HomeFocusLi vendono ancora i fumetti? La crisi del sistema distributivo statunitense

Li vendono ancora i fumetti? La crisi del sistema distributivo statunitense

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È notizia recente che Nighthawk, la serie Marvel con protagonista una delle tante versioni del personaggio omonimo, ha chiuso dopo soli sei numeri. Le tematiche razziali – la brutalità poliziesca contro la comunità nera, lo stesso nodo toccato da Batman #44 – e il team creativo (sceneggiatore afroamericano, disegnatore portoricano, colorista transessuale) sembravano essere ingegnerizzati in laboratorio per soddisfare il desiderio di diversità nei fumetti. Così non è successo perché le vendite, nonostante un debutto che aveva fatto ben sperare, non hanno soddisfatto i piani alti.

E vabbè, fin qui nulla di strano. Non è la prima volta che chiudono una testata per insufficienza di lettori e di certo la Terra continuerà a ruotare sul proprio asse anche dopo l’uscita dell’ultimo numero. Le recensioni erano buone, anche se ai commentatori statunitensi interessavano le questioni tirate in ballo più della storia in sé. Eppure Nighthawk è diventato il simbolo di una discussione sulle meccaniche interne della vendita di fumetti.

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Dallo sceneggiatore della serie, David F. Walker, a pezzi grossi come Brian Michael Bendis, gli autori si sono mossi per ricordare, ancora una volta, quanto sia importante il pre-ordine e come sia attraverso questo espediente che le serie proseguono o vengono chiuse. Il sunto dei loro discorsi è: lettori, è colpa vostra se le testate chiudono perché non pre-ordinate il fumetto e non fate sapere agli editori con due mesi di anticipo che ne devono stampare una copia per voi. È storia antica: quando gli chiusero X-Factor, Peter David incolpò i lettori di non aver sostenuto la testata mensilmente preferendo acquistare le raccolte – più economiche dei numeri singoli. E Kieron Gillen ha perfino realizzato un fumetto per spiegare il concetto, durante la promozione di The Wicked + The Divine.

Su questo versante, la DC Comics sembra essere la più lungimirante. Prima, ispirandosi alla decisione della Image di rimborsare l’invenduto, ha voluto sperimentare con 141 titoli, quelli del rilancio Rebirth, ripagando le eventuali rimanenze agli esercenti – un test per valutare la capacità del direct market di adattarsi ai cambiamenti – e poi dando una seconda possibilità a Omega Men di Tom King, una delle serie meglio recensite dello scorso anno che però stagnava nelle vendite. Jim Lee in persona ha dato alla testata qualche altro mese di ossigeno di modo che raggiungesse le librerie con la raccolta e fruttasse il proprio potenziale di “serie cult”, oltre ad arare il terreno per una costruzione Tom King-centrica dell’Universo DC.

Il caso di Nighthawk ha portato The Outhousers – testata che mischia il serio e il faceto offrendo approfondimenti canonici ma anche notizie à la Lercio che prendono in giro l’informazione fumettistica americana – a pubblicare “Die, Industry, Die!”, un pezzo provocatorio in cui il direct market (la rete di distribuzione di fumetti che collega le fumetteria agli editori negli Stati Uniti) viene colpevolizzato di essere la rovina del settore e che evidentemente ha toccato i nervi scoperti di molti autori. «È colpa degli editori, non nostra», replicano su The Outhousers. «E la propensione di tutti questi fumettisti a incolpare i fan di non pre-ordinare le testate deve essere classificata come una qualche bizzarra variante della sindrome di Stoccolma».

Secondo il sito, il problema sta nel sistema di ordini del direct market. I negozi specializzati non posso ordinare i fumetti direttamente all’editore ma devono rendicontare a una terza entità, i distributori. Nel mercato americano, il sistema della distribuzione è un quasi monopolio in mano alla Diamond Comics Distributors.

La storia dietro alla nascita del direct market è interessante ma complessa. Riassunta per sommi capi suona così: quando i fumetti venivano venduti nelle edicole e in punti vendita di varia come i supermercati, seguivano le condizioni di vendita degli altri periodici. Alla fine del ciclo di vita di un numero, le giacenze venivano private della copertina e rimandate all’editore, che rimborsava l’invenduto. «Ma con questo sistema le case editrici come la Marvel avrebbero dovuto realizzare dei bei fumetti, altrimenti la gente non li avrebbe comprati e gli edicolanti avrebbero chiesto il rimborso delle rese», scrive Jude Terror, nickname dietro cui si nasconde uno dei boss di The Outhousers. «E così la Marvel non avrebbe realizzato profitti. E non puoi pagare la scorta di cocaina per un giovane Rob Liefeld se stai costantemente pagando le rese ai commercianti».

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Con il nuovo sistema distributivo, i fumetti venivano venduti soltanto nelle fumetterie, che non potevano più chiedere il rimborso sull’invenduto. «Ecco che non c’era più bisogno di fare bei fumetti, bastava convincere i rivenditori ad acquistarli, attraverso una buona campagna promozionale o mosse a effetto come copertine variant». Si stampavano meno fumetti ma li si vendevano tutti. Anche con le tirature più basse, non perdevano soldi. I fumetti venivano chiusi soltanto perché non rendevano abbastanza profitto. Il rovescio della medaglia era la perdita di tutto quel pubblico casuale, quello che poteva incappare in un fumetto mentre faceva la spesa e poteva comprarlo e poi diventare un lettore assiduo. Chi entrava in un fumetteria, invece, lo faceva perché già leggeva fumetti. «Vendere fumetti nei supermercati era una cazzo di figata, se la vostra idea di “cazzo di figata” è che tanta gente legga i fumetti. Avere fumetti in luoghi dove vengono comprate anche altre cose oltre ai fumetti è un modo molto efficace di introdurre nuove persone alla lettura. Mi azzarderei a dire che è il modo più efficace di tutti. Ancora più dei film di supereroi o delle campagne promozionali sui siti di fumetti o dell’inserirne un milione di copie nei Loot Crate».

«Forse la chiusura delle serie è ciò che serve all’industria per imparare che è loro responsabilità evolvere in un modello di business che venga incontro ai bisogni del mercato e non il contrario», chiude Jude Terror. «Potrebbero addirittura cercare nuove idee invece che incolpare gli altri per i loro fallimenti. Solo allora i fumetti entreranno nel XXI secolo».

Mentre qualche professionista ha appoggiato il pezzo, altri come Gene Ha e Heidi MacDonald hanno rispedito l’accusa al mittente. Quest’ultima, su Comics Beat, ha però ammesso che «l’idea del pre-ordine è un modo orribile di far funzionare un’industria – l’idea che i consumatori debbano sfogliare un catalogo di 300 pagine, pensato per i rivenditori, al fine di salvare il fumetto che amano è stupida, e quando vedo autori di peso che la supportano mi sento male». E in un secondo pezzo prosegue ammettendo che i difetti del direct market sono tanti – primo tra tutti il monopolio della Diamond – ma che al netto del perfettibile il fumetto vive nel sistema più stabile e quello che permette più crescita.

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Secondo Brian Hibbs di Comics Beat, il fallimento di Nighthawk sarebbe fisiologico e per niente anormale, essendo una serie che è stata pubblicizzata poco e che ha come protagonista un personaggio minore proveniente da un gruppo – lo Squadrone Supremo – altrettanto minore. «La vera notizia sarebbe stata “Nighthawk raggiunge i tredici numeri”. Allora sì che avremmo avuto analisi tipo “Come è successo? Come lo replichiamo?”. Il sottotesto di Terror è che se i fumetti fossero un’industria mirata a un pubblico generalista, fumetti come Nighthawk venderebbero. Be’, sei più fatto di me. E io, amico, vivo a San Francisco, dove permettono l’uso legale di una superba marijuana».

È proprio grazie al direct market che fumetti come Nighthawk ottengono una possibilità di rivalsa. In un mercato generalista, testate del genere non verrebbero prese in considerazioni. Hibbs cita un episodio autobiografico: poco tempo fa è andato con il figlio a Disneyland. Nei negozi sparsi per il parco ha notato la presenza di diversi fumetti Marvel, materiale appetibile per il pubblico di riferimento. Quando ha chiesto ai commessi come andavano le vendite degli spillati, loro hanno fatto una smorfia. Non un granché bene, un po’ perché i titoli messi in vendita non erano stati scelti con la massima cura (un buco nero di meta-riferimenti come Gwenpool invece che un semplice Amazing Spider-Man) e un po’ perché anche gli albi di Star Wars non è che siano proprio pensati per un seienne. Hibbs la mette giù dura: il fumetto non avrebbe niente da guadagnare nell’apertura al mercato generalista perché «il mercato generalista non è interessato ai fumetti, preferisce vendere una maglietta di Batman piuttosto che un suo fumetto».

Riprendendo le fila del discorso di Terror, su London Graphic Novel NetworkEmma Houxbois scrive che il ragionamento degli autori (il fumetto muore se i lettori non pre-ordinano il mensile) perde di senso se lo si riporta al mondo reale, quello cioè delle librerie di varia, dove i singoli numeri di una testata non vengono distribuiti e dove invece trovano spazio le raccolte e i volumi. Eppure ci sono esempi del contrario, come Fight Club 2 e Black Panther, il cui appeal extra-fumettistico dato dai nomi degli autori (rispettivamente Chuck Palahniuk e Ta-Nehisi Coates) si rivela utile per promuovere la serie fuori dai circuiti consolidati: «Nessuno alla Marvel crede davvero che le vendite mensili di Black Panther contino. I veri soldi della testata verranno dalle raccolte, quelle che saranno acquistate da clienti casuali di una libreria o su Amazon. E dubito che alla Dark Horse importi un cazzo di dove si piazzano in classifica i numeri di Fight Club 2, è soltanto un pretesto in attesa che la gente compri il volume nello stesso modo in cui compra qualsiasi altra cosa scritta da Chuck Palahniuk». In quei casi l’esistenza della distribuzione mensile, e del pre-ordine, è un’evenienza di poco peso.

Lo ribadisce anche MacDonald, scrivendo che «le nuove generazioni preferiscono i volumi ai periodici, e questi sono in una fase di transizione in cui stanno diventando sempre meno cruciali nell’economia generale dell’industria. La DC guadagna più dai graphic novel che dai mensili, e anche le vendite della linea di graphic novel Marvel stanno aumentando». E lo stesso Terror, in un secondo pezzo pubblicato in seguito al polverone, conferma l’assunto: «Libri come Smile di Raina Telgemeier potrebbero essere il futuro dei fumetti. Milioni di ragazzi hanno letto Smile di Raina Telgemeier, ma questi ragazzi non si precipiteranno a comprare Captain America come loro prossimo fumetto. Perché dovrebbero? Smile offre una storia completa e nessun ragazzo spenderebbe 67 dollari per il primo mese di tie-in legati al solito super-mega-crossover solo per leggere un quinto di una storia che non sarà mai bella quanto Smile».

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È vero quindi, come racconta Publishers Weekly, che i graphic novel stanno vivendo una nuova giovinezza, complice il loro uso nelle scuole (tanto che un gigante come la Marvel sta stringendo accordi commerciali con la Scholastic), ma è altrettanto vero che quasi nessuno produce bestseller come quelli di Raina Telgemeier, e i graphic novel che vendono sono una minima parte della produzione fumettistica e devono sgomitare non solo tra di loro ma anche tra i Safran Foer e le Ferrante di turno. Il sentimento predominante che se ne ricava è: restare nel direct market sì, ma con delle modifiche, come quelle apportate dalla DC Comics – che ha deciso di rimborsare le copie invendute dalle fumetterie – nel tentativo di cambiare modello di business.

E gli strumenti 2.0 potrebbero non essere la soluzione più immediata. Nelle vendite del digitale, si è passati da un periodo d’oro – nel luglio 2014 la Marvel ha dichiarato che le vendite digitali di Ms. Marvel superavano quelle del cartaceo – a un lieve calo, -10%, nel 2015, fermo a 90 milioni di fatturato. Una cifra che rende comunque l’America testa di ponte nel digitale: «I comic book americani sui tablet ci stanno benissimo, anche perché almeno da quindici anni hanno colorazione digitale», diceva, intervistato dal Post, Matteo Stefanelli. «È una delle ragioni per cui è americano il leader mondiale degli editori digitali, Comixology comprata da Amazon». Senza una struttura rigida alle spalle, ogni opzione sembra lecita. Gran parte delle nuove vie ha dimostrato che ci sono buone basi su cui costruire, parcellizzando però i guadagni su traiettorie diverse, dalle raccolte fondi su Kickstarter (più di 4.000 progetti finanziati dal 2009, anno del primo Kickstarter fumettistico, per un totale di 50 milioni di dollari) ai finanziamenti su Patreon, passando per Etsy, Shopify e Gumroad.

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Brian K. Vaughan ha affermato che l’esperimento di Panel Syndicate (fumetti in digitale, senza restrizioni, a offerta libera – quindi anche gratis) ha funzionato e che The Private Eye «ha portato guadagni a sei cifre, senza uso di pubblicità, campagne fondi o altro», ma il sospetto che questa modalità funzioni con nomi già consolidati e con un pubblico di fedelissimi è lecito. Gli esordienti puntano su altre declinazioni del webcomic (una modalità di fumetto che sta diventando l’evoluzione della striscia giornaliera, altro segmento di vendita inesplorato dagli analisti), come Webtoons, una piattaforma da 17 milioni di utenti che attira a sé nuovi talenti offrendo loro compensi generosi se si lavora in esclusiva.

Comics Bulletin lamenta la scarsa capacità di reclamizzare i fumetti da parte degli editori: «Metti un film di fronte a ogni americano con trailer e spot tv e le probabilità che la gente “scopra” il film sono molto più alte di quelle di un qualsiasi fumetto che trova il proprio pubblico nei cataloghi d’ordine». L’accordo stretto con Loot Crate, la compagnia di scatole a sorpresa che dal 2014 ha inserito i fumetti nella loro offerta, punta a questo, aumentare la conoscenza di possibili acquirenti verso il mezzo dei fumetti. Ma è un esperimento limitato nel tempo ed è ancora difficile comprenderne gli eventuali benefici.

Graphic Policy cerca di interporre un concetto incontestabile in questa congiuntura. Sì, l’industria dei fumetti ha dei problemi. Sì, il 2015 è stato l’anno più remunerativo dai tempi degli anni Novanta, facendo registrare un giro d’affari di un miliardo di dollari nel circuito del direct market (tra digitale e cartaceo, che si spartiscono rispettivamente 90 e 940 milioni di dollari). E sì, gran parte di questi introiti provengono dall’aumento del costo dei fumetti e dal dilagare delle variant cover. Come per le classifiche dei film più visti, i ricavi sono un dato effimero a causa di sovrapprezzi e inflazione, bisogna guardare al numero di paganti. Ecco che Via col vento rimane il film più visto di sempre e che il volume massimo di unità fumettistiche vendute è datato 1996 – con 130 milioni di albi.

Ma la curva è positiva, e dopo gli abissi del 2001 (66 milioni di copie in circolazione) l’industria ha recuperato terreno. Le cifre restano volatili perché il calcolo è effettuato solo sui rendiconti Diamond, che tagliano fuori le vendite in tutti gli altri canali. Graphic Policy stima che il mercato dei piccoli editori è più che raddoppiato rispetto al 2009 (da 3,5 milioni a 8,8). Questi ultimi mesi sono stati forieri di buone notizie. Ad agosto, Diamond Comic ha smerciato 10 milioni di albi nelle fumetterie statunitensi (e andrebbe aggiunto un 10% di albi rimborsati da DC Comics che la Diamond ha preventivamente già scorciato dalle classifiche).

9. Harley Quinn #1 (2016) - 359.957 copie vendute
“Harley Quinn” #1, con 359.957 copie, è uno dei comic book più venduti del 2016

Era dal 1997, quando per la prima volta tutti gli editori si affidavano alla Diamond dopo anni di lotte tra vari distributori per ottenere l’esclusività, che non si registravano numeri simili. DC Comics occupa nove posizione nella top ten delle vendite. È la migliore prestazione dell’editore dei tempi di The New 52. John Jackson Miller di Comichron individua più cause dietro questo exploit: non solo la mossa della DC di rimborsare l’invenduto alle fumetterie, ma anche una maggiore disponibilità economica da parte di quest’ultime: «Le vendite nella primavera/estate del 2011 furono orribili, il che significava che c’era un limite all’investimento dei commercianti. Il 2016 invece parte da una posizione superiore in termini di liquidi che circolano nel settore».

«Credo ci siano grosse opportunità per le fumetterie» ha detto Milton Griepp, analista di ICv2, durante una conferenza sull’argomento all’ultimo Comic-Con di New York, parlando dei punti di forza delle fumetterie: il rapporto più stretto tra proprietari e clienti e la possibilità di usare i locali per eventi tematici (ospitate, sessione di firme, aperture speciali). «I rivenditori che hanno successo sono estremamente competenti, hanno grandi abilità di comunicazione e conoscenza del prodotto. Cercare di replicare questo modello su una catena sarebbe difficile».

Il modello delle fumetterie è alla base dell’industria perché sono loro ad avere dati che vanno oltre i numeri delle copie vendute. «Il sistema permette una comunicazione a due fasi: dal cliente al rivenditore e dal rivenditore all’editore. Questo dialogo fornisce informazioni più accurate sulle strategie di vendita perché il sistema a due fasi dice agli editori perché certi prodotti vendono e altri no, invece di dire soltanto cosa vende».

"Tokyo Ghoul" #8 è stato il manga più venduto negli Stati Uniti ad agosto 2016
“Tokyo Ghoul” #8 è stato il manga più venduto negli Stati Uniti ad agosto 2016

Per Griepp, l’agnello sacrificale che permetterebbe la crescita del mercato sarebbero proprio i supereroi, che pur contribuendo alla vita dell’industria, si dimostrano sempre di più un soggetto dalle potenzialità inespresse. Il vero dato interessante è l’ennesima crescita dei manga, il cui mercato statunitense nel 2015 ammonterebbe a 85 milioni di dollari, un +13% rispetto all’anno precedente e il terzo anno di fila in cui si registrano aumenti nel settore. «In Europa e in Giappone il livello di consumo pro capite è maggiore che in America. Possiamo raggiungere quei numeri ma dobbiamo evolverci in maniera intelligente. E per fare ciò devono contribuire tutti i canali, ma al centro del progetto devono restare le fumetterie. Il modo in cui pensiamo al ciclo di vendita mensile e al sistema degli ordini deve cambiare». Il rischio maggiore, secondo Griepp, è quello di restare impantanati del recinto dei generi narrative: il pubblico di fumetti con supereroi è limitato e in generale lo è anche il mercato degli spillati. Il consiglio che dà alle fumetterie è diversificare la propria offerta, puntando sui volumi autoconclusivi e su un catalogo più vasto, con l’aiuto delle librerie di varia, in possesso di sezioni dedicate che andrebbero ampliate nel tempo.

Che ci siano dei problemi nelle modalità adoperate dall’industria nella fase di vendita è assodato. L’aumento di prezzo degli spillati, l’apparente difficoltà di attirare l’attenzione del pubblico generalista – specie quello più giovane – e la macchinosità del direct market sono questioni che paiono insuperabili nella ricerca di un sistema migliore, ma i pochi commentatori che si avventano a proporre delle soluzioni indicano nella forma mensile con continuity stretta (contrapposta a un più spendibile volume da libreria autoconclusivo) il nodo più gravoso. «Io sarò anche Nerone che suona la lira mentre Roma brucia», scrive Terror rispondendo alle critiche, «ma voi siete il cane di K.C. Green per cui sta andando tutto bene».

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