HomeBonelliDopo un lungo silenzio: il rumore bianco di Tiziano Sclavi

Dopo un lungo silenzio: il rumore bianco di Tiziano Sclavi

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L’albo numero 362 di Dylan Dog segna il ritorno del creatore del personaggio, Tiziano Sclavi, dopo ben nove anni di silenzio (il precedente episodio firmato da Sclavi è stato il numero 250, del luglio 2007). Un rientro atteso e fortemente pubblicizzato, che partecipa in grande stile alle celebrazioni del trentennale, e che viene comunicato attraverso un albo dal grande impatto iconico.

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Non è certamente la prima volta che viene adottata una cover total white per un albo a fumetti. Nel mercato commercialmente più evoluto e più propenso a soluzioni non convenzionali come quello USA, la cover bianca (di norma adottata come variant) è una prassi ormai consolidata per le uscite più appetibili e svolge anche un gradito fan service durante le fiere, fornendo la superficie ideale per le dediche degli autori (e l’uscita di questo albo in concomitanza con Lucca comics è una coincidenza che fatichiamo a considerare casuale). La tradizione italiana e bonelliana non ha mai visto con particolare interesse questa forma di promozione ma, come abbiamo visto, le cose sembrano essere cambiate negli ultimi tempi. Inoltre, la copertina all white assume in questo caso un valore più profondo, più raffinato nella modalità di comunicazione e connesso strettamente al contenuto dell’albo.

Mai come in quest’occasione il bianco è lo sfondo più adatto per risaltare l’annuncio dell’albo, che si riassume nel nome del suo Autore. Con una decisa mossa di advertising, degna di Bill Bernbach per la celebre campagna sul Maggiolino, il messaggio è già tutto nella copertina: il logo del personaggio e del trentennale, il claim “SCRITTO DA TIZIANO SCLAVI” che campeggia su una pagina completamente vuota, il cui titolo stesso Dopo un lungo silenzio non lascia adito a dubbi. Il concetto ritorna nelle pagine interne: redazionali e frontespizio, spazi editoriali solitamente dedicati agli arretrati o alle immagini, sono anch’essi lasciati in bianco, con una mossa ironica e provocatoria che attira lo sguardo e costruisce l’ambiente ideale per la comunicazione: lo spazio vuoto necessario a far riecheggiare il Grande Nome. Il solo nome – la sola parola – che interessa pronunciare. Se il medium è il messaggio, qui non si può sbagliare: con un’enfasi e una chiarezza rare, la ‘firma’ Tiziano Sclavi è tutto ciò che serve capire. Un Autore pronto a esprimere se stesso e ingaggiare il consumatore/lettore con la forza della propria Autorevolezza.

Se anche chi scrive si limitasse ad aderire a questo patto comunicativo, la tentazione sarebbe quella di chiudere già qui, lasciando il resto – la recensione – completamente bianco. Per sottolineare l’unicità dell’operazione. Per non sbagliare niente. Per non prendersela con nessuno. Ma dopo un lungo silenzio, si sa, reincontrarsi non è più un’occasione per ritornare sulle ragioni di quella assenza, bensì un momento per soffermarsi – un po’ malinconicamente – su ciò che la mancanza, il vuoto, ha portato con sé.

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Parte 1: Non è successo quasi niente

In realtà, il bianco della copertina porta in sé altri significati non meno importanti. Prima di tutto rappresenta un ideale passaggio di testimone tra il copertinista ‘storico’ della serie, Angelo Stano, e il nuovo entrante Gigi Cavenago – fresco di prova grafica notevole in Mater Dolorosa – che esordirà dal prossimo numero. Stano, che ha firmato ogni cover della testata sin dal n. 42 del mensile (La iena, marzo 1990), per tacere degli albi fuori-serie, ha segnato fortemente lo stile del personaggio con il suo tratto metafisico e colto, debitore dell’espressionismo di Egon Schiele. La sua stessa assenza, in questo albo, è perfettamente in linea con il tema dell’episodio.

La copertina è anche una citazione evidente del più autobiografico romanzo di Tiziano Sclavi, quel Non è successo niente che nel 1998 segnò la (quasi) conclusione della carriera letteraria dell’autore, fatta eccezione per il successivo e meno ambizioso Il tornado di Valle Scuropasso, thriller ufologico e psichedelico del 2006. La storia raccontata in questo episodio potrebbe tranquillamente essere un capitolo o una continuazione di quel romanzo, nel quale l’autore Sclavi si esprimeva narrativamente in tre diverse personalità: lo scrittore di successo Tiz, il depresso alcolista e autodistruttivo Tom, l’equilibrato ma privo di ispirazione creativa Cohan.

Ritroviamo le tre anime dell’autore quasi intatte anche nel protagonista di questa storia: il Dylan Dog innamorato e perfetto delle prime pagine, che non perde occasione di dare prova delle proprie doti amatorie con la ragazza di turno, ma cede alla tentazione di bere un bicchiere di amarone e precipita così nell’abisso dell’alcolismo. Non bastano le preoccupazioni dell’amico Groucho (anche lui poco ispirato nelle battute) e nemmeno il cattivo esempio del cliente dell’episodio, l’alcolista Owen Travers, vedovo e fallito senza speranza di salvezza. La discesa nell’alcolismo di Dylan Dog è implacabile e degna di una Pubblicità Progresso, con tanto di didascalie esplicative per i giovani lettori: Dylan rischia un grave incidente in auto, fa cilecca con la fidanzata, rifiuta l’aiuto di chi gli sta vicino, non vuole più vedere nessuno perché si vergogna di se stesso; precipita insomma in una spirale di autodistruzione da cui riesce a uscire solo grazie al supporto degli Alcolisti Anonimi.

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Il messaggio dell’autore, dunque, si presenta forte e chiaro. La sua vicenda personale, che riecheggia evidentemente nel percorso negativo (e nella successiva redenzione) del personaggio, si fa portatrice di una campagna contro l’abuso di alcolici, con una linearità e una prevedibilità tipica di certi prodotti televisivi contemporanei. Non c’è l’effetto choc, ma nemmeno un approccio più critico all’argomento, una volontà di superare le proprie certezze sulla condizione di abusatore di sostanze. Nella malattia di Dylan non si intravede il tentativo di andare oltre il tema dell’alcolismo per ricavarne una riflessione universale. Il messaggio personale dell’autore – la sua esperienza terribile, da cui fortunatamente è uscito sano e salvo – è talmente forte che diventa essa stessa l’orrore da sconfiggere, con tanto di mostro di turno (il delirium tremens visto come l’assalto di un’orda di pipistrelli) fino alla conclusiva, consolante preghiera della serenità. La vittoria di Dylan è così la vittoria del suo autore, destinato a diventare come Cohan: l’anima saggia e sana di Tiziano Sclavi, ferma in un equilibrio senza incertezze, lontana dai rumori del mondo, immersa in una serenità tanto reale quanto opaca, priva di ispirazione.

Parte 2: Storia di Qualcuno

Il bianco della copertina richiama anche un altro tema della storia, quello dei fantasmi. Owen Travers, confortato dalla sua inseparabile bottiglia, rivede di fronte a sé il fantasma della moglie morta mesi prima per un aneurisma cerebrale. Edith – questo il nome della moglie – non lo lascia mai solo, tuttavia non parla, non dice nulla, e questo silenzio rappresenta per Owen Travers un’agonia insopportabile. Non è la prima volta che Sclavi affronta il tema dei morti che non vogliono abbandonare i vivi: in Storia di Nessuno (n. 43, aprile 1990) Dylan si trovava addirittura a vivere nel sogno di un morto. In questo caso, invece, sembra accadere l’opposto. I morti non soltanto non vogliono parlare, ma sembrano esistere solo nelle menti dei vivi che li rimpiangono.

Un rovesciamento della poetica sclaviana che stupisce per il suo realismo, per la sua impronta razionalista così lontana dalla visione poetica e pessimistica del passato (ma era un altro Sclavi). Non sembra esserci più nessuna rappresentazione allegorica dell’orrore, nessuna concessione al soprannaturale, nessun mostro da sconfiggere simbolicamente per arrivare sani e salvi alla fine dell’episodio. Altro che Memorie dell’invisibile: queste memorie di un uomo (fin troppo) visibile sono pagine cariche di concretezza, di un sincero desiderio di smascherare il velo del nostro tempo, così pieno di inganni. A costo di sembrare prevedibile, a costo di uccidere ogni sogno.

L’indagine di Dylan Dog lo porta a concludere che non soltanto il fantasma di Edith non esiste (la medium Trelkovski non riesce a percepirla) ma che tutti i casi riscontrati di fantasmi non sarebbero altro che trappole per ingenui. Il tema – ribadito con un lungo spiegone dal professor Adam, esperto in parapsicologia e alter-ego a fumetti di Massimo Polidoro, segretario nazionale del CICAP – è che non basta dimostrare l’inesistenza di un fenomeno, per smettere di credere in esso. Le fotografie di fantasmi che vengono riprodotte nel corso della storia sono tutte dei falsi dimostrati: la realtà è tanto più falsa quanto più è verosimile. Si può dire che l’intero mondo di Dylan Dog, tutte le credenze da ‘ciarlatano’ che hanno segnato le sue avventure, vengono qui messe in discussione. Neanche i fantasmi esistono realmente né ci sono medium affidabili in grado di riconoscerli, non esiste un dio che possa salvare le nostre anime perdute, e persino l’amore talvolta è un inganno da cui non si riesce a fuggire.

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Sclavi vuole dirci che le illusioni cui ci aggrappiamo continuamente, come il povero Owen Travers si aggrappa alla speranza di rivedere la moglie morta, non sono che dipendenze destinate a portarci alla malattia e all’autodistruzione, come l’alcolismo. Persino la realtà dell’immagine ha smesso di essere affidabile, se anche le fotografie dei fantasmi non sono che fotomontaggi costruiti per ingannarci: dunque, cosa rimane? Lo stesso Dylan Dog, con il mondo che racconta e che Sclavi ha contribuito a creare, viene messo sotto scacco. Non è prevista una via d’uscita da questo cortocircuito. Ecco allora che proprio la pagina bianca della copertina – in contrasto con l’inattendibilità delle fotografie – assume uno statuto di realtà più profondo e veritiero. L’assenza prevale sulle parole, sulle troppe certezze dispensate nel corso delle pagine. Questo silenzio inspiegabile e irrappresentabile sembra essere l’elemento più interessante dell’albo.

Ciò che non riesce a dire il racconto, allora, viene perfettamente espresso in quella copertina di puro advertising eppure, al contempo, di eccellente interpretazione del cuore allegorico dell’episodio. Il bianco del mondo rappresenta iconicamente, meglio di tanti spiegoni e di tante parabole esistenziali, il complesso mistero della salvezza e della fede.

Peccato non trovare anche all’interno del racconto dei “momenti bianchi” che interrompano il tratto dettagliato – e manierista – di Casertano per dare corpo al silenzio del mondo. Un silenzio che viene più volte evocato da Owen Travers e dallo stesso Dylan Dog, incapace di trovare una salvezza in Dio o in qualunque potere superiore che non sia il gruppo degli Alcolisti Anonimi. La voce razionalista dell’autore/personaggio Dylan Dog non riesce a nascondere il silenzio carico di dubbi e di speranza di Owen Travers: la sua ebbra fiducia di riascoltare la moglie morta è un potere più forte della realtà e della salute. Il rumore crudele del mondo non si può allontanare, e l’orrore che racconta non è una ragione sufficiente per smettere di ascoltarlo.

Dopo un lungo silenzio non è un grande racconto di Dylan Dog ma, piuttosto, un grande saluto del suo creatore. Un arrivederci dimesso e un po’ stanco, pacificato e un po’ predicatorio, vestito con un impianto metaforico che lo renderà comprensibile soprattutto ai suoi lettori ‘antichi’. Quelli per i quali Tiziano Sclavi, ormai, non è che un vecchio compagno ormai distante, dal quale è pur sempre un piacere ricevere brevi notizie chiamate “racconti di una serie a fumetti”.

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