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American Alien: Superman, fatto bene

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Durante la pre-produzione di Alien³, Sigourney Weaver chiese al regista David Fincher come si immaginasse Ripley, l’eroina della serie. Dopo i primi due film, l’attrice voleva essere sicura che il suo personaggio risultasse coerente ma che avesse anche qualcosa di nuovo da offrire al pubblico. «Non lo so», disse Fincher. «Calva?»

Superman: American Alien, miniserie in sette numeri disegnata da altrettanti autori e scritta da Max Landis, è la versione a fumetti della risposta di Fincher. In breve: Landis prende Superman, ne mostra sette momenti della vita più o meno casuali (l’infanzia, la giovinezza, l’arrivo a Metropolis, i primi tentativi da eroe), e ce lo restituisce in un bel fumetto.

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Il tema centrale del fumetto è la crescita, resa attraverso i titoli a tema ornitologico, dalla “colomba” del primo numero all’”angelo” dell’ultimo, e i sette disegnatori, quasi tutti in grande spolvero. Grandi vette raggiunte soprattutto da Jock, Jae Lee, Francis Manapul e Tommy Lee Edwards, con un’unica grave pecca nei colori del primo numero, in cui la linea piatta di Nick Dragotta viene snaturata da colori che tentano di creare tridimensionalità, producendo quello strano effetto che dà vedere i Simpson umanizzati.

Il fatto che sia un lavoro riuscito è anche la conferma di quanto detto qui, ossia che se una storia di Superman è bella di solito è anche impraticabile come progetto a lungo termine (e, di rimando, che scrivere un Superman seriale è difficilissimo). Perché American Alien se ne frega della continuity ed è una opera secondaria, che non esisterebbe se applicata a un personaggio ex-novo. Tutte le storie più belle di Superman costruiscono su basi altrui il loro nucleo, sia esso una ri-narrazione delle origini (Man of Steel, Birthright), uno spunto da What If (Red Son, Secret Identity), o un recupero di un certo periodo storico (Che cosa è successo all’Uomo del Domani?, Stagioni, All-Star Superman). Questo perché lavorare di riflesso è uno dei pochi sistemi funzionali integranti allo status di icona. Quasi a voler rimarcare come Superman sia talmente consolidato nella classicità da funzionare solo in un’ottica decostruttivista, guardando come lavorano i suoi meccanismi o sovvertendo le concezioni sedimentate del lettore. In American Alien lo sceneggiatore si è chiesto «Chi è Superman per me?» e la risposta, per quanto in apparenza banale, è: Clark Kent.

Un passo indietro sullo sceneggiatore in questione. Max Landis, il figlio del regista John Landis, ha debuttato con il revisionista Chronicle (a proposito di lavorare di riflesso), ma con i successivi impieghi ha fatto di tutto perché ogni articolo su di lui dovesse passare sopra l’annotazione «il figlio del regista John Landis». Ha scritto/diretto altri film che boh, grazie ma no grazie, e si è costruito una reputazione da supernerd. Dove la cifra stilistica media del nerd contemporaneo è sapere un po’ di tutto, sapere un po’ di niente, Landis rivendica la competenza maniacale di personalità come Kevin Smith (uno che piange per una puntata di The Flash). Non uno particolarmente simpatico o conciliante, con la voce squillante e la bocca infarcita di saliva come un cane rabbioso (ma anche lui ha pianto quando è finito American Alien), e che ha costruito il proprio personaggio pubblico come biglietto da visita da mostrare ai committenti.

È così che sono iniziati i rapporti con la DC Comics. Un paio di video in cui parlava di Superman hanno attirato i loro sguardi lascivi, di quelli che ti fanno sentire sporco dentro. Prima lo hanno lasciato scrivere Adventures of Superman #14, in cui il primo incontro (fuori continuity) tra Joker e Superman offriva lo spunto per un’analisi pensata della nemesi di Batman (ma anche a una straniante rappresentazione di Superman). Poi è arrivata la propostona: rifare La morte di Superman insieme a Greg Pak. Il progetto non è andato in porto (Landis ha, come al solito, svelato le sue idee in un video di quaranta minuti), ma i contatti con la DC hanno figliato una nuova miniserie, questa American Alien. C’è un easter egg eloquente: a un certo punto della storia, la voce che annuncia le fermate della metropolitana dice «Morrison Boulevard, Quitely Street». Il rimando è a All-Star Superman, la serie di Grant Morrison e Frank Quitely che Landis ha citato come modello, arrivando a definire American Alien l’anti All-Star Superman.

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Non è il primo a prendere All Star come punto di riferimento. Prima di lui c’era stato Matt Fraction, che aveva plagiato la serie senza averne mai citato l’ispirazione a mezzo stampa, in un ciclo dei Fantastici Quattro (non mi dilungo sulla questione, basti sapere che in alcun paesi sarebbe stato gambizzato per molto meno). Però Landis è il primo che ha provato a instaurare un dialogo con i temi dello scozzese. Intanto c’è una similitudine ideologica forte, l’idea che sia lo sguardo storico a creare il mito. In All-Star, Superman deve compiere dodici fatiche erculee, ma a un certo punto la storia sembra dimenticarsi di tenerne il conto. Superman non sa quali sono e nemmeno è consapevole di averle realizzate (e neanche il lettore lo sa, se non è disposto a individuarle per conto suo). Morrison ci sta dicendo che quelle dodici fatiche sono frutto della lettura degli storici. Allo stesso modo, American Alien racconta sette momenti della vita di Clark che ne hanno formato lo spirito e la morale. Ma Clark non si rende conto che quelli sono tutti momenti epifanici della sua vita, se non a posteriori. E di certo nemmeno noi, posato il fumetto, siamo in grado di indicare un solo momento in cui Clark ha concepito la propria esistenza eroica, fatta e finita.

Dove American Alien si distacca da All-Star è nella rappresentazione del protagonista. Mentre Morrison e Quitely erano tutti ripiegati a guardare Superman come figura divina che serva a ispirare le genti, Landis e i sette disegnatori soverchiano il concetto, focalizzano le attenzioni su Clark (Superman appare in varie forme ma non è mai quel Superman) e mostrano come sia stata invece la gente ad aver ispirato Clark nel diventare un eroe. I genitori gli hanno insegnato a volare, una banda criminale di Smallville gli ha mostrato cosa significhi difendere una comunità e Lex Luthor gli ha spiegato come si comporta un eroe professionista.

In questo, il messaggio di Landis è preso di forza da Cosa c’è di sbagliato nella Verità, nella Giustizia e nell’American Way?, una memorabile storia apparsa su Action Comics #775 (2001) e scritta da Joe Kelly come risposta all’ondata di supereroi decostruttivisti come The Authority. Kelly riteneva giusto difendere i valori di classicità e tradizione incarnati da Superman – come personaggio ma anche come fumetto – ingiustamente dimenticati in favore dei nuovi approcci di Warren Ellis o Mark Millar. Sia Kelly che Landis ci dicono, ognuno a modo proprio, che nella società di oggi c’è ancora spazio per Superman, che dovremmo tornare a credere in lui tanto quanto lui crede in noi.

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Per Landis, Kal-El non è mosso nelle sue imprese eroiche dal senso di colpa o da un trauma originario. I suoi genitori non sono stati ammazzati all’uscita di un cinema che proiettava Zorro, non è stato scelto da un mistico sciamano né da un corpo di polizia intergalattico. Non deve niente ai terresti. Fa quello che fa per amore assoluto di quella che sente essere la propria specie. Il Clark Kent di Landis è umanissimo, un Peter Parker altrettanto insicuro ma privo di qualsiasi odio represso (la maschera di Spider-Man serve a Peter per questo: esorcizzare l’ira verso i bulli sfogandosi sui criminali, vittime del suo stesso bullismo). Più umano dell’umano, è in grado di amare più di noi tanto quanto è in grado di saltare più in alto di noi. È la stessa motivazione stucchevole che dava Interstellar, ma è la più coerente per un personaggio-icona.

In quanto pressofuso nel DNA degli Stati Uniti al pari della musica country o della torta di mele lasciata a raffreddare sul davanzale, tra tutti i supereroi Superman è quello che cade più facilmente nella retorica. Superman e la gente comune, Superman che si mostra uno di noi, celebrando i veri eroi, o percorre a piedi l’America (come nell’arco narrativo Grounded). Anche adesso, all’alba del rilancio Rebirth, l’iconografia resta la stessa. E nella copertina del sesto numero di American Alien Clark è circondato da gente con addosso il simbolo di Superman, mentre lui è l’unico senza il costume. Questa vicinanza all’umano ci riporta a uno dei problemi di Superman, il difficile equilibrio tra renderlo troppo o troppo poco super. Perché se lo fai troppo super sembrerà alienante, se lo fai troppo poco perderà di gravitas.

Pur non trovando un equilibrio, Landis pende decisamente dalla parte del “troppo poco”: lo slega dalla continuity, lo depotenzia e trasforma le zavorre in spunti narrativi. I suoi poteri diventano un problema quotidiano, al pari di imparare ad andare in bici. Tutto assume concretezza. I proiettili che solitamente nemmeno lo scalfiscono ora lasciano ecchimosi, il costume non lo trova nell’astronave, ma prima è un lembo di una coperta, poi è messo insieme con le protezioni da hockey. Lo blocca nel tempo, facendolo crescere negli anni Ottanta, tra E.T. al drive-in e le fascette di Björn Borg, gli fa ballare Bad di Michael Jackson. Si alternano piccoli atti di quotidianità a immagini potentissime. Una su tutte, l’incontro tra Clark e Bruce Wayne che si conclude con Kal-El che strappa il costume di dosso a Batman. Nella sua migliore imitazione di Paul Pope, Jae Lee raffigura la scena come una scissione cellulare, un’azione violenta e cutanea. In un disegno più significativo di cento saggi sull’argomento, Landis e Lee mostrano quanto sia difficile separare l’uomo dal simbolo.

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American Alien è uno studio profondo sul personaggio, a tratti iperbolico (i dialoghi di Landis tendono alla magniloquenza) e frammentario (c’è una vaga trama che collega i sette numeri ma nulla di che, e il finale è parecchio anticlimatico) ma con un’idea forte che guida l’opera fino alla fine. In un mondo ideale: un’uscita come un’altra. Nel panorama attuale, dove quasi nessuno sembra in grado di prendere quei tre-quattro elementi cardine di Superman e proprorli al pubblico in maniera potabile e coerente, un mezzo miracolo. Per questo, salvo sorprese, American Alien è il miglior fumetto di Superman dell’anno. Se poi teniamo conto che è il secondo lavoro di Landis nel settore – al netto dell’aiuto che avrà avuto dagli editor – mi pare un risultato rimarchevole.

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