HomeFocusOpinioniPerché Warcraft è un flop in USA ma spacca in Cina

Perché Warcraft è un flop in USA ma spacca in Cina

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L’altro giorno mi sono visto un film fantasy/fantascientifico del quale, secondo me, vale la pena parlare. Si tratta di Warcraft, ed è un film ibrido tra riprese tradizionali e computer grafica tratto da un videogioco. Già. Anzi, più che da un videogioco, da una saga, una genealogia, un universo di videogiochi.

warcraft film

Dopo dieci anni dal primo annuncio, tre anni di lavorazione e con la regia/scrittura parziale di Duncan Jones (che poi è il figlio di David Bowie, e ha fatto pellicole notevoli e anche autoriali come Moon e Source Code), Warcraft è davvero un film molto particolare. Anche perché al box office ha avuto un risultato piuttosto particolare. Costato 160 milioni di dollari e con un break-even da 450 milioni (secondo le stime di Hollywood Reporter) il film ha raccolto 30 milioni di dollari in dieci giorni negli Usa, e 380 milioni nel resto del mondo, la maggior parte dei quali (190) dalla sola Cina.

Secondo le metriche americanocentriche è un flop, secondo i giudizi della critica “tradizionale” è una ciofeca, eppure in Asia sta spaccando di brutto. Cosa succede? Una domanda che giustifica se non altro la visione della pellicola.

Cominciamo da Warcraft: ho amici che ancora vivono dentro WOW, la seconda generazione tutta online (MMORPG) del franchising in cui umani, orchi, nani e chi più ne ha più ne metta si prendono a mazzate come fabbri in sciopero. Ma WOW (World of Warcraft) è appunto la seconda generazione di giochi del franchising. La prima che Blizzard ha sviluppato a partire dal 1994, composta principalmente da tre parti con sei titoli complessivamente (le varie espansioni), è un gioco tradizionale anche multiplayer.

Non entriamo in tecnicalità e stiamo all’essenziale: Warcraft: Orcs & Humans è del 1994, Warcraft II: Tides of Darkness del 1995 e subito dopo arrivano Beyond the Dark Portal, e poi Warcraft II: Battle.net Edition del 1999 con le ambientazioni di “Reign of Chaos” e “The Frozen Throne”. I vari titoli entrano subito nell’empireo dell’intrattenimento videoludico anche se non sono all’altezza della notorietà di World of Warcraft, che esce nel 2004 e cambia per sempre il modo con il quale intendiamo i giochi multiutente in rete (e che fino ad ora ha totalizzato cinque espansioni). Invece, i primi Warcraft sono giochi di strategia in tempo reale e molto popolari sia nella parte dei tornei che nelle avventure basate sulla capacità dei giocatori di accumulare punti e risorse (oro e altri materiali) per poter costruire o comprare una serie di preziosi strumenti di battaglia.

Parliamoci chiaro: la Cina si è innamorata di questa trilogia originaria e delle sue espansioni. Sono stati i giochi più diffusi per i campionati locali di videogame, in cui i vincitori diventano delle vere e proprie star. Gente idolatrata dalle folle. Il folklore fantasy più essenziale, il distillato della mitologia che con tanta maestria è stato ridisegnato in chiave occidentale e cristiana dall’universo del Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, entra nell’immaginario popolare cinese soprattutto con Warcraft. Orchi, nani, cavalieri, mazzate, magie, martellate, altre magie, altre mazzate, sino a che l’orda non è annientata oppure non è stato raso al suolo il castello.

La lunga corsa di Warcraft verso il cinema

Nel mondo lo sfruttamento del franchising che ha definito le fortune della Blizzard è stato massiccio. Ci sono i giochi da tavolo, i manga, i fumetti, i libri di avventure, i giochi di carte stile Magic, addirittura riviste e testi sacri che spiegano un sacco di cose su come funzionano l’universo di Warcraft, straordinariamente attento a dare tridimensionalità anche al lato degli Orchi e non solo a quello degli Uomini. Il bene e il male in questo caso si mescolano alla potenza e alla forza, alla magia, al desiderio di dominio.

Le mappe di Northrend e di Pandaria diventano sempre più dettagliate, le città e i villaggi, le montagne fiumi e laghi sono la base di una geografia fantasiosa che ha pochi agganci con il normale sviluppo orografico di un continente o di un pianeta, tanto quanto la geografia dei muscoli di un orco lo ha con l’anatomia di un essere realmente vivente. Azeroth, la città degli uomini, e Draenor, la città degli orchi, diventano ambienti noti come le migliori strutture urbane dell’immaginario contemporaneo. Con la differenza che non nascono in romanzi o in narrazioni illustrate, non sono le città di Charles Dickens o di Mark Twain oppure le megalopoli di Superman o di Batman.

Una mappa di Pandiaria del 2012
Una mappa di Pandaria del 2012

Ok, vi ho portato abbastanza a spasso per il mondo di Warcraft, due pianeti di due dimensioni diverse (entrambe altre rispetto alla nostra) messi in comunicazione da un portale magico che si nutre dell’energia delle persone: gli orchi devono migrare dal loro mondo a quello nuovo (degli uomini) perché il primo mondo sta morendo e hanno bisogno di un nuovo posto dove andare. In realtà dietro a loro c’è una congiura fatta di potenza e forze oscure che cercano di consumare per scopi malefici le energie dei mondi. Sia quel che sia, la storia di Warcraft è tenuta assieme da un pool di autori della Blizzard e sarebbe ingenuo sostenere che i videogiochi oggi siano un prodotto culturale costruito da programmatori e al massimo qualche smanettone di Maya e Photoshop. In realtà c’è una pianificazione ricca e complessa, strutture di scrittura e di art direction degna di un kolossal cinematografico. E c’è una storia.

Questa storia a un certo punto, attorno al 2000, comincia ad essere presa in considerazione per andare al cinema. Perché no. È un modo per estendere e sfruttare il brand e fare un mucchio di soldi che, non ce lo dimentichiamo, è pur sempre lo scopo ultimo della stragrande maggior parte degli editori (non proprio tutti, perché qualcuno pubblica cose che palesemente non sono fatte per scopo di lucro; ma insomma, quasi tutti). E a metà del 2006 arriva l’annuncio: Blizzard Entertainment e la Legendary Pictures sono al lavoro su un “filmone”. Un paio di anni dopo, nel 2008, il capo sceneggiatore e vero “autore profondo” della Blizzard (oltre che Warcraft, anche Starcraft e Diablo) cioè Chris Metzen, annuncia alla BlizzCon (un evento che si tiene ogni anno a Los Angeles, dedicato a tutti gli universi dei giochi dell’azienda) che il film sarà una cosa seria, dove si picchia duro, nel miglior spirito di Warcraft.

Peccato che poi della cosa si perdano un po’ le tracce e del film non parla più nessuno per un po’. Sino a che, siamo nel 2013, non si scopre che il film si farà davvero, sarà sempre tosto e uscirà a Natale del 2015. Il Natale però è già di Guerre Stellari: si opta allora per un più prudente maggio/giugno 2016. Seguendo l’idea che è meglio evitare di uscire quando c’è uno schiacciasassi, una bomba capace di azzerare un intero isolato (questo il significato etimologico di “block-buster”).

La regia di Warcraft – il film è di Duncan Jones, come detto, il quale non è soddisfatto della sceneggiatura di Charles Leavitt e ci rimette mano. Il lavoro di computer grafica è tutto fatto da ILM (Industrial Light & Magic), l’azienda di effetti speciali e computer grafica creata da George Lucas. Gente che ci si mette d’impegno perché creare un film che è un mix di azione reale, effetti speciali e computer grafica pura è complicato. Tecniche di motion capture, recitazione in studi asettici con macchinari da centro tomografico, invenzioni e creazioni. Alla fine, il risultato da un punto di vista della tecnica di CG è cutting edge, come direbbe uno del settore. Tanta roba.

Ma il film? Perché alla fine il problema è quello. Il film. Parliamone.

Un film ‘meticcio’, tra perplessità occidentali ed entusiasmo cinese

La perplessità generata dal pubblico occidentale, soprattutto americano, è speculare all’esaltazione potente vissuta dal mercato cinese. Bisogna osservare che la Cina è fondamentale, perché il suo mercato cinematografico (così come quello televisivo, dei romanzi e dei fumetti e di tutti gli altri generi di intrattenimento) sta emergendo adesso. Ed è destinato a superare quello statunitense. La Hollywood cinese c’è e sta iniziando a flettere i muscoli. In tantissimi settori merceologici si sa che questa cosa sta succedendo e le aziende occidentali si stanno muovendo più velocemente che possono per conquistare un posto all’ombra dello Yuan cinese. È questo, per dire, il motivo per cui Apple ogni volta che presenta qualche novità durante i suoi keynote fa sempre sistematicamente riferimento diretto e indiretto al mercato cinese: i miliardi del futuro prossimo passano da laggiù.

https://www.youtube.com/watch?v=LgrKLIOKpio

Così, Warcraft in Cina spacca di brutto, come dicono gli analisti di mercato. Ma il film com’è? Il punto centrale non è tanto la regia o la costruzione della storia, quanto il suo posizionamento nell’immaginario.

Peter Jackson con la sua trilogia del Signore degli anelli e poi con quella dello Hobbit partiva da un testo estremamente denso e ricco. Costruito per essere tale, perché Tolkien aveva tra le altre cose distillato moltissimo del suo mestiere di studioso della storia e mitologia anglosassone. Invece la densità della narrazione di Warcraft è diversa: basata su linee solide di conflitto tra personaggi e fazioni, è tuttavia essenziale, morbida, gommosa, adatta a essere iterata sia all’interno dello stesso gioco che tra capitolo differenti della saga complessiva. E poi non ha una morale, un percorso di crescita della storia, quanto un bisogno di spettacolarizzazione, di un qualcosa che possa aumentare sempre il livello dello scontro e giustificare l’utilizzo di effetti speciali sempre più spettacolari, al massimo del livello tecnico consentito da un determinato momento.

La storia di Warcraft – the Beginning (questo il titolo completo) è piena di allusioni, riferimenti e snodi che vengono dal gioco. Dalla trilogia originaria dei giochi, anche perché Blizzard spera di riuscire a realizzare parimenti una trilogia di film. E si sente. Si sentiva anche con il primo Signore degli anelli e con il primo Hobbit, non sbagliatevi. Solo che in quel caso la conoscenza seppur minimale del testo era molto più pervasiva e quindi meno straniante. Senza contare il valore “alto” che possiede la scrittura di Tolkien: le sue storie possono anche avere una regola di ingaggio difficile, una curva di apprendimento complessa, ma lo sforzo è giustificato.

Warcraft? Nelle aspettative di molti che non conoscano il videogioco deve essere assolutamente autoesplicativo, totalmente istantaneo. Invece, i suoi autori (Jones in testa) hanno cercato l’opposto. Un inizio difficile, una forte ricerca dell’autorialità, una dimensione di soggettiva quasi inedita nel penetrare un mondo fantasy. Paradossalmente, solo alla fine il punto di vista della cinepresa (reale o digitale che sia) si distacca da quello degli orchi e degli uomini e cerca invece di abbracciare le battaglie nel suo insieme. Quasi un peccato, anche se siamo ad anni luce di distanza dal freddo e distaccato Avatar, l’unico film con un mix così massiccio di computer grafica e recitazione con attori reali che ha “mosso” comparabili quantitativi di soldi e di attenzione del pubblico.

C’è un’altra differenza importante tra Il Signore degli anelli e Warcraft: la prima è una narrazione moderna, nata dal bisogno di Tolkien di orientare il mondo attorno a un asse nord-sud, giusto-sbagliato, buono-cattivo. Tolkien è profondamente morale, cattolico, sicuro di cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. La sua è una forma di narrazione fantastica ma priva di elementi pagani: il suo universo potrebbe essere ospitato nella nostra dimensione o quantomeno far parte della Creazione senza mettere in contraddizione alcuna parte significativa della Bibbia.

Warcraft è un testo post-moderno, anche un oggetto narrativo non identificato (direbbero i Wu Ming) e in quanto tale privo di una distinzione chiara tra il bene e il male. Perché orchi e uomini sono parimenti buoni e cattivi. Certo, ci sono i super cattivi, i boss di fine livello (verrebbe da dire) ma in realtà è il meticciato culturale quello che contraddistingue la narrazione di Warcraft.

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D’altra parte c’è un motivo meccanico, progettuale, esistenziale perché le cose stiano così. Infatti, ed è lo specifico delle narrazioni che vengono dal mondo dei videogiochi, Warcraft come esperienza videoludica permette di interpretare sia la fazione umana che quella degli orchi. E questa appartenenza al mondo degli orchi, libera scelta del giocatore, ha costretto i suoi autori a riempire di senso anche quel mondo: creando un universo sociale credibile, per fare in modo che i neuroni specchio dei giocatori che sceglievano di parteggiare per gli orchi potessero essere degli orchi. Missione riuscita, sia nel gioco che nel film: i primi venti minuti totalmente in soggettiva nel mondo degli orchi valgono una nascita all’interno di un differente utero, di una società tribale, dell’orda, dei suoi valori e delle sue regole. Personaggi di cartapesta? Non è questo il punto: il discorso centrale qui è che sia gli orchi che gli uomini hanno uguale spessore. E questa simmetria esistenziale e caratteriale dà la profondità complessiva al film. Certo, non stiamo parlando di un capolavoro della cinematografia contemporanea, non vincerà il premio della critica – che infatti lo ha stroncato senza pietà – ma non è per colpa o demerito suo. Warcraft è fatto di una materia che richiede cambiamenti di postura mentale e culturale, richiede di essere “diversi” dalla psicologia che abita lo spettatore (e il critico) medio.

Personalmente, mi sono perso dentro Warcraft, e devo dire che meritava farlo. Il casting è stato orientato a degli attori non di prima fascia: non c’è nessun “nome” che vende già i biglietti a prescindere dal titolo del film. E questo è un bene, anche se limita l’impatto sulle audiences nostrane, quasi pavlovianamente guidate dal sentimento della nostalgia e dell’abitudine, del già conosciuto; il film invece se è una festa per gli occhi lo è un po’ meno per lo spirito: non bisogna mancare di osservare infatti che i ragazzi del reparto sceneggiatura conoscono Game of Thrones, oramai riferimento narrativo unico per chi si avventuri a scrivere qualcosa dove la gente ha una spadona in mano e ci sono teste, braccia e gambe da mozzare. Nel senso che di gente ne muore proprio tanta. Ma ci sta, è lo spirito del nostro tempo.

Invece la mia conclusione qui è che Warcraft è quel film tosto (e violento) che i suoi produttori avevano promesso dieci anni fa. Un film che apre la strada a una invasione (il secondo capitolo è praticamente certo) e a una notevole forma di riscrittura delle narrative di intrattenimento legate al genere fantasy, alla computer grafica e al legame con i videogiochi. Non è solo una questione di stile, ma anche di sostanza. Le narrazioni dei videogiochi sono diverse da quelle dei libri, e la terra di mezzo del film non può non venirne influenzata. Stiamo vedendo l’interferenza di sfere narrative mature ma molto lontane tra di loro, finora separate per motivi diversi.

Gli orchi però sono spettacolari, lasciatevelo dire.

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*Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio.

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