La Cina sta crescendo e si sta trasformando. Con una velocità che non capiamo, se non altro perché siamo troppo lontani culturalmente ma anche e soprattutto geograficamente. Uno dei settori che non ci immaginiamo è quello dell’intrattenimento. La Cina sta costruendo la sua industria culturale: film, telefilm, sceneggiati, teatro, libri. E, all’interno di questa trasformazione, c’è anche la fantascienza.
Ora, la fantascienza cinese non solo sta crescendo molto velocemente, ma è anche abbastanza conosciuta fuori confine. Abbastanza vuol dire poco poco, ma comunque molto. Non siamo ai livelli della fantascienza polacca e sovietica, per indicare pezzi di un mondo oltrecortina dal quale sono usciti ad esempio Stanislaw Lem, i fratelli Arkadi o Boris Strugatski e altri, dal dopoguerra in avanti. (Una piccola nota: l’Europa dell’Est è sempre presente in un modo o in un altro, almeno perché nel melting pot americano è molto rappresentata, e ha giocato ruoli significativi nell’industria del cinema ma anche nella letteratura in generale e nella fantascienza in particolare). Ma è pur sempre conosciuta e un po’ tradotta, almeno in inglese.
Quest’anno ha vinto il Premio Hugo, uno dei più prestigiosi riconoscimenti nordamericani, per il racconto breve lo scrittore cinese Hao Jingfang, dopo che qualche anno prima il fenomeno Cina è esploso con The Three-Body Problem di Liu Cixin. Di quest’ultimo è in produzione il film, che arriverà nelle sale l’anno prossimo.
In Italia una mossa molto interessante è stata fatta da Urania, la storica testata di fantascienza mondadoriana, che nel numero 1511 del 2006 ha pubblicato l’antologia curata da Wu Digbo e Patrick D. Murphy L’onda misteriosa (traduzione di traduzione, perché originariamente prodotta negli Stati Uniti). Se lo ritrovate su ebay vale la pena: alcuni racconti sono notevoli.
La fantascienza cinese dunque c’è, si integra con il resto del settore e produce anche film e serie televisive. Riviste e libri. Fumetti e tutto il resto. Ma l’illustrazione? La parte “visual” di quell’immaginario?
La Cina, presenza dimenticata della sci-fi internazionale
Una breve premessa sul nostro sguardo di occidentali. Quando parliamo di Asia e di immaginari asiatici tendiamo a sfocare le distanze e i confini. Immaginare unità dove c’è differenza, tensione dove c’è morbidezza, spontaneità dove c’è struttura. Negli anni il nostro immaginario cinematografico e visivo è stato sommerso di “cinesate” che spesso erano invece altre cose. Si parte dall’estetica e dall’immaginario dei mondi fluttuanti giapponesi, che arrivano a cavallo tra Ottocento e Novecento reimpostando il nostro modo di guardare l’Oriente. Prima dell’Ukiyo-e erano la porcellana decorata e i vasi Ming ad avere il monopolio grazie alle colonie e allo sfruttamento delle nazioni europee. “China” in inglese vuol dire porcellana e “chinoiserie” in francese era il modo per descrivere l’esotismo orientale, un gusto estetico antico e differente.
Nella fantascienza, che ha reso visivo il suo immaginario con riferimento all’Asia solo negli ultimi decenni, si sono sovrapposte aree e immagini diverse. Soprattutto il Giappone. La fantascienza di Blade Runner immaginata da Ridley Scott è infatti a cavallo tra Giappone e Cina, una specie di Hong Kong postapocalittica (il regista avrebbe voluto girare proprio a HK). Decenni di televisione giapponese – da Godzilla in giù, Power Rangers inclusi – hanno spostato il baricentro nettamente verso le isole della dea Yamatai; così i manga e gli anime hanno ridefinito, con il design preciso e puntuale degli oggetti per definizione propri della fantascienza, l’estetica e il modo con il quale sognare.
Ad esempio gli insetti, ossessione vivente per samurai e mangaka, sono diventati le corazze dei guerrieri medioevali e poi le corazze dei robot giganti. È l’ur-immagine della fantascienza giapponese, a cavallo tra Mazinger e Astro Boy. Ogni paese poi, Italia compresa, ha assorbito queste differenti generazioni di immaginari e stili di rappresentazione della fantascienza in momenti diversi, aggiungendo strati (e confusione) a strati (e confusione) già pre-esistenti.
La Cina è rimasta schiacciata, come la Corea del Sud e altri paesi dell’Estremo Oriente e dell’area Asia-Pacifico. Però il peso e la potenza economica, culturale e sociale non potevano rimanere schiacciati per sempre. All’interno di una evoluzione feroce e rapidissima, che in una generazione e mezzo ha visto tassi di crescita economica del 10% e più, la Cina post-capitalista non ha trascurato l’aspetto culturale, la dimensione degli immaginari. E ha lasciato fiorire una fantascienza che rivisita molti dei canoni occidentali e, soprattutto, allontana il boccino dalle temute mani americane. È una cosa, quest’ultima, che sta accadendo trasversalmente in tutta l’industria culturale cinese: non vuole essere colonia americana perché capisce molto bene il potere che hanno gli immaginari di plasmare le menti.
Così il viaggio secolare della fantascienza cinese, iniziato più di un secolo fa e rimasto carsico per gli occhi occidentali, è ridiventato mainstream in tempi più vicini a noi. Strumento per popolarizzare le scoperte scientifiche, in maniera ancora più pedagogica e “scoperta” rispetto alla fantascienza americana a cavallo tra le due guerre, la fantascienza cinese degli anni Sessanta, Settanta e soprattutto Ottanta (il decennio del “picco” di produttività recente) è stata comunque una forza popolare e diffusa. Dopotutto, come diceva lo scrittore americano Theodore Strugeon, a parte la poesia è la fantascienza la forma di espressione letteraria senza limiti né parametri da rispettare.
Lo sguardo cinese nella fantascienza (disegnata)
La strutturazione del mercato diventa interessante in tempi più vicini. Mentre in Europa e negli Usa imperversa il cyberpunk, in Cina invece si ridefiniscono gli immaginari di base. Nasce il premio “Galaxy”, l’equivalente dell’Hugo americano. La fantascienza cinese comincia a investigare sempre più il rapporto tra scienza e umanità, tra tecnologia ed esseri umani. Il regime comunista lascia libera questa dimensione che in realtà aveva sempre tenuto vicino a sé, a partire dai racconti della magnifiche e progressive sorti della Cina rossa.
Soprattutto perché lo sguardo è orientato sempre alla Cina stessa. Racconti su come sarà la Pechino del futuro, invasioni di alieni dallo spazio che mirano alla Cina e non ad altri, esplorazioni interstellari in cui l’equipaggio dell’astronave è cinese, sia da un punto di vista culturale che identitario. La fantascienza anche come percorso escapista, per fuggire uno scenario di vita meno brillante e ricco di quello dell’Occidente. Ma la fantascienza come strumento per rafforzare la propria identità rendendola sempre più tridimensionale. In che senso? C’è una osservazione da fare, per chi pensa che la Cina debba essere “scoperta” da noialtri.
Attenzione: la Cina non è mai stata culturalmente isolata, ma semplicemente chiusa per ‘scelta’. È una costante dell’Impero di Mezzo, che aveva scoperto e poi scelto di dimenticare l’Europa varie volte, nel corso della sua storia. Isolazionismo come quello peraltro perseguito anche negli Stati Uniti (che il presidente Monroe aveva riassunto nella sua dottrina: “L’America agli americani”). Anche la Cina comunista è stata tale: non era e non è mai stata la Germania dell’Est, i cui giovani si ritrovavano sotto il Muro di Berlino per comprare dischi e jeans provenienti direttamente dal sogno americano. I giovani cinesi hanno sempre seguito percorsi molto più personali, lontani dall’affabulazione occidentale. Hanno ben chiaro cosa sia il mondo ma lo assorbono con i propri parametri: dopotutto la diaspora cinese è la più antica, lunga e popolosa al mondo. Ed è bidirezionale; dalla Cina i giovani escono e alla Cina molti giovani tornano: dall’Europa, dall’America, dall’Africa e da tutto il resto.
Cosa succede invece all’illustrazione cinese? Qui c’è una brutta sorpresa: essa diventa rapidamente banale. Qui sta il vero dramma. Scorrendo le copertine dei romanzi e dei numeri delle riviste come “Science Fiction World” pubblicate negli ultimi anni, si ritrova un gusto un po’ banale per l’illustrazione americana anni Settanta e Ottanta. Ci sono fughe in avanti, certo: c’è il gusto per computer grafica e immagini meno “nostre” rispetto a quelle a cui siamo abituati, ma non c’è sicuramente una via cinese all’illustrazione della fantascienza. L’immaginario visivo, quello sì, è stato completamente colonizzato dagli americani.
Anche il gusto asiatico, mezzo sovietico e mezzo cinese per l’illustrazione rivoluzionaria – che ha un sapore post-fascista legato a stilemi ben conosciuti anche in Italia – è tenuto lontano. Non ci sono concessioni all’Asia ma piuttosto costanti richiami all’occidente ad esempio nella rivista SFW di cui sopra (il nome stesso della rivista è in inglese, e scritto con l’alfabeto latino, tutto il resto è in cinese).
Dalle copertine di SFW occhieggiano immagini di donne occidentali, scenari extraterrestri che richiamano il mondo dell’illustrazione classica della fantascienza nordamericana, ma ci sono anche concessioni allo stile francese delle copertine di narrativa sci-fi, gli ovvi riferimenti ai manga e allo stile dell’illustrazione fantastica giapponese, alla ricerca di una identità altra, forse panasiatica e in parte occidentale, rispetto a quella immaginata in patria. La lontananza dai più comuni canoni occidentali dei testi diventa banalità nell’illustrazione. Anche perché fa da apripista per il cinema di fantascienza cinese. Che sta arrivando, certo, e quello sì che ci travolgerà.
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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio. Il suo canale Telegram si chiama: Mostly, I Write.