Church bells and now I’m awake
And I guess it must be some kind of holiday
I can’t seem to join in the celebration
But I’ll go to the service
And I’ll go to pray
And I’ll sing the praises of my maker’s name
Like I was as good as she made me
And I wanted her to tell me that she would never wake me
Elliott Smith, Last Call
«La chiesa», raccontava Elliott Smith alla rivista Spin, «mi ha fatto venire una paura terribile dell’inferno. Mi fa ancora una paura boia. Se cresci sotto quella minaccia, è molto difficile dire: ‘Mah, probabilmente non esiste’. Anche se tutti quelli che incontrano ti dicono che non esiste niente del genere…Sarei finito all’inferno per un dettaglio tecnico: perché ci sono cose che non si dovrebbero fare e pare proprio che io non riesca ad evitare di farle» (dal libro Elliott Smith e il grande nulla, Arcana, 2005). E tutto ciò sebbene il cantautore texano avesse ricevuto una formazione mormona, dove l’idea del giudizio divino piomba con verticale volontà sulla testa dell’ignaro fedele, non dissimile da quanto ritenuto in ambito evangelico.
Anche il fumettista Craig Thompson ne ha parlato, e con dovizia di particolari, in Blankets. Sotto la patina rassicurante di una storia d’amore adolescenziale, a tratti caramellosa e stucchevole, l’intento di Thompson era quello di parlare del percorso di “redenzione” del protagonista, del suo scuotersi di dosso il peso di un concetto di colpa asfissiante e, a tratti, paralizzante.
Lo spunto biografico era ben in evidenza, anzi spudoratamente mostrato. Al di là dell’enfasi romantica – qua e là retorica, qua e là pruriginosa – Thompson mostrandosi nudo, in fin dei conti, nonostante la mediazione dell’alter ego fumettistico, ci parlava di sé e sferrava una saccente critica all’imperio oscuro della religione: al gioco massivo della Grazia e della Colpa.
“Leggi la Bibbia ti farà una paura infernale!”
Blankets rappresenta una pietra miliare del genere. Ma per parlare di colpa e di grazia bisognerebbe anche voltarsi indietro. E notare, magari, che un altro autore non solo aveva affrontato temi simili, ma aveva anticipato un po’ tutti parlando per primo di sé e conquistando una sorta primato storico: il primo fumetto autobiografico.
Binky Brown meets the Holy Virgin Mary di Justin Green, pubblicato da Last Gasp Eco Funnies nel 1972, è ad oggi uno dei primi esempi di graphic novel autobiografico. In quell’esile volume di 42 pagine, Green parla dell’infanzia passata a combattere contro il senso di colpa instillato in lui dalla formazione cattolica e, spalancando alle conseguenze, narra le molte reazioni irrazionali e compulsive che ne derivavano. Con dovizia di particolari, Green mostra la lotta tra desiderio e colpa in una serie di tavole che oscillano tra i ghirigoro barocco e uno stile freaky che spopolava tra i tardi Sessanta e i primi Settanta.
Non è difficile pensare subito a Crumb, nonostante la mancanza dell’iperbole. Ma è lo stesso Crumb ad aver affermato che il Binky Brown di Green fu fonte d’ispirazione per il suo lavoro. Se l’autore di Fritz the Cat e Mr. Natural, scaricava le sue ossessioni sessuali, usano un tono grottesco e caricaturale, utile anche e soprattutto a farne motivo di critica alla american-way-of-life, Green riversava con spregiudicata onestà se stesso nella sua opera, senza dover necessariamente caricare e forzare la verità dei fatti, ma descrivendoli nella loro cruda fattualità.
Paradossalmente, Justin Green venne ispirato dalla irriverente arte di Crumb – e ci sono segni inequivocabili di questa influenza: si veda ad esempio la dichiarazione di intenti con cui Green apre le danze – ma per certi versi lo superò, diventando a sua volta un passaggio obbligato e un riferimento per una generazione di fumettisti che si muovevano tra il sottobosco alternativo e le prime forme di fumetto memoriale.
L’originalità e la potenza di Binky Brown è nella capacità di Green di pensare – per la prima volta – il fumetto come spazio per rivelare, attraverso parole e immagini, ciò che di solito è nascosto, omesso e il cui accesso è riservato a pochi intimi. Nelle esplicite immagini Binky Brown, alter ego dell’autore, immagina che ogni oggetto, anche remotamente assimilabile ad un fallo, emetta quello che definisce “raggio penico” (penis rays) che deve evitare di toccare.
Hillary L. Chute, nel suo libro Disaster Drawn: Visual Witness, Comics and Documentary Form, afferma che anche Binky Brown è una diretta espressione del trauma della Guerra in Vietnam. Lo stesso Green ha rivelato che durante il lavoro per Binky Brown suo pensiero ricorrente era proprio il Vietnam:
Tutti quanti sapevano che alla fine qualcuno sarebbe stato ucciso. Un paio di persone che conoscevano furono ferite durante i combattimenti. C’era un sentimento di un scontro reale.
Questa urgenza, secondo la Chute, si rifletteva direttamente su una diffusa urgenza da parte della nuova generazione di fumettisti: raccontare sé stessi. Dice sempre, Green:
Avevo bisogno di condurre la mia guerra. E così ho pensato di parlare di me stesso… ma non volevo presentarmi come un eroe, piuttosto come un semplice individuo. Così, il fumetto era l’unica forma artistica che consentiva con la sua poliedricità di fare ciò.
Green, in questo, è consapevole di come il fumetto in quel preciso arco storico riuscisse a farsi carico di una pratica di scrittura del sé ormai complessa e prossima alla polverizzazione post-moderna. Scrive Matteo Stefanelli, al riguardo:
l’affermarsi di una scrittura del sé ha rappresentato per il fumetto un turning point perché ha consentito l’istituzione di una nuova consapevolezza linguistica da parte degli autori. Ovvero, la considerazione della natura frammentaria del sistema di codici del fumetto. Una frammentazione che è una vera e propria qualità sintattica del mezzo […] Nel fumetto (autobiografico) contemporaneo la frammentazione è praticata, invece, come opportunità per una riflessione sull’identità dei soggetti.
In tal proposito, Stefanelli cita come esempio proprio il Binky Brown di Justin Green. Infatti l’autore, pur mostrando la predilezione per un tratto realistico, lo forza continuamente. Nel suo approccio, il realismo è frutto di una serie di gesti grafici che giocano con gli elementi strutturali del disegno, affollando le tavole di presenze simboliche e allegoriche che ne alterano la superficie, in un disordine mimetico delle sue ossessioni. Joseph Witek definisce le tavole di Green “diagrammi schematici di una soggettiva decentrata”. Il tentativo di Green è proprio quello di mettere ordine tra i frammenti della sua esistenza attraverso unità di senso minime come possono essere le tavole di un fumetto. La questione è che queste unità finiscono con il disintegrarsi, in un rivolo di particolari che non sono altro che lo specchio di un ‘io’ polverizzato.
L’esempio di Green sarà ripreso da Art Spiegelman solo a partire dagli anni Ottanta con la serializzazione di Maus sulle pagine di RAW. Anche in questo caso, la narrazione si avviluppa sull’identità del soggetto: prima come auto-analisi attraverso il frammento Prisoner of Planet Hell – databile ai primi anni Settanta – poi come analisi storica e sociale dell’identità ebraica all’indomani della Shoah. Così come Keiji Nakazawa, Spiegelman si fa testimone di una male radicale, ma lo fa a partire dall’indagine della sua identità di ebreo: e a suo avviso tutto ciò non sarebbe stato possibile se non avesse incontrato la disarmante biografia di Justin Green.
In una recente edizione di Binky Brown, edita da McSweeney, Spiegelman descrive l’opera come epica e pionieristica: l’idea di scrivere una biografia sull’intimità dei proprio usi sessuali in un formato unico come quello del fumetto ha impresso un profondo cambiamento nel mondo del fumetto.
Certo, si potrebbe replicare che i contenuti espliciti utilizzati da Green non dovessero essere così shockanti in un contesto storico in forte accelerazione come quello dei primi anni Settanta, che stava metabolizzando la rivoluzione sessuale ma aveva prodotto un’editoria indipendente abbastanza attenta al fenomeno sessuale. Ma l’angoscia sessuale di Green non è solo intimamente legata con l’analisi delle distorsioni compulsive legate alla formazione cattolica, ma è un riflesso di qualcosa di più profondo: è la superficie grafica dietro cui si muove un lavoro quotidiano di riflessione sul sé. Sogni, incubi, satira e ossessioni si intrecciano in una complessa meditazione sull’esistenza di Binky.
Pur se Chester Brown dice di sentirsi più vicino ad autori come Robert Crumb e Harvey Pekar e che Binky Brown non lo abbia influenzato più di tanto – pur conoscendolo – è indubbio che un fumetto come Il Playboy goda di una certa prossimità all’opera di Green. Anche in quel caso la morale cattolica influenzava il personaggio, intrappolandolo in un loop continuo tra colpa e redenzione personale. Là la redenzione identitaria sfociava nel pieno riconoscimento della pornografia come consumo legittimo. Ma, in Binky Brown la sofferenza del protagonista non si arresta alle soglie della maturità nel flebile riconoscimento sociale della propria libido.
Frammenti di dolore: Justin Green e il disturbo ossessivo-compulsivo.
I feel bad, and I’ve felt worse
I’m a creep, yeah, I’m a jerk
Come on
Touch me, I’m sick
Mudhoney, Touch me I’m Sick
Ma, al di là della paternità di Green del fumetto autobiografico, Binky Brown ha un altro merito inequivocabile: quello di aver parlato – forse anche inconsapevolmente – della malattia di cui Green soffriva. Justin Green soffriva di scrupolosità, una forma di disturbo ossessivo compulsivo in cui i pensieri religiosi, morali ed etici creano ansie e sensi di colpa che compromettono la vita sociale e l’adattamento delle persone affette, con ripercussioni anche sulla sfera cognitiva. Il castrante senso di colpa derivante da questa variante dell’ODC risiederebbe in un pensiero disfunzionale caratterizzato dal meccanismo mentale di fusione pensiero-azione. In parole povere, i soggetti affetti da scrupolosità rivestono di un peso eccessivo ogni loro pensiero, vivendolo come un’azione trasgressiva.
Il ritualismo ossessivo dei soggetti scrupolosi è un dispositivo messo in essere per riconquistare il rapporto privilegiato con la divinità. Nel caso particolare di Justin Green, con la Santa Vergine. Ma, in realtà il ripristino del vincolo di fedeltà con il divino è teso ad evitare un’impellente e indefinita catastrofe. Lo sì può vedere nelle prime pagine del fumetto di Green: il piccolo Brown mentre gioca rompe una statua della Vergine, subito dopo i suoi pensieri si addensano intorno alla perniciosa idea che possa succedere qualcosa a sua madre. Il senso di colpa di Binky si addensa facendo sorgere l’insensato timore che sua madre possa essere investita da un’auto. La ruminazione dolorosa del piccolo protagonista ha inizio, conducendolo verso la reiterazione di azioni quotidiani utili a disperdere idee ossessive. Binky canta a letto cozzando la fronte contro la testata del letto sino a sfinirsi in un sonno colmo di incubi.
La vita quotidiana di Binky procede così, stretto tra le spire di un’ossessione sempre più invadente, che si estrinseca nel compulsivo timore di infettare ogni luogo a causa della fissazione per il pene: gli oggetti dalla forma fallica spuntano dappertutto invadendo lo spazio mentale, ma anche quello fisico della tavola.
Tutto quello che Green ci racconta è un disagio crescente che mina tanto la percezione della realtà, falsata e sussunta ad un’idea disfunzionale della stessa, quanto la sua capacità adattiva: la capacità di poter intrattenere rapporti sociali senza doversi necessariamente sottoporsi ad un serie sfiancante di riti liberatori. A questa logica sottostanno anche le tavole di Binky Brown: ripetutamente disintegrate e ricomposte in un tentativo di redenzione grafica. La lunga confessione/analisi fenomenologica condotta da Green è un primo deciso e miliare esempio di graphic medicine.
Il manifesto della medicina grafica è recentissimo. Datato 2015 e firmato da un serie di autori come K Czerwiec, Ian Williams, Susan Merrill Squier, Michael J. Green, Kimberly R. Myers e Scott T. Smith, il cui intento è quello di fornire attraverso il fumetto uno strumento che affiancando letteratura specialistica e narrazione nello spazio neutro del visuale offra una nuova possibilità di riflessione e incontro per i pazienti, le loro famiglie e i sanitari. Al di là di estemporanee forme di narrazione, la medicina grafica come nuovo luogo di riflessione ha fornito gli strumenti per pensare retrospettivamente alcuni fumetti nella loro importanza storica e nella capacità di saldare in un unicum vivo riflessione personale, narrazione intima, analisi eziologica e ripercussioni sociali della patologia come condizione esistenziale.
David Foster Wallace ne Il pianeta Trillafon e la cosa brutta, racconto giovanile in cui affrontava il tema della depressione contenuto in Questa è l’acqua (Einaudi), scriveva:
[La Cosa Brutta] Vi ha fatto ammalare in modo da non permettervi di guarire. E voi cominciate a pensare a questa situazione veramente atroce e vi dite: – Mannaggia, come cavolo è riuscita la Cosa Brutta a fare questo? – Ci pensate su, ci pensate davvero bene perché è nel vostro interesse, e poi tutt’a un tratto avete come un’intuizione… la Cosa Brutta riesce a farvi questo perché voi siete la Cosa Brutta! La Cosa Brutta siete voi. Nient’altro: nessuna infezione batteriologica né colpi di spranga o di martello in testa quando eravate piccoli, né scuse d’altro genere; voi siete la malattia. La malattia vi «definisce», specie dopo che è passato qualche tempo.
La malattia diviene in taluni casi stigma e luogo dell’identità: e molto spesso, non è solo la mente a combattere come nel caso di Wallace, o di Sylvia Plath che prima di lui dedicò un romanzo fondamentale alla depressione come La Campana di Vetro, ma è soprattutto il corpo, o meglio un dolore che va dl di là di ogni sofferenza fisica tout court. Sempre Wallace, nell’intervista fiume concessa a David Limpsy e raccolta da Minimum Fax in Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta:
È peggio di qualunque altra cosa: non so se tu ci sei mai passato. È peggio di qualunque tipo di danno fisico, di qualunque tipo di…forse è quella che nei tempi antichi veniva chiamata crisi spirituale, o qualcosa del genere. Si tratta semplicemente di avere la sensazione che la totalità…che ogni assioma della tua vita si sia rivelato falso, e che di fatto non ci sia nulla, e che tu non sia nulla, e che tutto sia un’illusione. E ti senti migliore di tutti gli altri perché ti sei reso conto che è un’illusione, eppure stai peggio, perché non riesci proprio a funzionare.
La ricerca segnica del fumetto, con la sua complessa struttura in cui lega indissolubilmente tempo e spazio, è una delle vie privilegiate per poter parlare tanto degli affranti e della pieghe della mente, quanto delle altrettanto dolorose e complesse pieghe della carne. È il caso di un fumetto come The Spiral Cage di Al Davidson, di cui abbiamo già parlato, che si occupa di una patologia importante come la spina bifida, condividendo con Green un certo immaginario iconografico e una scelta stilistica particolare. Il tratto realistico ma altrettanto crudo ed espressionista di Davidson, ricorda il tratto ruvido e impreciso seppure votato al vero di Green. Vi è un urgenza che tracima anche nello scarabocchio e nell’imprecisione anatomica e prospettica: è un tentativo di metter su carta l’inamovibile corpo del dolore, a volte così tenace e pesante da rendere chi soffre afono e disperato.
Lasciando da parte per un attimo il graphic medicine come genere narrativo e ritornando nello specifico alla patologia di cui ci parla Green, un esempio importante al riguardo nell’ambito delle graphic novel di fiction lo si può rintracciare in The Nao of Brown di Glyn Dillon. L’autore inglese – fratello del ben più famoso Steve – ha scritto e disegnato un delicato e complesso graphic novel su una ragazza “hafu”, cioè per metà inglese e per metà giapponese, affetta da disturbo ossessivo-compulsivo. Dillon mostra la malattia attraverso la dialettica tra due distinti piani: quello della realtà e quello del mondo immaginario di Nao, frutto di un mash up tra il suo lavoro di illustratrice e Ichi, il suo manga preferito. La moglie di Dillon ha sofferto da bambina e da adolescente di DOC e i suoi racconti sono serviti a tratteggiare il personaggio di Nao.
L’autore ne ha parlato al riguardo con Paul Gravett:
I rituali mentali che usava per cercare di contrastare i suoi pensieri negativi erano molto simili a quelli di Nao. Mia moglie è stata una formidabile fonte di ascolto e confronto per comprendere un qualcosa che è molto difficile da afferrare. Volevo fare un libro per chi soffre di DOC e non ha bisogno che gli si spieghi che cosa sia. […] Nao soffre di Disturbo Ossessivo-Compulsivo Puro ed è comune per i malati essere molto reticenti a riguardo, credo soprattutto perché si ha paura e vergogna…fin dall’inizio ho voluto che Nao rivelasse il meno possibile, anche se questo avrebbe potuto causare che il lettore medio non capisse subito quello che stava succedendo nella storia. Nao è in terapia, fai i suoi “compiti a casa”… ma non volevo comunque svelare troppo. Non volevo che il libro fosse tutto incentrato sul DOC. [traduzione a cura di smokyman]
Dillon non nasconde l’enorme influsso di Binky Brown durante la stesura di the Nao of Brown: l’iper-mondo delle ossessioni della protagonista segue le strategie narrative e visuali architettate da Green per poter “esporre” al mondo il coacervo dei suoi pensieri: il frustrante e ansiogeno timore che qualcosa di male potesse succedere da un momento all’altro.
Epilogo
True love will find you in the end
You’ll find out just who was your friend
Don’t be sad, I know you will,
But don’t give up until
True love finds you in the end.
This is a promise with a catch
Only if you’re looking will it find you
‘Cause true love is searching too
But how can it recognize you
Unless you step out into the light?
But don’t give up until
True love finds you in the end.
Daniel Johnston, True Love Will Find You In the End
L’elenco di opere che hanno cercato di descrivere il disagio mentale e fisico potrebbe continuare, includendo tomi imponenti ed importanti come Il Grande Male di David B o opere delicate e struggenti come La Parentesi di Elodie Durand, ma nel contempo anche tentativi didascalici come Marbles di Ellen Forney, dedicata al disturbo bipolare, ma è indubbio che tutte devono confrontarsi con la sottile crudeltà dell’arte di Justin Green, il padre del fumetto autobiografico, l’artista che con onesta ha mostrato ad un fumettista e teorico influente come Art Spiegelman quale fosse la strada da percorrere per condurre il fumetto verso possibilità fin ad allora inedite e, forse, impensabili.
Nell’agghiacciante stormire delle sue idee compulsive Green è riuscito a far ordine tratteggiando non solo una storia nevrotica e divertente, ma anche un itinerario con cui confrontarsi ancora.