Potreste avere letto in giro che Supreme Blue Rose è l’ennesima incursione di Warren Ellis nella fantascienza più astratta, fatta di squarci tra dimensioni e stringhe temporali. Oppure che si tratta del titolo super-eroistico più strano degli ultimi quindici anni. O, ancora, del proseguimento delle travagliate avventure di Supreme. Uno dei primi personaggi di casa Image – di quelli copiati paro paro da Marvel e DC, ma con l’aggiunta di qualche muscolo e psicosi in più – a cui hanno prestato le proprie idee autentici monumenti come Alan Moore o Erik Larsen.
Ecco, in realtà, nulla di tutto ciò. Supreme Blue Rose parla di un ex lettore di fumetti, uno di quelli che fino ai quindici-sedici anni si leggeva ogni roba con in copertina grossi tizi impegnati a darsele di santa ragione. Come in tanti altri casi, però, la fiamma della passione andava spegnendosi col passare degli anni, indirizzando tempo e risorse verso altri interessi. Una storia d’amore che sembrava essere arrivata alla sua ultima boccata d’ossigeno. Fino ai fatidici trenta, quando – vuoi per un moto di nostalgia, vuoi per il bombardamento cinematografico degli ultimi tempi – ecco rispuntare la curiosità per quegli strani individui bardati in mantello, mutandoni e tuta aderente.
I tempi cambiano, e poi ricambiano, insomma. Ora vediamo il Nostro, tutto speranzoso, dirigersi di gran lena verso quella che era la sua fumetteria di fiducia – sempre che non abbia chiuso nel corso degli anni – pronto a lasciarsi sedurre da tutte quelle belle copertine infilate con cura nell’espositore. Si fida di qualche vecchia firma che ben conosceva, e si butta su qualcosa letto all’epoca solo di striscio. Tanto per farsi un’idea generale e aggiornarsi nel più breve tempo possibile.
Una volta a casa, costui si butta sul divano e comincia a pregustarsi un lezioso ritorno a quei pomeriggi da sfaticato adolescente nerd, sbragato in poltrona col suo prezioso carico di evasione a buon (insomma…) mercato. Ma qualcosa va storto. Chi era bianco ora è nero, chi era uomo è donna, i buoni sono i nuovi cattivi, ci sono un sacco di facce nuove a vestire vecchi panni e facce consunte dagli anni infilate in improbabili outfit all’ultima moda. Tonnellate di rimandi si affastellano, dando per scontato che tutti riescano ad afferrarli. Il senso di un sacco di punti cardine è stato stravolto senza nessuna pietà; contemporaneamente, radici ancestrali riemergono quando meno te lo aspetti. E come colpo di grazia, l’annuncio in ultima pagina: dal mese prossimo si ricomincia tutto da capo. Fingiamo di azzerare tutto a uso e consumo di presunte legioni di nuovi lettori. La confusione è seconda solo alla frustrazione di non aver capito nulla di quanto sta succedendo, e così i nuovi volumi finiscono presto in un angolo polveroso. La vecchia fiamma torna a sopirsi, stanca e frastornata. Fine della storia.
Scherzi a parte, questo nuovo lavoro di Warren Ellis è davvero una presa di posizione pesante e accusatoria verso la moda dilagante dei reboot. La trama di questa breve run è un capolavoro di metatestualità che la dice lunghissima sulla capacità di questo ex “ragazzaccio terribile” di dire la sua sul mondo dell’intrattenimento odierno. Come i fan di Supreme di vecchia data sapranno bene, Supremacy è quel posto in cui vanno a rifugiarsi tutti i vari Supreme invitati al prepensionamento coatto dall’inevitabile moda del momento (prima andava quello Golden age, poi quello noir, poi quello realistico, …). All’avvento di ogni nuova gestione – altro termine ben caro a Ellis – il vecchio personaggio si ritira in questa sorta di aureo ospizio lasciando spazio al nuovo arrivato. Questo fino a quando qualcosa va storto e il meccanismo si inceppa, rompendo letteralmente il gioco.
Per la precisione, lo stesso Supreme scompare. E i confini del mondo cominciano a sfumarsi. Qualcosa di vecchio viene a galla, qualcosa di nuovo arriva da chissà dove, l’infodumping scientifico/esistenziale raggiunge vette siderali e noi – i lettori – finiamo per non capirci più nulla. Proprio come l’ex-appassionato che mi sono inventato poco sopra. E la protagonista di queste sette uscite (“I am just not even questioning these things any more”, afferma a un certo punto). A calcare ancora di più la mano troviamo le tavole di Tula Lotay che sono, come dire, strepitose. Vi strapperanno letteralmente gli occhi dalle orbite, soprattutto per la maniera perfetta con cui si sposano al concept dietro a tutta la serie. Stratificate (sopra la vignetta c’è sempre qualcosa a ‘disturbarla’ e, da sotto, riemergono altri strani segni), spesso confuse, tecnicamente strabilianti, grondanti influenze disparate e sperimentalismi a rotta di collo. Sarà anche una cattiveria gratuita, ma è grottesco pensare che un’artista di questa caratura sia finita a lavorare su di un eroe creato da Rob Liefeld. Oppure è l’ennesima ciliegina sulla torta di un discorso complesso e studiato in ogni minimo particolare. Proprio come la sceneggiatura pare saltare di palo in frasca con una frequenza crescente, così le pagine paiono essere un collage di più testate. Da anatomie perfette emergono confusi schizzi a matita, mentre squarci grafici si adagiano su superfici pittoriche (seppur digitali). Come succede con le parole, anche attraverso i disegni non ci capirete un gran che. E proprio questo vi porrà davanti a un bivio.
Tuffarvi in questo sconsiderato flusso di coscienza e cercare di goderne perlomeno l’indiscusso fascino? Oppure considerare quest’opera come qualcosa di cui sarebbe bastato il concetto, senza il bisogno effettivo di leggerlo? Empire di Andy Warhol è un capolavoro. Basta l’idea che qualcuno abbia realizzato una celebrazione così pura del cinema più primigenio per dirlo, non siamo certo tenuti a sorbirci tutte le sue – otto – ore di estenuante immobilismo. Alla stessa maniera Supreme Blue Rose è una gemma per come esplicita il cul de sac in cui l’intrattenimento è andato a infilarsi, ma è talmente criptico che viene da chiedersi se ne valga davvero la pena (escluso il rifarsi gli occhi). Dopotutto, il fatto che qualcuno abbia trovato il modo per mettere in prosa e disegnare il casino portato da questi reboot e rilanci, è sufficiente per renderlo un’uscita speciale. Destinata a rimanere nella memoria.
Warren Ellis – mi permetto una recensione quasi sceneggiatore-centrica, perché mi pare evidente quale sia la reale paternità di quest’opera – prende il frastornante guazzabuglio in cui si sono trasformati universi narrativi sempre più espansi e lo trasforma in puro concetto. Ne esplicita il pericolo – saremo per sempre prigionieri di noi stessi – e ci fa capire che non dobbiamo vergognarci se del primo numero di Secret Wars non abbiamo capito nulla. Come mai ci sono due Reed Richards? Perché il mondo sta per finire? Perché i super-eroi pensano bene di mettersi in salvo sulle loro astronavi, abbandonandoci al nostro mesto destino? Perché qualcuno pensa che questa roba dovrebbe attirare più lettori rispetto all’introduzione di personaggi e vicende completamente inedite? Viviamo in un mondo sfuocato, dove è impossibile trovare spiegazioni a un sacco di domande.
Aya Kyogoku, sceneggiatrice nipponica di videogame, raccontava di conoscere un fan intenzionato a giocare ad Animal Crossing – simulatore di vita “reale” da lei scritto – fino alla comparsa di una rosa blu nel suo giardino virtuale. Lo stava facendo ormai da sei anni. Alla stessa maniera, la rosa blu di Ellis potrebbe rappresentare le probabilità che il portare per l’ennesima volta a galla il cadavere di un personaggio morto e sepolto troppe volte possa aprire le porte a qualcosa di davvero notevole. Ironico che, nell’abbattere ogni forma di speranza in questa eventualità così rara, alla fine qualcuno ci sia riuscito.
Supreme Blue Rose
di Warren Ellis e Tula Lotay
Lion Comics, 2016
168 pagine, 15,95 €