Mater Dolorosa, n. 361 del mensile dedicato all’Indagatore dell’Incubo ma, soprattutto, albo che festeggia il trentennale della serie, si offre al lettore principalmente come una lotta fra il presente e il passato del personaggio inventato da Tiziano Sclavi nel 1986. Su queste pagine possiamo assistere a uno scontro fra il Dylan Dog sclaviano (principalmente ma non solo) e quello, se mai se ne possa già parlare, recchioniano, scontro da cui il secondo esce amabilmente sconfitto. Il tutto nel contesto, bisogna dirlo, protettivo e nostalgico di un albo che celebra più che degnamente l’importante traguardo raggiunto.
La trama di Mater Dolorosa è presto riassunta. Qualche anno dopo aver conosciuto Mater Morbi, la madre di tutte le malattie, l’investigatore accusa di nuovo i sintomi del male che lo aveva quasi ucciso. Il ritorno di Mater Morbi lo costringerà ad affrontare un doloroso viaggio nel proprio passato, alla ricerca delle cause della propria sofferenza e di una spiegazione della preferenza che la dolorosa signora manifesta per lui.
Come il rituale vuole in occasione di ogni autocelebrazione, Mater Dolorosa contiene molti degli elementi più rappresentativi della serie, in una sorta di lunga compilazione dei momenti chiave del passato – editoriale e personale – dell’Indagatore dell’incubo. Tra quelli più rappresentativi l’infanzia di Dylan a bordo di un galeone nel 1686, come raccontato a partire dal n. 100 (La storia di Dylan Dog), e la sua adolescenza a Moonlight (Il lungo addio, n. 74). Intorno a questi due punti di svolta ormai classici dell’immaginario dylandoghiano, lo sceneggiatore romano intreccia i propri due principali contributi apportati a quest’epica: Mater Morbi, presentata nell’omonimo albo n. 280, biglietto da visita che ha costruito la credibilità dell’autore e la conseguente possibilità di assumere il ruolo di curatore della testata; e John Ghost (introdotto nel n. 341, Al servizio del Caos), pilastro ancora non del tutto a fuoco della cosiddetta “fase 2”, del rilancio del personaggio.
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L’intenzione espressa da Recchioni in quest’albo è chiara: mettere nero su bianco un passaggio di consegne e un cambio di direzione che la serie regolare di per sé non è – non ancora? – sufficiente a testimoniare, e contemporaneamente rendere un omaggio al “vecchio Dylan”, assumendone il passato come un tassello del proprio personale mosaico dylandoghiano.
L’operazione è però molto rischiosa e infatti i risultati, per lo meno restando sul piano dell’immaginario legato al personaggio, sono incerti e testimoniano la difficoltà dell’operazione: da una parte l’imprescindibilità del modello originario, con tutti i fardelli che questo comporta; dall’altra una certa mancanza di coraggio nel rompere in maniera più netta con quell’eredità che qui, per amor di sintesi, chiameremo sclaviana. D’altro canto, forse proprio perché Dylan Dog – per lo meno il miglior Dylan Dog – è figlio di quell’eredità, Mater Dolorosa rappresenta anche uno dei migliori episodi di Dylan degli ultimi tempi e sicuramente il più riuscito fra quelli scritti da Roberto Recchioni.
Per molti dei lettori “storici” della testata, il personaggio di Sclavi ha dato il meglio di sé – e per i più critici ha dato tutto quello che poteva – nei primi 100 numeri, e quindi in un arco temporale editoriale che si ferma al 1995. Per i detrattori degli albi prodotti in anni più recenti, la causa di questo declino è rintracciabile proprio nel progressivo allontanamento di Sclavi dalla propria creatura, passata in mano ad autori incapaci di comprenderla – e quindi ‘rinnovarla’ – davvero. Questa visione, eccessivamente catastrofista e figlia di una nostalgia tipica dei fan della prima ora, non è però del tutto dalla parte del torto. Se è vero, infatti, che si sono prodotte alcune buone se non ottime storie dopo il 1995, è anche vero che la qualità media del prodotto si è notevolmente abbassata, e il personaggio ha dato talvolta l’impressione di girare a vuoto, in virtù delle diverse scelte (e non-scelte) editoriali. Del resto, proprio l’episodio numero 100, scritto all’epoca da Sclavi, chiudeva tutti i fili aperti precedenti per ciò che concerne il passato “mitologico” di Dylan, anticipando la chiusura stessa – in una sorta di what if… – della storia del personaggio e della serie. Un commiato del creatore e del suo personaggio sinteticamente ed efficacemente testimoniato dalla bella copertina di Angelo Stano che apriva quell’albo.
Senza perderci in considerazioni commerciali sulla contrazione delle vendite che ha accompagnato gli ultimi anni della serie, un rilancio era – e rimane – necessario, soprattutto per attirare lettori di nuova generazione che si affiancassero a quel solido zoccolo duro che ha accompagnato il personaggio. E il Recchioni curatore, su questo fronte, ha raggiunto alcuni risultati importanti.
In primo luogo ha riportato al centro della testata che porta il suo nome Dylan. In molte delle storie degli anni Duemila, infatti, l’indagatore dell’incubo appariva troppo spesso come uno spettatore delle storie di cui sarebbe dovuto essere il protagonista. Quelle stesse storie, inoltre, ripetevano stancamente strutture narrative solide ma fin troppo elementari, più vicine al giallo, inoltre, che all’horror. Recchioni ha avuto il pregio di riportare Dylan al centro delle proprie vicende, restituendogli una psicologia sfaccettata e un’imprescindibilità che aveva perduto, re-immergendolo inoltre in territori narrativi a lui più consoni. Le storie prodotte nel corso di questa fase – la cui qualità, va detto, è piuttosto altalenante – hanno il pregio di seguire in modo ferreo queste semplici direttive. Le variazioni di contorno (il pensionamento di Bloch, il passaggio dal “voi” al “lei”, l’inedito rapporto con la tecnologia ecc.) sono per lo più riverniciature che cambiano di poco le carte in tavola. Come da lui stesso dichiarato, l’obiettivo di Recchioni era quello di promuovere un ritorno alle origini – sclaviane, of course – che al contempo si configurasse come un adeguamento del personaggio alla contemporaneità. Un “downgrade”, riprendendo le parole dello stesso Recchioni, che riuscisse a recuperare le caratteristiche migliori di Dylan per rilanciarlo come icona contemporanea.
Altro elemento importante che caratterizza questa fase di rilancio è l’inserimento di una continuità narrativa che, seppur meno debole di quella che in passato veniva caricata per lo più sulle spalle di episodi speciali (come il già citato La storia di Dylan Dog), sembra ancora lontana dal dare dei frutti pienamente apprezzabili, a causa di una frammentarietà eccessiva della trama orizzontale. All’orizzonte sappiamo che si avvicina la “fase 3”, che proprio su questo aspetto – continuità più evidente, maggiore coordinamento nel team degli sceneggiatori – spingerà, e che finalmente permetterà di misurare meglio l’estensione e l’efficacia delle innovazioni nel rilancio della serie.
Anche alla luce di tutto ciò, è difficile valutare l’albo in questione, Mater Dolorosa, senza collocarlo nel doppio contesto cui appartiene: è un momento celebrativo per il personaggio, per la casa editrice e per Recchioni stesso; ma è anche una tappa di un percorso di trasformazione non ancora compiuto. Tuttavia da questo numero pur così inconsueto emergono alcuni particolari che è interessante sottolineare e approfondire, prima di passare ad un’analisi più strettamente nel merito.
Proprio partendo da Dylan, possiamo dire che Mater Dolorosa si abbandona alla natura cristallizzata del personaggio. Recchioni produce un’avventura autenticamente sclaviana – a volte fin troppo – in un’orgia citazionistica alla lunga un po’ pedante, sebbene legittima nel contesto di un albo celebrativo. Cercando un equilibrio attento a non scontentare lettori vecchi e nuovi, il Dylan recchioniano rivela una natura di personaggio non certo privo di futuro, ma che può fare un passo avanti solo a patto di procedere in una specie di loop, che si avvolge intorno alle proprie origini e ai propri episodi “cult”. E in effetti tutta la storia di Dylan Dog ruota intorno al tentativo del recupero di un passato perduto, di una perduta innocenza.
In quest’ottica, il tentativo di inserimento del nuovo John Ghost (finora alquanto inconsistente, ma di cui forse avremo modo di apprezzare meglio le conseguenze nel corso del tempo), la cui natura progressiva in quanto personaggio ricorrente rema contro quella, spiralizzata, di Dylan, potrebbe suonare pretestuosa. Il futuro, un futuro di cui si conoscono bene le estreme conseguenze, non si trova bene immerso nel passato. D’altro canto Ghost si pone esplicitamente – narrativamente ed editorialmente – come una diga fra Dylan e il suo rimosso, il suo passato, le sue precedenti incarnazioni. I due personaggi si pongono nella serie – per quanto visto finora – come paladini di un conservatorismo che si muove in due differenti direzioni. Ghost cerca, per quanto è possibile dedurre da quest’albo e da alcuni frammenti di altri episodi – di impedire all’Indagatore dell’Incubo di ricongiungersi al proprio passato, per trasformarlo in quell’eroe che la sua storia lo ha destinato a essere. D’altro canto Dylan cerca da sempre ossessivamente rifugio in quel passato da cui si aspetta consolazione e risposte, un’ossessione che lo blocca in un presente sempre uguale a se stesso e che gli preclude la possibilità di un reale progresso verso un futuro solo in parte ignoto.
I risultati dell’incontro-scontro fra queste due personalità, dagli scopi e dai ruoli forse non così dissimili, sono ancora tutti da conoscere. Ma una conclusione di quanto espresso in Mater Dolorosa si può forse già esporre. Ovvero: l’impossibilità di Dylan di porsi come icona realmente contemporanea, imprigionato com’è nel suo passato biografico, autoriale ed editoriale. A meno di un vero e proprio reboot – che però lo stravolgerebbe completamente. Per certi versi si potrebbe dire che il nodo è a monte, e che con Storia di Dylan Dog è stato Sclavi stesso, immaginando sia le premesse che la (o il) ‘fine’ del personaggio, ad avere giocato un brutto tiro ai prosecutori del suo lavoro.
Al di là di queste considerazioni, che abbracciano in senso più ampio la storia e soprattutto la traiettoria editoriale di Dylan Dog, Mater Dolorosa è un ottimo albo. Dal punto di vista grafico Gigi Cavenago compone alcune delle tavole non solo esteticamente più intriganti della serie ma riesce, in questo caso sì, a portare la testata verso un’estetica più moderna, che coinvolge la tavola come un ‘tutto’ e non solo come veicolo di una lettura sequenziale della vignetta, come quasi sempre accaduto sulle pagine di Dylan Dog. Non si sta parlando solo delle grandi e spettacolari splash-page ma di una capacita di narrare attraverso una continuità fluida che supera la frammentazione delle vignette. Il tutto naturalmente entro i limiti imposti dalla rigida gabbia bonelliana, questa volta peraltro più libera e mossa. Le linee morbide, che giocano in contrasto con quelle spezzate, la grande varietà di spessore dei contorni e la sovrapposizione di più livelli sfumati di colore a costruire i volumi movimentano ancor di più il tutto. Cavenago inoltre usa la propria tavolozza cromatica in senso psicologico ed emotivo, e il risultato è di grande impatto drammatico, anche se costantemente ai limiti del didascalico.
Per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi, che mediamente non si discostano poi molto dai loro modelli classici, spicca quella relativa a Xabaras, ottima sintesi grafica fra il Dylan adulto e la mefistofelica metà malvagia del padre di quest’ultimo. Al netto di un uso un po’ troppo reiterato di inquadrature e scorci “spettacolari” o action, che tradiscono in parte il profilo ‘quotidiano’ del personaggio, l’apporto di Cavenago si offre come un ottimo compromesso fra la tradizione e un’innovazione che in questo numero passa più per il tramite del disegno che per quello della sceneggiatura.
Sarebbe però ingiusto sottovalutare il contributo dello sceneggiatore, certamente meno appariscente di quello di Cavenago. La trama tessuta da Recchioni procede netta, senza cadute di ritmo né sbavature. Una prova agonistica ottimamente riuscita, sebbene a discapito di una dimensione: l’umanità dei personaggi. Particolarmente faticosa risulta, in questo senso, solo la lunga sequenza dello scontro fra Morgana e Mater Morbi, tirata troppo per le lunghe e caricata di eccessivi ed eccessivamente espliciti simbolismi. Non che altri episodi classici della testata fossero immuni dal rischio, talvolta, di autocompiacimenti, ma erano per lo più in grado di controbilanciarli o con l’attenzione a personaggi davvero empatici e sfaccettati – e non rivestiti da maschere di urlata tragicità, come quelli che qui si pongono come icone ancestrali – o almeno con una pervasiva ironia, che non è propriamente fra le armi migliori dello sceneggiatore romano.
Fra i momenti da ricordare per ragioni diverse, allora, c’è da un lato un guizzo umoristico e meta-dylandoghiano notevole (niente spoiler: lo troverete a p. 22; mentre altrove i riferimenti ironici alla stretta attualità risultano poco efficaci e posticci – p. 47) e, dall’altro, una caduta sul piano epico e logico (la motivazione con cui Mater Morbi giustifica la sua ostinata malvagità verso Dylan: la ‘casualità’). In mezzo a tutto questo c’è una efficace capacità di mescolare omaggi a episodi più e meno recenti senza precipitare la storia in una sagra del già visto ed evitando fastidiose strizzate d’occhio, integrando invece intelligentemente e fluidamente gli omaggi nell’iter narrativo. Non un particolare da poco.
Ricordando sempre la natura celebrativa dell’albo, capace di attirare potenzialmente sia nuovi lettori (per il suo carattere in un certo senso sia riassuntivo che “alieno”, e per la propulsione del marketing che Bonelli ha voluto dispiegare intorno ai 30 anni della serie) che ‘fermare’ i vecchi, Recchioni dimostra un ponderato ed efficace equilibrismo. Il punto di congiunzione fra spunti vecchi e nuovi, con un piede o entrambi i piedi perfettamente sprofondati nel passato, ma con uno sguardo aperto – quanto basta – verso il futuro. Cosa poi ci attenda in questo futuro, non ci è ancora dato saperlo.