – ma riesce a dare forma un mondo incredibilmente ricco, coerente, spaventoso con vignette e sequenze da incorniciare.
UT è allora una (mini)serie ipnotica, che forse ha ipnotizzato i suoi stessi co-autori: l’atmosfera domina al punto da far perdere di vista la trama, e il gusto della scrittura fa perdere a Barbato l’equilibrio fra silenzio e parola (i suoi guizzi affascinanti talvolta ‘coprono’ le immagini con una verbosità superflua). Non il migliore fumetto seriale dell’anno, allora. Ma il migliore tentativo (italiano). Esperimento fallito? Forse sì. Ma l’impresa della sua creazione, e della sua lettura, è di quelle che vale la pena intraprendere.
QUI un’anteprima.
Southern Bastards voll. 1-2, di Jason Aaron e Jason Latour (Panini Comics)
Un ex giocatore di baseball torna nel paese natale, di cui il padre era lo sceriffo. Durante la sua assenza, la cittadina è rimasta immutata: sporca e malfamata. E tutti ce l’hanno con lui perché il suo vecchio era un gran bastardo. Basta questa sinossi per intuire l’aria che si respira in Southern Bastards, una delle migliori serie Image, a opera di Jason Aaron e Jason Latour, che ha il grande pregio di mettere in discussione la visione di figura forte e virile tipica della narrativa seriale.
Aaron mischia i temi alti della classicità (la religione, l’idea di dio, le colpe dei padri) con l’epopea bassa degli Stati Uniti del sud – quello fatta di pollo fritto, palle da football sacre, pick-up infangati e dixie mafia – nel tentativo di scrivere un fumetto intelligente su degli stupidi redneck chiusi nei loro porticati in legno decapato. Ci riesce facendo a meno di qualche raffinatezza psicologica. Lo stesso fa il disegnatore Jason Latour, che si immola, con la perentorietà dei suoi rossi, a una stilizzazione grafica e cromatica rigorosissima.
QUI la nostra recensione.
Last Man voll. 5-7, di Bastien Vivès, Michaël Sanlaville e Balak (Bao Publishing)
Adrian Velba ha un sogno: vincere la Coppa dei Re al grande torneo di arti marziali. Una competizione leggendaria, dotata di un prestigio tale da richiamare tutti i lottatori più forti della Valle. Una parata di stelle dove un ragazzino come Adrian non ha alcuna speranza di emergere. Sempre che, all’ultimo secondo, non si trovi un compagno di squadra davvero fuori dal comune…
Questo l’incipit di Last Man, una delle serie più appassionanti in circolazione. Un risultato raggiunto grazie a uno storytelling di rara potenza, a un immaginario ricchissimo e a una ricerca stilistica con pochi pari per quanto riguarda classe e freschezza.
Eppure, all’inizio, lo spettro del freddo giochino post-moderno portato avanti dalla superstar del fumetto d’autore Bastien Vivès avrebbe potuto affondare tutto il progetto. Fortunatamente non è andata così, e con gli ultimi volumi la paura di trovarsi tra le mani quello che in troppi hanno frettolosamente etichettato come uno shonen alla francese è stata ben presto allontanata. Last Man è in realtà un progetto del tutto originale, basato su un mondo dalle mille sfaccettature, che a breve diventerà anche un cartone animato e un videogioco. Confermando ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, la sua indole trasversale e contemporanea.
Visione vol. 1, di Tom King e Gabriel Hernandez Walta (Panini Comics)
Pur essendo sulla piazza dal lontano 1968, Visione non aveva mai goduto di grande popolarità. Quantomeno fino al suo esordio nel Marvel Cinematic Universe avvenuto in Avengers: Age of Ultron del 2015. Nonostante il successone hollywoodiano, però, Visione resta ancora un personaggio di secondo piano dell’Universo Marvel, uno di quelli che negli ultimi anni la casa editrice si sta divertendo ad affidare sulla fiducia ad autori capaci, un po’ come accaduto negli anni scorsi all’Occhio di Falco di Matt Fraction. In questo caso, invece, il personaggio è stato affidato a Tom King, ex agente della CIA e nome in ascesa del fumetto americano, grazie anche a lavori come Grayson e Sheriff of Babylon per Vertigo.
In Vision, ritroviamo il personaggio con una propria famiglia – tutta di sintezoidi come lui – composta dalla moglie Virginia e dai figli adolescenti Viv e Vin, per una serie dalle atmosfere e dai ritmi di un thriller spionistico, ma che riesce a mescolare insieme toni da teen drama e dialoghi filosofici sulla natura umana (e robotica). La qualità della scrittura di King rende il tutto molto credibile e affascinante, per uno dei picchi più alti della Marvel attuale (anche se purtroppo destinato a non durare, visto che la serie negli Stati Uniti ha chiuso dopo 12 numeri).
QUI ne ha parlato Evil Monkey e QUI Andrea Fornasiero.
Sunny nn. 3-6, di Taiyo Matsumoto (J-Pop)
Strano (o forse giusto) che uno dei migliori manga di quest’anno sia qualcosa di completamente diverso rispetto ai canoni tipici del fumetto nipponico. Con Sunny – storia di un gruppo di bambini alle prese con il crescere in un orfanotrofio e che trovano nel gruppo quella famiglia di cui sentono quotidianamente l’assenza –, Tayo Matsumoto firma il suo capolavoro, grazie a uno segno grafico rozzo e poetico al tempo stesso e a un approccio alla materia narrativa sincero, senza falsi patetismi.
Merito anche degli elementi parzialmente autobiografici che l’autore ha saputo convogliare in un lavoro di raffinata e poetica complessità, capace di conquistare persino coloro poco avvezzi al manga giapponese.
QUI la nostra recensione.
Providence voll. 1-2, di Alan Moore e Jacen Burrows (Panini Comics)
Dopo un paio di opere sottotono o comunque minori, con Providence Alan Moore è tornato alla grande. L’autore di Watchmen e V for Vendetta riprende il discorso incominciato con Neonomicon e continua a esplorare l’universo fantastico creato da H.P. Lovecraft. La serie è ambientata nel 1919 e racconta la vicenda di Robert Black, uno scrittore omosessuale che lavora come reporter per il New York Herald. Intenzionato a scrivere un romanzo, Black si prende un periodo di aspettativa dal lavoro. Il suo viaggio, decisamente orrorifico, lo porterà a svolgere un’indagine sul mondo dell’occulto.
Con Providence, Moore ci cala in un mondo di citazioni e rimandi che non aspira assolutamente a essere trasparente o esplicitamente ammiccante. Il fumetto, quindi, non si limita a frequentare i territori del sentito e rispettoso omaggio. Il risultato è una narrazione originale e multilivello che può essere fruita da più punti di vista, tutti ugualmente godibili, sia da esperti conoscitori dell’opera di Lovecraft sia da lettori casuali. Un’opera da leggere e da rileggere, da districare e intrecciare come una matassa o un tessuto. Buona parte della riuscita del fumetto è merito dei disegni inquietanti Jacen Burrows, mai così convincente come su queste pagine.
QUI la recensione del primo volume e QUI quella del secondo.
I Am a Hero nn. 15-16, di Kengo Hanazawa (GP Manga)
Serializzata in Giappone a partire dal 2009, ovvero quando la zombi-mania televisiva veicolata da The Walking Dead era ancora di là da venire (anche se il fumetto omonimo aveva già debuttato nel 2003), I Am a Hero reinterpreta con ammirabile originalità questo filone dell’horror, pur non nascondendo i debiti con le opere – film soprattutto – che ne hanno nutrito le idee. Innanzitutto c’è un anomalo protagonista, un mangaka lievemente sociopatico e con la passione per il tiro a segno, che si trova a fronteggiare un’epidemia zombi.
In I Am a Hero, poi, l’azione viene sì dilatata con stratagemmi da soap opera in chiave zombesca, con un profluvio di sotto trame e personaggi secondari, ma il racconto complessivo rimane tesissimo. I momenti più tesi, e quelli più quotidiani, si alternano senza mai far crollare i personaggi da una parte o dall’altra. E anche i disegni non scherzano. Sebbene I Am a Hero sembri un manga super-tecnico, con un disegno perfettino che sfrutta tutti i trucchi del genere, in alcune sequenze riesce a sorprendere per le trovate visive e qualche – inaspettata – meta-riflessione sul fumetto stesso. Basti pensare al dialogo sul ruolo del manga e dei mangaka nel primo volume e, più in generale, al ruolo centrale che nella serie svolgono gli otaku: in virtù della loro natura maniacale e ossessiva, secondo la visione di Hanazawa, sarebbero loro i più adatti a sopravvivere in una situazione di estrema crisi… in cui tutti – o quasi – i valori della civiltà moderna vengono stravolti.
Hanazawa non eccede in letture sociologiche esplicite, né filosofeggia troppo sul ruolo dell’uomo in una società post-apocalittica e neo barbarica, ma piazza i propri, spesso fragili personaggi, in una situazione di crisi e si diverte a osservarne le reazioni. E il lettore, magari superata l’iniziale diffidenza, non potrà fare a meno di appassionarsi nel seguire lo sviluppo del suo così umano esperimento.
Supreme Blue Rose, di Warren Ellis e Tula Lotay (Lion Comics)
Dopo Alan Moore, anche Warren Ellis rimette mano a Supreme – clone di Superman creato da Rob Liefeld negli anni Novanta –, ma lo fa lasciando l’eroe ai margini e puntando soprattutto alla (ri)costruzione di un immaginario. Al centro della storia c’è la giornalista Diana Dane, in un mondo in cui periodicamente avvengono delle “revisioni” e tutto riparte da zero, un po’ come per i “reboot” degli universi supereroici. Dopo l’ultima revisione, però, qualcosa sembra andare male, e il presente si mescola in continuazione con passato e futuro.
Un gioco metanarrarivo che sembra voler mettere in discussione la politica attuale delle case editrici americane e che si innesta in una complessa trama fantascientifica e criptica, composta da molteplici fili che si intrecciano, si sfilacciano e poi si annodano (quasi) definitivamente. Così come la storia, anche le tavole visionarie di Tula Lotay possiedono molteplici livelli di lettura. Tra sperimentalismi grafici e tinte acide, i disegni accompagnano il lettore a spasso tra spazio-tempo e piani onirici, con il presente che viene visivamente contaminato da passato e futuro.
QUI la nostra recensione.
Rat-Man nn. 113-117, di Leo Ortolani (Panini Comics)
La tanto paventata fine di Rat-Man è ormai ufficiale: arriverà con il numero 122, a settembre 2017. Intanto, con il 113 ha avuto inizio la lunga saga in 10 episodi che porterà alla conclusione.
Per ora siamo a metà, ma è già possibile apprezzare il buon lavoro di Ortolani, impegnato nel far quadrare tutto e risolvere gli ultimi misteri rimasti. Senza tralasciare inserti umoristici e riflessioni sulla società e la religione, la storia appassiona molto, nel suo incedere per episodi apparentemente scollegati tra loro, ma che combaciano alla perfezione, come tessere di un puzzle. Grazie anche a colpi di scena mirati e a convincenti inserti meta-narrativi ben fusi all’interno della trama principale.
Nel gioco di luci e ombre della saga, poi, il disegno di Ortolani raggiunge la maturità nella maniacalità dei tratteggi e nella capacità di far parlare i personaggi senza bisogno di parole. Una nota non da poco in una storia basata in gran parte sull’aspetto motivo.
QUI i nostri recap della saga finale.