In seguito alla recente pubblicazione di una vignetta di Riccardo Mannelli, su Il Fatto Quotidiano (datato 10 agosto 2016), sono stati spesi fiumi di parole per attaccarla o difenderla. Se mi aggiungo scrivendone qui è perché credo che le polemiche suscitate da quella vignetta siano del tutto, o almeno parzialmente, fuori fuoco rispetto alle problematiche più ampie che un lavoro di questo genere pone. Se infatti l’accusa di sessismo rivolta da più fronti nei confronti di Mannelli ha un certo grado di legittimità, vale la pena ragionare su come e attraverso quali strumenti grafico-retorici questo atteggiamento può essere considerato come effettivo.
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La vignetta presentava un ritratto caricaturale della ministra delle riforme Maria Elena Boschi, commentata da un gioco di parole: “riforma: lo stato delle cos(c)e”. La ministra è tratteggiata con lo stile tipico del Mannelli vignettista, che dialoga intensamente con l’approccio, certo più articolato e ricco di dettagli e sfumature, del Mannelli pittore e ritrattista.
Di cosa parliamo quando parliamo di caricatura
Ebbene sì: non siamo qui per proseguire nelle polemiche, bensì per prendere ‘sul serio’ la vicenda. A costo di partire da una lunga premessa sul ‘linguaggio’ di cui tocca discutere, ovvero la caricatura.
Con Werner Hofmann possiamo affermare che la caricatura è «l’uso artistico della deformazione a scopo satirico» (Werner Hofmann, La caricatura. Da Leonardo a Picasso, Angelo Colla Editore 2006, p. 49). La caricatura si afferma come arte autonoma, antinomica – “un’arte contro”, per citare ancora Hofmann – a partire dal Rinascimento italiano. Infatti, anche se nel Medioevo si possono trovare moltissimi esempi di raffigurazioni di corpi sproporzionati, esagerati, bizzarri, è durante il Rinascimento che la retorica grafica della deformazione inizia a interessarsi di personaggi ben identificabili, spesso potenti, invece che di generici “tipi”, come quelli raffigurati sui capitelli delle cattedrali gotiche. Semplificando un percorso complesso, si può dire che è in questo periodo, quindi, che la caricatura passa dal registro del grottesco a quello della satira, affermando con forza la propria natura antinomica rispetto a un’ideologia del bello e del giusto.
Il brutto, il difforme, il disarmonico si affermano come categoria estetica autonoma durante il Rinascimento, proprio grazie alla possibilità di porsi in contrapposizione ad una rinnovata estetica del “bello”. Il disegno del Papa Innocenzo XI realizzato da Gian Lorenzo Bernini rappresenta uno dei primi esempi riconosciuti dell’arte della caricatura come la abbiamo descritta:
Il personaggio è ritratto in uno stato quasi larvale. Il naso aquilino, il collo secco, le mani scheletriche, il Papa è rannicchiato contro la testata del proprio letto, in un atteggiamento che contrasta con le austere raffigurazioni ufficiali del pontefice, alcune realizzate dal Bernini stesso. L’intento satirico è chiaro anche per l’osservatore di oggi, ma doveva caricarsi di un senso ancora più profondo agli occhi di un osservatore seicentesco al corrente, si suppone, dei suoi molti malanni (gotta delle mani, podagra, calcoli renali) e della sua – oggi diremmo ben giustificata – ipocondria. Eppure i pochi tratti nervosi e tremolanti, una rivoluzione nel contesto della ritrattistica del periodo, così come i necessari elementi identificativi – la mitra che Innocenzo XI indossa ingiustificatamente nel contesto privato del proprio alloggio – offrono al nostro sguardo tutto quello che è necessario sapere per avere una sufficiente consapevolezza dell’intento dell’artista.
In quello che è diventato uno dei disegni più noti e influenti della storia dell’arte, Bernini sbeffeggia un uomo di potere – di immenso potere – riducendolo ad una condizione di fragilità umana perfettamente riconoscibile. Il ritratto di Lorenzo XI ci offre un validissimo esempio dei precetti che sono alla base dell’arte caricaturale. 1) Una estrema sintesi che allarga quel ventaglio di possibilità interpretative che invece la ritrattistica ufficiale, a scopi propagandistici, cercava di ridurre per costringere l’osservatore a dedurre un senso univoco dell’opera. 2) L’esaltazione, attraverso operazioni di deformazione, riduzione o ingigantimento di pochi tratti peculiari, allo scopo di offrire un ritratto dello stesso irriverente e beffardo. 3) La scelta stessa del soggetto – un uomo di potere – che indica una direzione precisa dell’intento dissacratorio, che si muove dal basso verso l’alto, dal meno potente dal più potente.
Tutti questi precetti, naturalmente, sono stati oggetto di un’infinità di interpretazioni e rimodellamenti nel corso dei secoli. Ad esempio, attraverso un processo che potremmo dire metonimico, la raffigurazione di un tipo è servita per la raffigurazione di un’intera categoria o di un gruppo di potere. Si vedano, ad esempio, le svariate rappresentazioni di banchieri e capitani di industria panciuti, grassi come maiali se non proprio raffigurati con fattezze suine, rintracciabili su molte pubblicazioni satiriche a cavallo fra Ottocento e Novecento. Seppur elastici e interpretabili, questi precetti, presi con le dovute cautele, potranno essere molto utili ad affrontare il ragionamento che si andrà a sviluppare da questo punto in poi.
Mannelli pittore, fra putrescenza e tenerezza
Riccardo Mannelli è un pittore dalle straordinarie capacità. La ferocia vivida “da banco del macellaio” – metafora resa persino esplicita in alcune sue opere – dei suoi ritratti ha il pregio raro di offrire una visione dell’umanità che è al tempo stesso intenerente e ributtante, per non dire violentemente respingente.
I gesti di affetto che i suoi personaggi sovente si scambiano nei suoi quadri vengono fissati in attimi di immobilità gelida che ne annullano, o perlomeno ne mortificano, la dimensione amorevole, aprendo incolmabili abissi di solitudine, sottolineati dalla fissità degli sguardi che i suoi soggetti rivolgono allo spettatore. La carne degli uomini e delle donne rappresentati dal Mannelli pittore, grazie all’uso sapiente delle pennellate, del colore e delle luci, sembra quasi sempre in via di disfacimento. Sono corpi non idealizzati, lontanissimi dall’estetica standardizzata e totalitaria che il mondo dello spettacolo ci offre. Corpi pieni, con muscolature rilassate e pance prominenti, asimmetrici, itterici e quasi sempre oltre la soglia della mezza età.
Tuttavia questo approccio è solo uno di quelli possibili all’opera pittorica e grafica dell’autore. Perché quei corpi così imperfetti contribuiscono alla riformulazione di un’estetica, di una affettività e infine – non solo sintomatologicamente – di una sessualità non conforme. Sono corpi che trovano una ragion d’essere proprio nella loro individualità e nella somma caratterizzante di quelle che sarebbe fuorviante chiamare imperfezioni. Corpi che si rivestono di una bellezza individuale che certo abbraccia anche i registri del tragico e del difforme (in alcuni casi persino del mostruoso) ma in cui possiamo riconoscerci. E riconoscerci fecondamente al prezzo, fortunatamente, di un’iniziale ripulsione.
Non corpi ideali, ma corpi reali, non un traguardo a cui tendere – come nei casi dell’estetica dei corpi proposta dal mondo dello spettacolo e della pubblicità – ma specchi attraverso cui affrontarci, dopo aver passato al vaglio i filtri del nostro senso di inadeguatezza, della nostra vanità e della nostra complessiva e spesso indotta percezione del sé. Se Mannelli è quindi, da una parte, uno dei più acuti e più abili ritrattisti della putrescenza morale ed estetica che caratterizza il contemporaneo, dall’altra non è possibile non trovare nei suoi quadri anche una certa tenerezza. Che se non raggiunge forse mai una dimensione salvifica – e sicuramente non la raggiunge nelle opere che raffigurano potenti – acquista per lo meno quella della comprensione. Una comprensione che spesso, bisogna dirlo, si riveste del fascino dello sguardo dell’entomologo o dell’anatomopatologo.
Per Mannelli la rappresentazione della nudità è quantomeno uno strumento di democratizzazione dei soggetti rappresentati, capace di cogliere la bellezza individuale del singolo.
Mannelli caricaturista, e il problema degli iconotesti
Il lavoro del Mannelli caricaturista e satirista, invece, si presta ad analisi di altro tipo. Pur mantenendo inalterate alcune delle specificità che caratterizzano il suo lavoro di pittore e di ritrattista grafico, l’opera caricaturale di Mannelli convince di meno. Bisogna innanzitutto dire, prendendo per comodità le opere realizzate dall’artista per Il fatto quotidiano, che non si può parlare di un univoco approccio caricaturale. Mannelli passa da un crudo iperrealismo all’esagerazione deformante alla rappresentazione di tipi.
Quello che preme sottolineare è che, nei casi citati e in altri ancora, Mannelli sembra non fidarsi della capacità comunicante e disturbante del proprio segno, offrendo anzi ai lettori del quotidiano, attraverso l’inserimento di commenti verbali (i giochi di parole di cui sopra), una versione ridotta, per non dire disinnescata della propria arte. In altre parole, il Mannelli vignettista, satirista e battutista non regge assolutamente il confronto con il Mannelli ritrattista e moralista che è possibile apprezzare nelle opere poco sopra proposte e in molte altre.
Mentre infatti l’immagine, per sua natura, si carica di senso aprendosi a molteplici e fertilmente contradditorie interpretazioni, l’inserimento del testo verbale fa collassare immediatamente e violentemente questa moltitudine di senso. Parliamo, nel caso di opere in cui i due codici, verbale e visuale, sono fisicamente compresenti nell’opera, di «iconotesto», secondo la definizione di Michael Nerlich poi ripresa da Alain Montadon e altri (Alain Montandon, «Qu’est-ce qu’un iconotexte? Réflexions sur le rapport texte-image photographique dans La Femme se découvre d’Evelyne Sinnassamy», in Id. (a cura di), Iconotextes, Ophrys 1990, pp. 255-302).
Per comprendere come l’inserimento di un testo verbale all’interno di una immagine possa creare questa riduzione delle possibilità interpretative, riportiamo le parole che Peter Wagner dedica ad una vignetta comparsa sulla rivista satirica britannica Private Eye il 26 febbraio 1993. La vignetta rappresenta due condannati a morte trasportati su un carro verso la ghigliottina. Lo scenario è quello della Rivoluzione Francese e uno dei due personaggi può essere identificato facilmente con Maria Antonietta. La didascalia in calce recita: «Sarebbe potuta andare peggio, Marie – potevamo essere fatti a pezzi dai tabloid». Di seguito l’analisi di Wagner:
«La vignetta contiene alcuni dettagli che, come segnali stradali, aiutano l’osservatore ad arrivare ad un primo livello di comprensione: la ghigliottina, i sanculotti e il carro con due condannati si riferiscono al periodo del Terrore durante la Rivoluzione Francese. Tuttavia, per comprendere ciò che sta realmente accadendo, abbiamo bisogno di più informazioni di quelle che ci vengono fornite dai significanti pittorici, che sono troppo ambigue. Tali informazioni sono fornite dalla didascalia sotto la vignetta. Senza di esso l’immagine non avrebbe senso, o meglio sarebbe aperta a troppe interpretazioni o letture. Come i titoli, le didascalie possono generare significato(i) che servono come quelli che Michael Foucault ha definito “picchetti di sostegno che tuttavia le termiti rodono e indeboliscono indebolendo le nostre costruzioni interpretative.» [Peter Wagner, Reading Iconotexts: From Swift to the French Revolution, Reaktion Books 1995, pp. 9-10]
È ovvio che la didascalia non basterebbe in ogni modo alla comprensione della vignetta se l’osservatore non avesse un proprio bagaglio di conoscenze che gli permetta di identificare il periodo storico, gli oggetti e gli attori dell’azione rappresentata. Nello specifico caso qui riportato la didascalia allarga il significato proposto dall’immagine allo scopo di costruire un senso comune che nasca dal confronto dei due codici utilizzati.
La vacuità della ministra e la mercificazione del corpo
Passiamo ora alla vignetta di Mannelli foriera di tante polemiche. È evidente che il disegno si configura come una caricatura della ministra. I tratti sono, seppur lievemente, esagerati nelle proporzioni, le mani esageratamente grandi e ossute, gli zigomi estremamente alti e coloriti. È altresì evidente che lo sguardo dell’osservatore è portato a focalizzarsi, oltre che sulla enfatica mimica del personaggio, sulle cosce lasciate scoperte dal vestito che si è ritirato verso l’inguine e sotto le natiche. Diamo anche qui per scontato che l’osservatore di questo disegno possieda gli strumenti minimi che gli consentano per lo meno di riconoscere il soggetto rappresentato. Inoltre, la vignetta non si dà di per sé, come possiamo vederla qui, ma si inserisce in un paratesto, il quotidiano che la ospita, che la contestualizza sia fisicamente sia all’interno di un discorso critico nei confronti della Ministra che il quotidiano stesso porta avanti da lungo tempo.
Proviamo ora a immaginare il disegno senza il gioco di parole che lo accompagna. Il ritratto caricaturale restituisce un senso generale di vacuità. L’oratrice si rivolge ad un pubblico assente. Pur rivestendo un ruolo istituzionale, Boschi nella rappresentazione dell’artista non è abbigliata come ci si potrebbe aspettare considerando la sua funzione, ma indossa anzi un corto vestito estivo. La mimica esagerata, enfatica, quasi da varietà, così come lo sguardo carico ed esaltato da imbonitore da televendita, ci comunica un’assenza di senso o, per lo meno, l’utilizzo di una retorica che supera o annulla il contenuto del discorso che la ministra sta presumibilmente tenendo. Naturalmente la natura del contendere, e di ciò siamo informati dalla cronaca quotidiana, sono le riforme del governo Renzi e in particolare il prossimo referendum costituzionale per cui la ministra si sta spendendo da tempo in prima persona.
Il ritratto non è di per sé volgare, ma è evidente che Mannelli sta portando una critica relativa alla mercificazione del corpo di Boschi, a voler dire l’aspetto seducente della ministra, la sua sensualità in altre sedi più volte rimarcata, viene usata per coprire un vuoto d’idee e di argomentazioni. Dario Fo in particolare si è espresso in maniera piuttosto netta contro le critiche che vorrebbero questa come una rappresentazione volgare del corpo femminile, paventando un intento censorio da parte dei detrattori del lavoro dell’artista, molti dei quali, ad onor del vero, provengono dalle fila del giornale con cui lo stesso Mannelli collabora:
«È bellissima, il ministro appare come una signora elegante e niente affatto volgare, triviale o oscena. Non è un disegno indecente, né maleducato. È utilizzato per spiegare il gioco di parole. Ma prendersela per un innocente gioco di parole è una reazione che svela rozzezza e pochezza intellettuale. Il vuoto assoluto del senso dell’umorismo.» [Dario Fo, intervistato da Il fatto quotidiano].
Pur concordando nel merito delle critiche sulla volgarità del disegno, ci pare necessario notare che il problema di questo lavoro è proprio il voler porre la vignetta, polisemica, come commento al modesto e “chiuso” gioco di parole che l’incornicia. La questione della mercificazione del corpo femminile e, più in generale del “corpo” istituzionale – e gli esempi in tal senso potrebbero essere molti – è troppo importante per permettere che nell’affrontarla si presti troppo facilmente il fianco ad accuse di sessismo. E sottrarre il disegno di Mannelli ad attacchi di questo tipo è fin troppo facile. Non solo la nudità come tecnica di svelamento, riduzione e normalizzazione è tipica dell’opera di Mannelli, che ha ritratto, svestiti ed esposti nella miseria delle loro carni quotidiane, tanto uomini quanto donne di potere e non. Ma si tratta di un leitmotiv del ‘linguaggio’ della caricatura in pratica dal momento della sua invenzione. Come ricorda giustamente Michele Serra, inoltre:
«Chi si è molto offeso per la vignetta di Riccardo Mannelli contro la ministra Boschi sul Fatto quotidiano di ieri potrebbe ricalibrare il proprio giudizio avendo memoria di quanti corpi maschili sono stati usati, anche molto maleducatamente, dai satirici degli scorsi decenni. La gobba di Andreotti, il pisello minuscolo di Spadolini, il Natta desnudo di Tango (inserto dell’Unità, e Natta era il segretario del Pci), perfino il Berlinguer in vestaglia di Forattini, raffigurato come un omarino sprezzante e decadente. Era sessismo anche quello? Oppure, molto più semplicemente, se il re è nudo, e lo è da un po’ di secoli, prima o poi tocca anche alla regina, perché alle pari opportunità, purtroppo, corrispondono pari inconvenienti?»
Anche se la questione femminile, in un mondo in cui la parità di diritti fra uomini e donne non è certamente ancora stata raggiunta, ha di certo un suo peso nell’affrontare tematiche che riguardano la rappresentazione del corpo delle donne, non è certo sinonimo di equità indignarsi per le cosce appena scoperte della Boschi e non per le molte rappresentazioni della gobba di Andreotti o della bassa statura, spesso ferocemente rimarcata da imitatori e vignettisti, di Renato Brunetta.
Inoltre Mannelli, intelligentemente, non ne fa una questione di genere ma piuttosto dipinge un contesto in cui la sessualizzazione dei corpi femminili e la loro esposizione può essere usata, per chi è d’accordo con la sua interpretazione, come arma di distrazione. Non si sottolinea, come nei casi delle molte rappresentazioni satiriche di Andreotti, un difetto fisico che diventa simbolo di una stortura morale, ma piuttosto viene dato rilievo di come una precisa consapevolezza del proprio fascino possa essere utilizzata per spostare l’attenzione dalle importanti questioni affrontate (o meglio dire, eluse nelle intenzioni del vignettista) al corpo, così come alle capacità retoriche, di chi le comunica. Nel primo caso si tratta dell’attacco, a volte un po’ bieco, rivolto verso a un difetto o a una mancanza indipendente dalla volontà e dal carattere del soggetto rappresentato. Nel secondo, più correttamente, di una critica ad un comportamento, sempre nelle intenzioni dell’autore, consapevole e per questo esecrabile.
Una critica certo feroce ma legittima, che nel passato ha coinvolto anche soggetti di sesso maschile. Come quando Silvio Berlusconi veniva rappresentato come un imbonitore da fiera o, come ricorda ancora Serra, quando «l’avvenente onorevole Casini fu preso per i fondelli reiteratamente da Neri Marcorè (e sulla televisione pubblica, per giunta) come seduttore da strapazzo delle elettrici». Insomma, il discorso critico-satirico che Mannelli conduce attraverso i suoi strumenti grafico-retorici è legittimo, anche se naturalmente si può essere o non essere d’accordo sul merito.
Il disegno di Mannelli, inoltre, comunica una galassia di significati che difficilmente può essere semplicemente ricondotta ad una critica sessista non considerando quanto detto finora. Peccato che il banalissimo gioco di parole a corredo del ritratto di Boschi, come detto, faccia collassare questa galassia di senso nell’imbuto di un’interpretazione che, se non è univoca, sicuramente è molto più ristretta. Il passaggio è quello da un’architettura di senso complessa ad un’invettiva, in sé peraltro non particolarmente brillante, ed anzi più rabbiosa che arguta, più feroce che ficcante.
Per quanto riguarda nello specifico i giochi di parole mi sento di condividere pienamente la posizione di Daniele Luttazzi, che sull’argomento si è espresso piuttosto chiaramente:
«Lasciate perdere i giochi di parole. Innanzitutto perché sono la prima cosa che viene in mente a tutti. Quindi dov’è la sorpresa? Solo ieri ho ricevuto 48 esempi di questa battuta: L’ex terrorista Battisti rompe il silenzio: Mogol gli scrive il testo. In secondo luogo perché i giochi di parole sono tipici dei pedanti che vogliono sfoggiare il proprio acume. Per questo irritano. Un comico bravo gioca con le idee. Infine perché i giochi di parole originali richiedono esperienza.» [Daniele Luttazzi, Almanacco Luttazzi della nuova satira italiana 2010, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 10]
«Vi faccio un esempio. Woody Allen, come i veri umoristi, non fa mai giochi di parole. Il gioco di parole è tipico del dilettante. Il vero umorista disprezza il gioco di parole perché, nel gioco di parole, la tecnica retorica è sovrabbondante rispetto all’immagine evocata, e questo rovina la caratterizzazione dei personaggi e la narrazione, che invece sono, al di là della risata, i veri scopi [di un testo]. Il sottotesto di un gioco di parole diventa “guardate quanto sono intelligente”, ed è terribile.» [qui citato da Christian Raimo]
Mannelli non è certo nuovo a giochi di parole di questo tipo. Mattarella, poco prima di essere eletto capo dello stato, veniva chiamato dall’artista «Mozzarella»; in una vignetta che rappresentava il neo Primo ministro Enrico Letta (nipote dell’ex Presidente Gianni Letta) la didascalia recitava «Facciamo un governo di Servi-zio» e via dicendo. Una terza vignetta, mostrata di seguito, presenta Gianroberto Casaleggio, co-fondatore e importante guida ideologica del Movimento 5 Stelle nelle vesti di un direttore d’orchestra.
Anche in questo caso il riferimento, per chi ha una minima conoscenza delle polemiche sorte intorno alle accuse di scarsa indipendenza dei parlamentari 5 stelle, è chiaro e palese. L’immagine di per sé è evocativa. Il testo verbale non fa altro che ripetere pedantemente quello che l’immagine già comunica. La didascalia diventa didascalica nel senso deteriore del termine: non collabora ad un aumento del senso ma, piuttosto, complotta al suo confinamento entro recinti fin troppo riconoscibili. Da una parte, dunque, la forza evocativa dell’immagine, dall’altra la noiosa e dottrinale verve del polemista.
Mannelli feroce vs. Mannelli complice
Mannelli, con la sua opera pittorica e in parte con quella grafica, partecipa alla costruzione di un mondo altro che è al contempo uno specchio che restituisce un’immagine feroce del nostro, proponendo un alternativo sistema di valori che si pone criticamente nei confronti dei nostri schemi estetici, comportamentali ed etici introiettati e consolidati.
In altre parole, se con i suoi dipinti l’artista è sempre un passo di fronte all’osservatore, che è costretto ad un riconoscimento che passa attraverso una dolorosa presa di coscienza – l’essere parte integrante di quel mondo che inizialmente e istintivamente è portato a rifiutare – con le sue vignette liscia invece il pelo, per così dire, al proprio pubblico, assecondandolo in un riconoscimento immediato che assomiglia pericolosamente alla complicità acritica del branco. «Quella battuta l’avevo pensata anche io»; «È proprio così», è portato a pensare il lettore del fatto, attraverso ad uno schema di pensiero che l’equivalente astratto del dar di gomito al proprio sodale. Da una parte abbiamo un percorso conoscitivo e autoconoscitivo che può portare a uno stravolgimento del proprio sistema valoriale, dall’altro un’immobilità che si ferma allo strato superficiale rappresentato dalla battutaccia di spirito. Una risata, magari feroce, e tutto resta come prima. Impressione rafforzata dalla «vignetta riparatoria» (ancora più modesta dell’originale) che un altro autore del Fatto, Natangelo, ha pubblicato qualche giorno fa sulle stesse pagine e che, a mio avviso, fallisce completamente il bersaglio:
In questo senso le accuse di sessismo rivolte alla vignetta di Mannelli acquisiscono una loro legittimità. Se quella alla mercificazione del corpo, per come fin qui descritta, era un’allusione che si inseriva in uno schema critico più ampio e complesso, quel «Lo stato delle cos(c)e» focalizza l’attenzione su un unico elemento, le gambe della ministra. Se il disegno è “freddo” e brutale nella sua chiarezza entomologica, le parole invece sono “calde” e restituiscono una sensazione di fastidiosa lascivia. Al creatore di mondi, al grande moralizzatore si è sostituito in un attimo un piccolo bacchettone.
A un certo punto, il disegnatore è rientrato in scena. L’autodifesa di Mannelli dalle accuse di sessismo:
«Questo è sessismo? Non so se ridere o piangere. Il mio disegno può non piacere, ma dice una cosa molto semplice: la Boschi va in giro da mesi, ogni sera su un palco diverso, a comunicare il vuoto pneumatico. A riempire chi la ascolta di parole senza significato. La vignetta sostiene questo: di quei discorsi non resta nulla, al massimo le cosce.»
Così come quella, per la verità un po’ semplicistica, della libertà di satira:
«Ripeto, si parla delle cosce per coprire il vuoto. La satira può non piacere e può anche non essere capita, ma bisogna tollerarla. Anzi, “tollerare” è una brutta parola: bisogna accettarla.»
appaiono perciò irrilevanti. Nel primo caso perché, forse con un’ingenuità che sfiora l’estrema consapevolezza, Mannelli non considera il proprio pubblico come una parte generatrice del sistema di senso che la sua vignetta ha inaugurato. Si può non considerarsi sessisti, si può persino non esserlo (e in tutta onestà la posizione artistica e intellettuale di Mannelli sembra essere quella di un generalizzato “nichilismo”, che travalica alla grande le questioni di genere), ma non si può escludere che si venga percepiti come tali, sia che questa percezione coinvolga i suoi detrattori che, in maniera molto più preoccupante, i suoi esegeti.
Per quanto riguarda la libertà di satira, poi, va detto che a fronte di una legittima richiesta di completa libertà espressiva che travalichi gli altrettanto fastidiosi e pericolosi recinti del politically correct, va considerata come corollario la legittimità di una critica di ritorno altrettanto libera e ad ampio spettro, sempre che questa vada a configurarsi come tentativo di censura pregiudizievole.
Molti sostenitori di Mannelli, fra cui in particolare il vignettista del Fatto Natangelo, hanno sottolineato come l’attenzione che la vignetta su Boschi ha attirato dimostri, in un certo senso, la giustezza della tesi espressa. Si guarderebbe il dito per non vedere la luna, le cosce per non preoccuparsi delle riforme.
Io penso in realtà che questa tesi sia insostenibile perché presuppone l’incapacità del satirista o dei satiristi, così come del loro pubblico, di condurre più discorsi paralleli. Si può condurre una anche feroce critica politica interrogandosi al contempo su questioni riguardanti la legittimità delle forme attraverso cui questa critica viene espressa. Volendo completamente ribaltare questo sistema logico si potrebbe arrivare ad affermare che un’opera che sposta in maniera così decisa, nei fatti, l’attenzione dal generale al particolare, dalle riforme alle cosce, è un’opera fallimentare che, ideologicamente, replica esattamente gli stessi schemi logici e retorici che critica.
L’ultima annotazione che chiude questa (lunga, lo so) riflessione potrà apparire forse marginale rispetto ai temi fin qui trattati. E in un certo senso lo è. Tuttavia, credo che anche le modalità di inserimento del testo verbale all’interno del ritratto appaiano frutto di una volontà di sottomettere la polisemanticità dell’immagine alla parola.
La didascalia non è, come nel caso di altre vignette dell’autore, posta in fondo all’immagine, ma è la prima cosa che notiamo, anche per via del colore rosso che si staglia sul bianco e nero del disegno, osservandola. Inoltre il font usato pare totalmente incoerente con lo stile grafico di Mannelli. Un particolare, certo, ma di quelli che contribuiscono ad aumentare il senso di scollamento fra i due codici utilizzati.