Je suis le Ténébreux, – le Veuf, – l’Inconsolé,
Le Prince d’Aquitaine à la Tour abolie :
Ma seule Étoile est morte, – et mon luth constellé
Porte le Soleil noir de la Mélancolie.
Gérard De Nerval, El Desdichado
Alessandro Tota sembra, da qualche tempo, non sbagliare un colpo. Il ladro di libri era e rimane un raro esempio della qualità intrinseca che potrebbe – e dovrebbe – caratterizzare un buon fumetto. Intelligentemente orchestrato a quattro mani con il disegnatore Pierre van Hove, era un fumetto in grado di incantare il lettore, intrappolandolo nell’atto magico del voltar pagina.
Sembrerebbe il minimo da pretendere, per un buon dispositivo narrativo: la capacità di avvincere nella morsa del racconto, soggiogando chi legge alla trama e magari anche a un ‘congegno ad orologeria’, che di lì a poco esploderà nel silenzio del margine. Eppure, guardandosi intorno, si tratta di una dote più che rara. Non è forse un caso che Gipi, con il suo nuovo lavoro, abbia sancito l’esigenza – non solo personale – di ritornare alla pura fiction. Un modo per sottolineare la necessità per il fumetto di smarcarsi dalla routine in cui si era adagiato negli ultimi anni: lasciarsi alle spalle i progetti consolatori, in cui la narrazione diventa autoreferenziale, e tornare a calcare le strade del racconto, del ‘dispositivo’, della buona storia di immaginazione.
Tota, come dicevamo, ha sempre cercato di raccontare storie tout court, e attingendo in maniera diretta all’esperienza personale ha cercato di mediare il racconto di sé con il desiderio affabulatorio. Tra le sue opere passate, Fratelli ne era un esempio lampante, così come il suo ultimo lavoro, Charles, che si pone a metà strada tra il memoir e la pura invenzione, giocando sulla spontaneità e l’immediatezza.
Quanti hanno apprezzato Fratelli, ritroveranno in queste pagine le stesse ambientazioni. Troveranno la Bari dei giardinetti di Largo Adua, del lungomare di Crollalanza e del molo di N’derr La Lanz, delle cancellate di Capogrossi in Piazza Cesare Battisti, dei cavalcavia che superano la ferrovia… Troveranno sicuramente quello spleen tutto meridionale, fatto di indolenza e procrastinazione, in cui il domani si confonde con il mai. Una forma di nichilismo passivo, in cui la progettualità si accartoccia su se stessa mandando a puttane tutto il resto in un brindisi continuo alla vita: rigorosamente sponsorizzata dalle Peroni “sudate” di Zia Maria “La nz’vous”. Ma, soprattutto, ritroveranno quell’umanità fatta di diseredati, accattoni, tossici, adolescenti problematici, consumatori di droghe leggere e miscele alcoliche da discount, da pomeriggi/sere infognate nello sballo da “una-cinque-di-fumo” di pakistano nero che sa di gomma bruciata. In questo piccolo mondo antico, Tota fa rivivere il poeta Charles Baudelaire: un anacronismo o semplicemente un omaggio ai tardi anni Novanta.
Baudelaire sembra appartenere da sempre a questo tessuto sociale, assecondando con piglio hardcore il ritualismo degli indiani urbani. In un misto di francese e italiano, il delirio di Tota si snoda per quadri che mettono a fuoco la dialettica tra passato e presente. Baudelaire da una parte è il correlato oggettivo del conflitto generazionale, dall’altra è l’eccentrico per antonomasia.
Il poeta è un eterno presente: la sua voce fa parte di un corpus e di un immaginario più ampio in cui rientrano i cosiddetti artisti “maledetti”. Baudelaire, Rimbaud e Verlaine diventano compagni di viaggio di adolescenti che si riconoscono nel dramma dell’albatro e nelle liriche dure de Les Fleurs du Mal. Charles, però, non è un santino: non è il vate che sentenzia e pontifica ai margini del piccolo dramma dell’adolescenza. Charles è l’adolescente, il desdichado – per citare Gérard De Nerval – : il diseredato dalla vita. Anch’egli vive ai margini, si confronta con i limiti dell’esistenza e con quei micro-drammi propri dell’adolescenza. Si mimetizza, indossando un chiodo e anfibi alti, si stona fumando hashish e bevendo vodka scadente.
Il Baudelaire di Tota è scosso da una carica simbolica, ma è filologicamente ancorato al personaggio storico. Potremmo quasi sicuramente riconoscere tratti dell’ultimo Baudelaire, quello della scrittura dell’odio che inizia con un’impressionante lettera del Marzo del 1861 e indirizzata alla madre:
Quarant’anni, un Consiglio giudiziario, debiti enormi,e, infine, peggio di tutto la volontà persa, dissipata! Chissà se anche la mente non sia alterata? […] Di tanti piani e progetti accumulati in due o tre cartelle che non oso più aprire, che cosa realizzerò? Forse mai niente…Sono caduto in una sorta di terrore nervoso continuo; sonno spaventoso, risveglio spaventoso; impossibilità di agire…In questa orribile situazione di spirito, di impotenza e di ipocondria, è ritornata l’idea del suicidio […] Tu sei sempre armata per lapidarmi con la folla. Come fai ad esser sempre, per tuo figlio, il contrario di un’amica?
Muore, qualche anno dopo – nel 1867 – mentre si trova in Belgio, colpito da emiplegia e ormai quasi privo dell’uso della parola. Riesce a pronunciare solo una bestemmia – Crénom – sintesi estrema del livore verso il mondo. Eppure, in quel frangete la madre ritorna dal figlio, così come racconta nel capitolo dedicato a Carlotta, una dei personaggi ritratti nel carnet. Baudelaire confessa l’estremo desiderio di concludere la sua esistenza tra le braccia della madre. Le racconta questo, mentre sbriciola una sigaretta per caricare la sua pipa, seduto dinanzi alle forchette di Capogrossi a pochi metri dall’Ateneo Barese, dove ancora le sue opere continuano ad essere lette ed analizzate, ormai addomesticate e storicizzate: le liriche di un pre-simbolista, svendute in edizione economica. La stessa che fa inorridire il Baudelaire in uno degli episodi raccontati da Tota.
Charles si presenta nella fisicità discreta dei vecchi tascabili economici, senza rinunciare alla qualità: la scelta di una carta che simula nella texture la carta porosa dei carnet fa sì che gli acquerelli monocromi dell’autore conservino una forte genuinità. Nel tratto dimesso, eppure volutamente attento a descrivere gli spazi d’azione, si sedimenta l’impulsività del gesto, ma nel contempo la calibrata capacità di seguire tentando una struttura.
Alessandro Tota non persegue una conclusione, anzi vagheggia e perde tempo, sosta e allude, consapevole della boutade che ha messo in piedi: leggera, eppure volutamente profonda. Ancora una volta, però, si dimostra un narratore d’eccezione, capace di colpire il lettore, sussurrando di vite offese ed esistenze mancate, nascondendo dietro una maschera di leggerezza il peso atroce della melanconia.
Charles
di Alessandro Tota
Coconino Press, 2016
86 pagine, 10,00 €