Lo sviluppo storico del fumetto non è solo la storia delle sue opere e dei suoi prodotti. Le grandi invenzioni che hanno popolato l’immaginario collettivo, le eccellenze artistiche, i successi commerciali, le vicende editoriali non sono tutto: non bastano a spiegare né cosa il fumetto sia stato ieri e sia oggi, né come lo sia diventato. Per raccontare e comprendere la storia del fumetto è necessario includere almeno un’altra dimensione: le manifestazioni culturali. Fiere, saloni e festival sono infatti – insieme alle opere – la porzione più importante di attività che il fumetto abbia sviluppato all’interno del proprio sistema sociale e industriale.
Il panorama di queste manifestazioni, oggi, è ben altro da quello di oltre cinquanta anni fa, quando i primi eventi del genere si presentarono come una novità pressoché assoluta, dalle conseguenze felicemente dirompenti. L’offerta, oggi, è oceanica e pulviscolare (facile stimare che siano diverse centinaia l’anno nella sola Europa), ma non per questo omogenea ai primi esempi storici, la convention newyorkese Tri-State Con del 1964 e il Salone Internazionale dei Comics del 1965 (come noto a Bordighera, e dal 1966 a Lucca). La formula delle manifestazioni odierne non è più una sola: accanto agli eventi propriamente fieristici prosperano anche numerosi festival, e accanto ad essi proliferano inoltre manifestazioni ibride, a metà strada tra l’una e l’altra tipologia. Una diversità che era e rimane profonda, nasce da visioni spesso molto distanti di cosa il fumetto sia (o possa/debba essere), e prende forma in obiettivi molto differenti. Una differenza fertile, che ha plasmato un campo d‘azione nuovo al cui interno BilBOlbul ha saputo e potuto insediarsi, elaborando una proposta tale da averlo reso una delle manifestazioni culturali più interessanti che il fumetto contemporaneo abbia offerto in Italia e in Europa.
Dall’idea di mostra-mercato all’idea di festival d’arte fumettistica
Sarebbe un guaio sottovalutare l’importanza delle manifestazioni culturali promosse dagli operatori e attivisti del mondo del fumetto, perché la loro influenza è stata – e continua ad essere – davvero profonda.
Nel corso del tempo, e almeno fino agli anni Novanta, la loro capacità di incidere si è espressa attraverso tre grandi modelli: la fiera specializzata in fumetto (il modello più longevo, dal Salone di Lucca alla San Diego Comic-Con delle origini, al Festival di Angoulême), la fiera orientata alla pop culture (ben rappresentata dalla San Diego Comic-Con più matura degli anni Novanta, seguita da eventi come Lucca Comics & Games o New York Comic-Con), la anime convention (la californiana Anime Expo, o la parigina Japan Expo).
Se il primo modello rimane ancorato a un’idea vicina alle consuete fiere del libro – con stand di produttori che offrono vendita diretta (novità e catalogo), stand di librai o collezionisti, e spazi destinati sia agli incontri/dibattiti che alle attività trade – gli altri due sono meta-contenitori non solo di più contenuti (fumetto, cinema, tv, giochi, videogames…) ma anche di diverse forme di evento: fiere per la vendita/acquisto dei prodotti, ma anche luoghi di “esperienze” per il pubblico che vanno dal consumo collettivo – giocare, provare nuovi games – allo show – assistere a performance – alla semplice relazione di fidelizzazione (al marchio o all’autore che sia: anteprime, promozioni, firmacopie, q&a…).
Le prime fiere specializzate in fumetto, per la verità, pur mettendo al centro la compravendita di prodotti editoriali, avevano ingredienti ulteriori: qualche mostra e, in alcuni casi, un premio. Non sembrino dettagli: prima dell’avvento di queste fiere, si trattava di attività pressoché inesistenti per il mondo del fumetto. Senza entrare ulteriormente nella ricostruzione storica, basti dunque prendere atto delle implicazioni progettuali di questo mix: le “fiere di fumetto” nascono già dotate – soprattutto quelle in Europa – di attività che svolgono compiti di promozione culturale, che vanno al di là del solo ambito mercantile della compravendita. E perché? Per una ragione su tutte: colmare la carenza di attenzione culturale che il fumetto subiva da sempre, sottovalutato quando non snobbato (o persino vilipeso) dalle istituzioni educative e politiche, così come dai mondi del giornalismo, della critica, delle arti.
Le manifestazioni culturali del fumetto nascono, potremmo dunque dire, come “fiere spurie” il cui obiettivo è sia di offrire un servizio di mercato, ovvero un ulteriore e utile canale di vendita (basti pensare a un aspetto come la reperibilità degli arretrati), sia di sostenere attraverso il contatto e lo scambio una comunità – quella che a lungo è stata chiamata il fandom fumettistico. Riunita in occasioni molto rare, questa comunità fece di tali manifestazioni il terreno ideale per dispiegare uno spirito celebrativo fondato non solo sul consumo ma – “secondo il modello dei campi della cultura alta”, come scrisse Luc Boltanski nel 1975 – sulla valorizzazione estetica e culturale.
Non è un caso, allora, che il Salone di Lucca – con i suoi Premi, i suoi convegni accademici, le sue esposizioni da galleria – sia stato a lungo percepito dai media e da molti intellettuali da un lato come un’idea bizzarra, una sorta di emulazione dei più ‘seri’ eventi intorno a cinema e libri, ma dall’altro anche come un luogo di vera e propria promozione culturale per un settore considerato marginale, eppure in grado di esprimere riflessione, stile, autorialità.
Il racconto fatto da “Life magazine” nel 1965, sotto la copertina disegnata da Al Capp, “inviato” al Salone di Bordighera, ne rimane una delle più memorabili testimonianze: il fumetto fece notizia, superando la sua abituale marginalità mediatica, grazie al racconto della insolita “qualità culturale” e intellettuale promossa dalla manifestazione italiana. Il ruolo che questa e altre fiere hanno perciò avuto, nella lunga stagione dagli anni Sessanta ai Novanta, è stato quello di svolgere una funzione attiva, sia interna al settore (attraverso l’opportunità di incontri e scambi tra editori, autori, lettori, intellettuali; e grazie alla autocelebrazione garantita dai premi), sia esterna, ovvero di comunicazione per il fumetto nei confronti della più ampia percezione dei media e del pubblico.
Il modello “fieristico spurio” che si è imposto ha avuto una vita lunga e felice. Una volta insediato e stabilizzato, in Italia diciamo dai tardi anni Settanta in poi, ha persino preso l’abitudine di esplicitare questa sua condizione spuria, con la diffusione dell’etichetta “mostra mercato” con cui tante manifestazioni si sono presentate. L’idea che una manifestazione sul fumetto potesse avere questa doppia identità – mercato e, al contempo, occasione espositiva – ha a lungo portato con sé quel desiderio e, per certi versi, quella missione di evangelizzazione culturale che è tipica del fandom in ogni campo.
Negli anni Novanta quel modello ha trovato una nuova incarnazione nelle anime convention, fiere cui va riconosciuto il merito di avere fatto da avamposto della globalizzazione. Permettendo la diffusione di contenuti giapponesi in anni precedenti Internet, esse hanno aiutato ad alimentare il ciclo della cosiddetta “seconda invasione” degli anime mettendo a contatto gli appassionati occidentali con manga mai circolati prima, e cementando la comunità degli otaku la cui onda d‘urto si sarebbe poi tradotta in quella contaminazione Oriente/Occidente che ha dato tanti splendidi risultati (anche) nel fumetto degli ultimi vent’anni.
L’evoluzione degli anni Novanta, in Italia essenzialmente legata alla “rifondazione” avvenuta nella città toscana con Lucca Comics & Games, ha portato a estendere il modello fieristico a un territorio più ampio, fatto di media e contenuti contigui. Lo spirito di promozione culturale si è inoltre esteso alla più ampia frontiera della “cultura nerd”, macro-bacino di sottoculture immerse in analoghi processi di marginalizzazione culturale. Il risultato è stato però quello di spingere queste manifestazioni verso una identità sempre più consumistica. Felicemente consumista, potremmo dire, considerato che con gli anni Novanta la consumerizzazione della società è diventata un dato ineludibile e, in barba agli intellettuali tardo-francofortesi, anche una vera e propria naturalizzazione che ha spento molte preoccupazioni critiche, svuotandole di senso. Il modello della “fiera pop”, ben incarnato dal legame sempre più stringente tra San Diego Comic-Con e Hollywood, si è quindi esteso diluendo almeno in parte la missione culturale delle fiere, impegnate ad offrire “esperienze pop” intense e festive, più che una piattaforma di promozione culturale.
Ma come sempre accade quando una formula costituisce un nuovo standard, l’innovazione prosegue e cerca nuove vie per modificare il panorama. Nel campo delle manifestazioni culturali dedicate al fumetto, è quel che è accaduto tra gli anni Novanta e Duemila con l’emergere di un modello propriamente “festivaliero”. La crescita di questo nuovo modello è avvenuta all’incrocio, potremmo dire, di tre spinte, insieme culturali e generazionali.
La prima riguarda il boom che negli anni Novanta ha vissuto l’editoria indipendente, un nuovo insieme di operatori accomunati da una visione alternativa al mainstream editoriale che si esprimeva anche attraverso l’attenzione a circuiti di diffusione diversi da quelli tradizionali (in Italia, le edicole). La seconda riguarda l’emergere di una frattura culturale tra gli autori, sempre più interessati a creare – e comunicare – opere prive dei consueti vincoli tematici e di formato imposti dal mercato, e per questo spesso orientati a esprimersi in forme lunghe e non seriali (spesso incentrate sull’autofiction) che hanno rafforzato la formula del graphic novel, segmento ormai noto grazie ai successi seminali dei tardi anni Ottanta (Maus, Watchmen, eccetera). La terza, infine, chiamava in causa il crescente desiderio, in primis da parte di una nuova generazione di autori, di affermare il fumetto non solo – o meglio, ancora più nettamente – come veicolo culturale, bensì come vera e propria forma d’arte, sottolineandone il dialogo con le più diverse discipline espressive e valorizzando la centralità dei “disegni originali” al di là della mera funzione affettiva, ovvero come opera intrinsecamente artistica, e per questo meritevole di un’attenzione (fatta di soluzioni espositive ed esperienze fruitive) analoga a quelle delle Belle Arti.
La rilevanza delle mostre, in questa visione, diventa assoluta, la chiave di volta intorno a cui progettare un nuovo genere di manifestazione culturale. Da un lato questo è visibile già nel più importante e complesso caso del Festival di Angoulême, che già negli anni Novanta fa delle mostre uno strumento strategico, assegnando ad esse budget primari, gestendole con particolare cura per gli aspetti di allestimento o curatela, e attribuendo loro un valore intrinseco che rivaleggia – anche e soprattutto nella comunicazione – con quello destinato al pur vasto e cruciale approccio fieristico, che costituisce il cuore del suo modello di business. Ma è altrove che questo modello, che potremmo per praticità chiamare “festival d‘arte fumettistica”, trova modo di sviluppare tutte le proprie potenzialità. L’esempio più noto è certamente quello di Lucerna, dove già nel 1992 il modello è chiaro: l’offerta della manifestazione è incentrata sulle mostre, intorno a cui ruotano alcuni dibattiti e un concorso tematico per esordienti. Questa nuova formula si impone lentamente, ma con costanza, e dà vita a numerosi nuovi festival. In Europa vale la pena almeno citare BD à Bastia (Bastia, dal 1994), Rendez-vous de la bande dessinée (Amiens, dal 1996), Périscopages (Rennes, 2001-2011), Comica (Londra, dal 2003), Rencontres du neuvième art (Aix-en-Provence, dal 2004), Boomfest (San Pietroburgo, dal 2007), Strasbulles (Strasburgo, dal 2008) e in Italia BilBOlbul (Bologna, dal 2007) e il Treviso Comic Book Festival (Treviso, dal 2009).
L’identità di questa tipologia di manifestazioni è molto spesso legata alla scena delle produzioni indipendenti, o al fenomeno del graphic novel. Ma più che nel clima simbolico di un ricambio generazionale, la loro proposta affonda in una duplice rivoluzione nell’offerta: l’assenza degli stand destinati alla compravendita, o la loro netta marginalizzazione, e la particolare enfasi per le esposizioni.
Se la riduzione o sparizione degli stand risponde alla strategia di assegnare minore spazio alle dinamiche più “consumistiche”, la produzione di un’ampia offerta di mostre porta con sé un affinamento delle scelte culturali e delle professionalità impiegate. Il baricentro della direzione dell’evento si sposta dalla logistica alla programmazione, e il risultato è una proposta spesso di “festival diffuso” in vari luoghi urbani che mette in gioco nuovi processi: il lavoro sui delicati equilibri fra location e contenuti; lo scouting intenso, e per questo quasi inevitabilmente internazionale; la ricerca e valutazione delle persone e figure giuste da affiancare; l’elaborazione di spunti di discussione interessanti e non abusati; l’opportunità di mescolare esperienze e profili (professionali o culturali) differenti.
Il cambiamento è profondo e gravido di conseguenze, perché se a cambiare sono il modello di business e le competenze professionali, altrettanto accade alle preoccupazioni e agli obiettivi, alle relazioni con i partner e a quelle con il pubblico. Non è dunque un caso che tra questi festival siano nate, col tempo, delle vere e proprie reti di collaborazione e scambio con cui gli organizzatori alimentano un circuito che potremmo persino descrivere come parallelo – sebbene senza particolari conflitti, e talvolta in aperta cooperazione – rispetto a quello dei maggiori eventi fieristici.
Le conseguenze del “fare festival”
L’affermazione di questo modello ha avuto degli effetti importanti e certamente molto positivi. Non solo perché ha contribuito a cementare e nutrire una “biodiversità” nella cultura del fumetto. Una diversità che oggi permette di riconoscere più che in passato la presenza di correnti dominanti, fenomeni di nicchia e proposte propriamente alternative che hanno generato – in linea con quanto accaduto, naturalmente, in altri campi della cultura – una intensa dialettica tra mainstream e indipendenti. Ma l’influenza dei “festival d’arte fumettistica” – di cui BilBOlbul è oggi il principale rappresentante in Italia – risiede soprattutto nel rafforzare la relazione tra il fumetto e quei settori della cultura il cui centro d’interesse è la qualità espressiva prima ancora che il successo commerciale, il radicamento sociale prima che la mera evasione, il dialogo fra le arti più che l’isolamento in una macro-nicchia specialistica.
Il mondo del fumetto, inteso come ambiente fatto dai suoi attori quanto dal suo pubblico e, più in generale, dal sistema delle agenzie sociali e culturali che si trovano a intersecarlo (scuole, amministrazioni pubbliche, famiglie, aziende, organizzazioni sanitarie, istituzioni culturali…), ha recuperato molto terreno, negli ultimi venti anni almeno, sul fronte della marginalità sociale che lo aveva relegato al rango di ‘sottocultura’ nel corso della Storia. Tuttavia, il contributo storico delle fiere – quelle spurie come quelle pop – ha probabilmente raggiunto i suoi obiettivi al punto da non essere più in grado, oggi, di incidere là dove le logiche del mercato e della promozione della “cultura nerd” hanno già dispiegato le loro energie trasformative. Grazie anche alla voce da loro rappresentata, il fumetto è oggi vissuto e percepito come un mercato vasto e articolato, una forma culturale degna, un consumo legittimo e non diseducativo, una esperienza complessa.
Quel che i “festival d’arte fumettistica” hanno fatto e continueranno a fare, invece, è andare a stimolare territori più avanzati sul piano simbolico, o più reticenti per la loro storia, ideologia o indole. Penso in particolare al mondo dell’arte, che in essi ha trovato una sponda di confronto e collaborazione grazie ad attività espositive numerose, diversificate, eclettiche. La qualità di tante mostre festivaliere mi pare ormai manifesta, e su più fronti: la produzione di performance uniche e originali (si pensi al successo delle varie forme di disegno dal vivo), la realizzazione di interventi site-specific (tra i quali, limitadondoci al caso di BilBOlbul, possiamo citare Monarch di Akab, nel 2014, e Cinema Zenith di Andrea Bruno, nel 2015, dove l’esposizione di originali viene sostituita da disegni, video e suoni in grado di estendere e prolungare le idee e lo stile del proprio lavoro fumettistico), lo scambio intellettuale e critico fra diverse esperienze disciplinari o professionali (l’idea di discutere i confini e i problemi di scrittura, narrazione, disegno, rappresentazione tra fumettisti, scrittori, videomaker, artisti).
La spinta preziosa verso l’interdisciplinarietà ha generato conseguenze molto concrete, come collaborazioni tra fumettisti e artisti di altri campi, in giro per il mondo – e in questo senso ai festival va riconosciuto il ruolo di essere luoghi di incontro e scoperta in grado di stimolare gli artisti stessi. Ma l’influenza del modello festivaliero va ancora oltre. Per esempio, una delle leve più incisive per manifestazioni come BilBOlbul è anche la capacità di fare pedagogia del fumetto là dove le istituzioni educative tradizionali faticano ancora molto ad offrire programmi, esperienze, esercizi. E la centralità di questa azione si riflette anche nelle capacità che i festival hanno già palesato – e continueranno a palesare – nei confronti della promozione del territorio, mettendo da un lato a fuoco un’identità del luogo (e su questo BilBOlbul ha già svolto uno straordinario servizio a Bologna, con interventi monografici su Magnus e tanti altri protagonisti) e, dall’altro, facendo sistema tra le energie culturali presenti nella propria città, riuscendo a fare del “festival diffuso” una occasione al contempo di marketing urbano e di motivazione per gli abitanti (e i turisti).
La sfida per BilBOlbul, come per tutti i più dinamici e ambiziosi festival d’arte fumettistica, resta dunque quella della regia culturale. Non solo presentare novità e parlarci sopra, ma fare dialogare e incontrare persone anche sconosciute tra loro – fumettisti, artisti, critici, editori – provando a mescolare con cura le carte, e non giocando sempre la stessa partita. La capacità di influenza, per un festival, si rinnova insieme alla sua capacità di leggere non solo un settore ma, semmai, i confini in costante mutamento del rapporto fra questo settore e “il resto”. “Fare festival”, in questo senso, significa inevitabilmente fare ricerca, producendo riflessione e il più misterioso fra gli ingredienti dell’influenza: ispirazione.
Questo articolo è originariamente pubblicato sulla rivista “Hamelin. Storia figure pedagogia”, n.42.