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Kingpin: la strada insanguinata per il successo

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The Amazing Spider-Man #50 del luglio 1967 non è famoso solo per una delle copertine più iconiche del personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko, ma anche perché ospita la prima apparizione di uno dei villain più carismatici e duraturi della Casa delle Idee: Wilson Grant Fisk, alias Kingpin, il re del crimine di New York.

Per caratterizzarlo, John Romita Sr. – creatore insieme a Stan Lee del personaggio – attinge a piene mani dall’immaginario noir e pulp della cinematografia degli anni Quaranta, ispirandosi all’attore Sydney Greenstreet, famoso per aver interpretato il ruolo di Kasper Gutman in The Maltese Falcon (Il mistero del falco) del 1941, tratto dall’omonimo romanzo di Dashiell Hammett.

La corpulenza melliflua, il tono ambiguo e l’eleganza ostentata e ricercata, nonché l’immancabile sigaro stretto tra i denti, sono elementi che Romita Sr. ruba al grande schermo per creare una maschera che ne esaspera i limiti sino al grottesco e al caricaturale, memore in questo della lezione di Chester Gould. In una manciata di numeri, Lee e Romita Sr. tratteggiano una figura, che sebbene inderogabilmente definita nei suoi caratteri fondamentali, si presenta agli occhi del giovane Frank Miller nel corso degli anni Ottanta come pura materia grezza: una pozza di nero bitume da incendiare. Nel suo lungo ciclo, Miller rifonda da zero la mitologia di Daredevil. La sua lettura diventa il canone: l’ortodossia milleriana contempla la centralità imprescindibile di Wilson Fisk, nemesi del Diavolo Rosso, antitesi e tentazione più recondita.

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La copertina di John Romita Sr. per “Amazing Spider-Man #51”, con il primo scontro tra Spider-Man e Kingpin

La violenza e la tragicità da cui proviene Matt Murdock è la stessa in cui affonda le sue radici la gramigna di Wilson Fisk. Il criminale non accetta, però, alcuna forma di redenzione. Fisk è mosso da un demone sordo, da una bulimica sete di potere, ingurgita la città, ne diventa parte integrante, inocula nelle strade il suo credo, nutrendolo di timore e disperazione, esorbita sino a sfondare i ridicoli limiti della sua umanità. Fisk crolla e si innalza, muore e rinasce più e più volte, acquista spessore e dignità e nel contempo la coltre marmorea fasciata nello smoking bianco si incrina, si sfalda mostrando l’uomo, la creatura intrappolata in quell’adipe insaziabile. La fame atavica di Kingpin sembra arrestarsi solo davanti all’amore, eppure…

La relazione con Vanessa, l’unica donna della sua vita, è il limite di Kingpin: è l’unica persona in grado di redimerlo, ma dalla cui incolumità dipende anche la sua ragione mentale. Se dovessimo pensare a Kingpin attraverso un peccato capitale, questo non sarebbe la gola, vedendo nella sua mole una conseguenza di un’incontrollabile fame, ma la rabbia. L’ira annichilisce quel barlume di coscienza, soffocata nelle pieghe della carne, e spinge Fisk oltre il limite dell’umano, facendolo sprofondare in un’animalesca notte, dominata dalle sensazioni più abbiette. Non è un caso che Miller ridesti la bestia sfruttando la notizia della presunta morte di Vanessa: una rabbia cieca strappa Fisk alla tranquillità del Sol Levante gettandolo al centro del mondo, nel caos ribollente di Manhattan, dove reclamerà quanto gli spetta di diritto.

Per centinaia di pagine, Miller sfronda le pagine di Daredevil di quell’immaginario kitsch e anni Settanta, pur conservandone i personaggi principali: in questo suo approssimarsi a una visione ben precisa, cristallina e pura, Miller coinvolge ogni elemento e personaggio in un restyling votato a un principio di realtà. Quello che resta è la mole enorme: in Daredevil #170, Matt è impressionata dalla grandezza, sebbene sappia tutto sul signore del crimine. Nessuno gli aveva detto quanto fosse enorme. I sensi del Diavolo recepiscono una sagoma squadrata, granitica, massiccia: e non è un caso che il primo scontro tra i due si concluda con un knok-out per il vigilante.

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Kingpin contro Daredevil, secondo Frank Miller

Miller comprende la possibilità di intrecciare le vite dei due personaggi, di renderli consustanziali: due facce della stessa medaglia. Dona a entrambi un afflato quasi religioso. Matt Murdock santo-peccatore che cerca di redimere la città; Wilson Fisk santo-inquisitore chiuso nella sua torre eburnea, circondato dai marmi, cristalli e ori, che sonda le pieghe della città e muove gli infiniti pedoni della sua scacchiera.

Miller, lavorando sulla già consolidata iconografia di Romita, introduce elementi simbolici imprescindibili: tra questi, un ruolo cruciale ricoprono le veneziane, dietro la cui protezione si cela lo sguardo rapace e onnivoro del re del crimine. Non è un caso che D.G. Chichester le citi in apertura della fondamentale saga Caduta dal Paradiso, quando Matt Murdock spiega a Foggy la sua idiosincrasia per le stesse:

È difficile spiegarlo, Foggy. Le veneziane… sono sempre state come uno schermo. Ho conosciuto uomini che le usavano per vedere fuori senza essere visti dentro. Le tende sono aperte o chiuse. Nessun segreto. I segreti possono schiacciarti… Farti perdere la prospettiva. E io, Foggy, voglio essere in sintonia con la realtà.

Miller decide di esplorare questa inseità imperscrutabile a piccole dosi, sino a porre al centro del romanzo grafico Amore e guerra i tormenti amorosi ed esistenziali di Kingpin. Cercando di mostrarlo in tutta la sua fragilità.

Siamo nel 1986. Il ventiquattresimo volume della serie graphic novel della Casa delle Idee è dedicato a Daredevil, con una storia apparentemente fuori continuity. Miller si concentra sulla psicologia di Fisk, la cui figura esorbita dalle vignette, incapaci di trattenerla. Bill Sienkiewicz abbandona totalmente lo stile che lo aveva caratterizzato, esplodendo: il tratto si fa estremo, caricaturale, barocco. Le tavole interamente dipinte e impreziosite da tecniche miste mostrano il boss piegato e schiacciato dal suo stesso peso: il panciotto damascato che indossa sembra carta da parati – molto probabilmente lo è – e si staglia immobile sulla pagina occupandone lo spazio. Sienkiewizc risponde all’esigenza milleriana di realtà esasperando le caratteristiche già caricaturali che Romita Sr. aveva attribuito al personaggio. Dietro quella massa informe che troneggia ed esorbita, cela i pensieri umani di Fisk: la debolezza di un uomo disperato, che affida la vita della sua donna alle mani di un sicario sotto psicofarmaci. Le due figure sono antitetiche: Lynch, ossessivo compulsivo e paranoico, ha i tratti di un macaco, un volto che non ha nulla di apparentemente umano. Distorta e feroce, la patognomica è un digrignare continuo e un irrefrenabile tremore cerebrale.

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Kingpin visto da Bill Siwnkiewicz su “Daredevil: Love and War”

La foliazione francese del volume e la generosità del formato aiutano il disegnatore: l’effetto è garantito. Impietrito e sconfitto, Kingpin è la maschera immobile di se stesso. Eccede nelle pieghe della carne tremula e schiaccia in quanto a profondità Matt Murdock, qua poco più che un segno, un semplice espediente narrativo, intrappolato negli schemi dell’azione e delle dinamiche che lo legano a Turk. Miller e Sienkiewicz sono attratti dalla nana bianca: dal cuore nero di Wilson Fisk, il cui dolore immenso e greve esplode nella rabbia e nel silenzio dell’acredine:

Ho costruito un impero sul peccato. Sono temuto dagli onesti e dai criminali. Le autorità pubbliche obbediscono al mio volere con la stessa rapidità dei peggiori magnaccia e spacciatori. Ho tutto ciò che ho sempre desiderato.

Amore e Guerra si chiude nella circolarità di questa affermazione. Ma Fisk estromette Vanessa dalla morale che disegna i confini immensi del suo mondo. Se il limite invalicabile è la volontà di Vanessa, dopo la fuga di quest’ultima per mano del Diavolo Rosso, sobillatore dia-bolico (i.e. colui che divide), Kingpin è solo questa volontà di dominio che affossa e getta tutti senza alcun discrimine nel cerchio magico del terrore.

È la stessa crudeltà con cui Miller e Romita JR. lo introducono nella pagine di L’Uomo Senza Paura. Wilson Fisk, silenzioso come un cane da guardia, arriva alle spalle di Rigoletto e ne spezza il collo reclamando quanto gli spetta di diritto: l’intera città. La tela di inganni tessuta per anni si concretizza in un delitto che sancisce l’ascesa allo scranno più alto. Ma il passato del personaggio sino a quel momento è un buco nero, un abisso da cui sorge un uomo dalla volontà di acciaio.

A rischiarare quel passato arriva in una prima battuta D.G. Chichester, che in Daredevil #300 del gennaio 1992 ci parla del primo omicidio di Wilson Fisk. In un flashback dai toni seppia, Lee Weeks ci mostra un ragazzino alla prese con un tentativo di incendio doloso. Sorpreso dal custode della fabbrica, il giovane Fisk per errore provoca una deflagrazione che investe in pieno il malcapitato. Le mani grassocce e ustionate dalle fiamme vengono bagnate nei rivoli di acqua che attraversano le strade di Manhattan: Fisk lava le sue mani lorde di sangue, giustificando il delitto: è per il bene dei suoi genitori.

Bisogna poi aspettare il 2003 per una nuova storia dedicata al passato del re del crimine. Ci pensano Bruce Jones, Sean Phillips e Klaus Janson, in una miniserie di sette numeri, Wilson Fisk: Kinpgin. Lo sceneggiatore decide di non intrecciare la giovinezza di Fisk al Diavolo, ma al Ragno: Peter Parker è messo alle strette dai macchiavellici piani orditi dal nascente signore del crimine. La storia scorre veloce, inseguendo i repentini scarti della mente criminale di Fisk: un noir dall’eccellente scrittura e reso dal tratto sgraziato, tagliente e pulp di Phillips, qua ancora più duro grazie agli inchiostri di Klaus Janson e dalle scelte cromatiche di Lee Loughridge. Le apparizioni del Tessiragnatele stridono e introducono un elemento perturbante in una trama fatta di sani e poderosi cliché di genere: gang di strada, mafiosi italo-americani, politici corrotti, donne dalla smaccata sensualità senza alcuno scrupolo, ragazzacci dal fascino dannato che si muovono tra i vicoli più malfamati e le attrazioni di Coney Island. Il sgargiante costume del giovane Peter Parker sembra quasi metterlo in ridicolo dinanzi all’essenziale e anacoretica tenuta di strada di Fisk, qui ancora un furioso picchiatore dalla mani sporche di sangue, pronto a farsi testimone di una missione quasi evangelica. Non è un caso che Jones ambienti l’atto finale in una chiesa, con un Fisk che arringa dall’alto di un pulpito alla vecchia guarda imperiale, ormai ridotta a carne da macello.

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Vincent D’Onofrio, il Kingpin televisivo

Il Kingpin di Jones è in linea con la personalità ritratta da Vincent D’Onofrio nella serie Netflix dedicata al Diavolo Rosso: dietro un’apparente maschera di placido raccoglimento da filantropo, l’attore agita l’ombra del vuoto: un vuoto morale – sebbene in esso vi si agitino germi e lacerti di umanità – ma paradossalmente denso di volontà e voluttà. Nel quarto episodio della prima serie, D’Onofrio ci regala un saggio di questa dicotomia nella scena dell’omicidio di Anatoly. Sotto lo sguardo indifferente di Wisley, il boss uccide a mani nude un uomo, rendendolo una poltiglia sanguinolenta. Nel corso della serie, D’Onofrio tocca le varie sfaccettature dell’uomo dietro la maschera: alternando momenti di iperbolica megalomania, di tenera e problematica debolezza, ma soprattutto di cieca ferocia. La resa per il piccolo schermo capitalizza la lezione di Miller, ma la aggiorna eliminando la patina vintage a favore di una caratterizzazione ancora più oscura, in linea con l’interpretazione data da Brian Michael Bendis e Alex Maleev nel loro fortunato ciclo di Daredevil.

Nella conclusione di Hardcore (Daredevil vol. 2 #50) i due autori mettono in scena l’ennesimo scontro tra Wilson Fisk e Matthew Murdock: la soluzione è sconvolgente. Un Fisk ormai lontano dalla caricatura abominevole degli anni Sessanta/Ottanta combatte a mani nude con Daredevil, sancendo l’indissolubile legame che li unisce: entrambi vogliono Hell’s Kitchen. Ma stavolta Matt è stanco, logorato da anni di scontri, di macchinazioni, sotterfugi e rinascite. Dopo averlo pestato sino a ridurlo in fin di vita, un Murdock privo di maschera reclama quanto gli spetta: il trono di Hell’s Kitchen. Valica il limite e usa la stessa arma della sua storica nemesi: il terrore.

Matt e Wilson vogliono la medesima cosa da sempre, sin da quando le loro strade apparentemente distanti, ma parallele, si sono incrociate: entrambi vogliono piegare la città alla loro idea di perfezione. Il primo in un disperato tentativo di redenzione che passa paradossalmente attraverso un regime di costante violenza, il secondo in un continuo e certosino di accentramento intorno alla figura di un regnante, di un tremendo Moloch, il cui solo nome basta ad incutere timore. Tra i due, il più lucido, realista e lungimirante è proprio Wilson Fisk, totalmente radicato in un mondo che irride la cecità di Murdock.

Wilson Fisk è necessario alla città, come ben sintetizzato in queste parole:

kingpin hardcore

La città ha bisogno di gente come Fisk per funzionare, per far sì che il castello di carte su cui si regge continui a essere stabile e saldo. Matt Murdock è l’anomalia, la tensione morale assopita nel cuore pavido e rinsecchito dell’uomo comune dinanzi all’abbraccio asfissiante del re despota e amante.

Lunga vita al re.

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