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Quando i reboot funzionano: Star Trek Beyond

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La serie televisiva Star Trek, creata da Gene Roddenberry, è nata esattamente cinquanta anni fa, nel 1966. La storia è nota: le tre stagioni della serie originale (i fan la chiamano TOS, The Original Serie) non ebbe successo durante la messa in onda e fu terminata piuttosto bruscamente dalla NBC. Fu con le repliche nel network che il fenomeno esplose, divenne virale (come diremmo oggi) e diede vita a un cartone animato, vari film, altre serie televisive, tantissimi romanzi, parecchi fumetti.

star trek beyond recensione

In questi giorni sbarca nelle sale il terzo film del reboot di Star Trek operato da J.J. Abrams, Star Trek Beyond. Esce proprio quando Netflix annuncia che distribuirà tutti gli episodi di tutte le serie televisive in 186 paesi più gli episodi della nuova serie, che comincia a gennaio e che resta esclusiva direct to digital della CBS solo negli Stati Uniti.

Star Trek come franchise è una serie di fantascienza costruita su tre pilastri. Il primo è il senso del fantastico, che la televisione convogliava attraverso le avventure dell’equipaggio originale dell’Enterprise, lanciato nel cosmo per la sua missione quinquennale di esplorazione per arrivare là dove nessun uomo (poi trasformato in “nessuno”, per rispetto della parità di genere) era mai giunto prima. C’è una domanda filosofica, quasi esistenziale in apertura (ogni episodio ha bisogno di un tema, più che di uno sforzo di continuità attraverso la stagione) che trova risposta nella conclusione della singola storia.

Il viaggio è una scusa per introdurre una teoria potenzialmente infinita di domande e di storie: con le quali rispondere a differenza di Guerre Stellari, infatti, Star Trek è un universo scritto in maniera corale da veri autori di fantascienza, un po’ sulla falsariga degli episodi di Ai confini della realtà. Solo che qui non cambia mai il cast dei personaggi principali: variano solo le circostanze e i dubbi, le domande che gli interpreti si pongono. Un po’ come i personaggi di un dramma shakesperiano (a cui varie volte Star Trek ha attinto e che spesso sono stati utilizzati come chiave di lettura di vari episodi).

Questo approccio interpretativo vale nella prima generazione di telefilm, nei film successivi e poi nelle derivazioni ulteriori. È nel DNA della serie e costituisce il secondo pilastro: Star Trek è fantascienza vera, che racconta storie fantastiche ma costruite sempre attorno a un “what if” che manca completamente invece nell’universo di Guerre Stellari (perlomeno, in quello non “espanso”).

kirk Uhura kiss bacio star trek

Terzo pilastro: chiamiamola coscienza sociale, ambientalismo umanista, correttezza politica. Star Trek è una serie nata negli anni Sessanta per raccontare un clima opposto a quello che si viveva nella società americana e in generale nei paesi occidentali: uguaglianza, solidarietà, diritti, pacifismo, ambientalismo. Dentro il primo Star Trek c’è il citatissimo bacio tra Kirk e Uhura, che è anche il primo bacio tra un bianco e una nera trasmesso dalla televisione americana. Ma non c’è solo quello: dall’equipaggio multicolore e multiculturale per rappresentare non solo il melting pot della Federazione dei pianeti ma anche una utopia in cui gli Stati Uniti avessero vinto tutto e la pax americana regnasse sulla Terra poi sulla galassia, all’incontro costante con il diverso, l’alieno, il misterioso. Uniti si superano le difficoltà, uno è più importante di molti, il mistero non esiste, è solo che ancora non lo conosciamo.

Star Trek è sempre stata una fabbrica di buone intenzioni, di apologhi sulla scienza buona, la conoscienza buona, l’essere vivente (umano, alieno) buono. I cattivi sono tali per ignoranza o per violenti traumi, per trasformazioni che sono quasi sempre redimibili. Star Trek non è postmoderna non solo perché distingue tra buoni e cattivi ma anche nel suo dare una possibilità di redenzione (che poi magari non viene sfruttata) anche ai cattivi.

Veniamo a Star Trek Beyond, il terzo film diretto questa volta dal taiwanese Justin Lin (Fast&Furious e The Bourne Legacy) e prodotto sempre da J.J. Abrams, Alex Kurtzman e Roberto Orci. Il cast è lo stesso (anche se nel frattempo è morto il signor Spock originale, Leonard Nimoy, e poi poche settimane fa a riprese finite è morto in un incidente automobilistico Anton Yelchin, che interpretava il giovane Pavel Checov: il film è dedicato ad entrambi) ed è un buon cast. A me Chris Pine (capitano Kirk), Zachary Quinto (Spock), Zoe Saldana (Uhura), Karl Urban (McCoy), Simoon Pegg (Scotty) e John Cho (Sulu) piacciono molto (oltre a Checov, ovviamente). Anzi, vanno benissimo. In questo nuovo episodio ci sono anche Idris Elba e una fantastica Sofia Boutella, che pare entrerà a far parte del cast stabile del film.

Il film è da vedere. È fatto molto bene e aggiunge ai tre pilastri, coerentemente mantenuti al centro del lavoro di Abrams, altri due aspetti. Il primo è visivo: neon, lucidità, movimenti di camera rapidi e vertiginosi, costante cambiamento di prospettiva. Lo stile visivo dei tre film di Star Trek del nuovo ciclo sta crescendo molto bene e rimane però collegato. Sono tre film al neon, visivamente rapidi e pieni di cose.

Il secondo aspetto è narrativo: Star Trek mantiene una struttura che è sostanzialmente mutuata da un episodio televisivo. Storia lineare, ben congegnata, ricca di colpi di scena e di accelerazioni ma non traumatica per lo spettatore, divisa in atti e parti con snodi piacevoli. Parte tutto da un dubbio esistenziale o filosofico del comandante, a cui la storia porta una risposta nella conclusione. In buona sostanza, una costruzione di maniera, nient’affatto sperimentale, molto consolatoria, con poca scienza sullo sfondo e soprattutto uno sforzo di citare e rivisitare il canone di Star Trek originale.

jj abrams STAR TREK

Abrams ha capito che uno dei motivi per cui l’astronave Enteprise viaggiava nell’ignoto era non solo quello di esplorare nuovi possibili fasci narrativi, ma anche evitare di rappresentare una società del futuro sul pianeta Terra che era difficile da immaginare e rappresentare a causa della sua grande complessità. Più facile mettere un sacco di gente su una grande astronave un po’ tutta uguale, vestirli tutti con le stesse divise di colori diversi a seconda delle funzioni, e lavorare sul dopo, sulle trema dei singoli episodi. Invece Abrams espande abbondantemente le idee del mondo del futuro, e mostra tutto con abbondanza di particolari, grazie alla computer grafica e alla ricchezza di artisti dei sistemi di modellazione 3D disponibile sul mercato. L’effetto è delizioso e a tratti esagerato, sommerge la mente dello spettatore. Ho visto il film in 3D e questo non aiuta certo: bisognerà rivedere o quantomeno aspettare la versione da casa per poter analizzare più nel dettaglio cosa succede sullo schermo. Posso solo dire: una festa per gli occhi.

Star Trek Beyond è un film che strizza l’occhio ai modelli di narrazione contemporanea (come peraltro già facevano le due generazioni di film sia con gli interpreti di Star Trek TOS che di Next Generation) ma rimane sostanzialmente conservatore e austero. C’è una trama solida perché lineare e costruita attorno a una premessa, con uno svolgimento portato avanti bene e una conclusione che fa il suo lavoro di chiusura con soddisfazione per tutti, pubblico e critica.

Vale il prezzo del biglietto? Sì, ma ricordate che non state andando a vedere una tragedia di Shakespeare. È un film perfetto per una serata con Netflix oppure al cinema, a condizione di sfruttare la superiorità dell’impianto di proiezione e sonoro di una sala ben attrezzata. Evitate il cinema parrocchiale o i multisala minuscoli, non ne vale la pena.

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*Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio.

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