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Alle origini del cosplay

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Occhi al cielo, sbuffo palatale e una buona dose di sufficienza formano il kit base di chi si affaccia al mondo dei cosplayer, gli appassionati che si travestono come i personaggi dei loro prodotti d’intrattenimento preferiti (serie tv, film, fumetto, videogioco, tutto ciò che ha un bagaglio iconografico ben definito).

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Popolano le fiere di cultura pop, hanno i propri conventicoli – il più grande è il World Cosplay Summit in Giappone. Per quanto odiati da una fetta di pubblico e addetti ai lavori, che vedono il proprio spazio monopolizzato da strascichi e spade di Gatsu in cartapesta, il cosplay è un movimento attorno a cui si è creato un discreto giro economico e culturale, perché diventato a sua volta attrazione dentro l’attrazione. Ai cosplayer sono dedicati gare, concorsi, serie tv, documentari. Il New York Times ne scrive sottolineando il potere identitario che ha per le persone, gli accademici di genere e gli psicologi ci sguazzano compilando teorie sul genderswap, il travestitismo, la performatività, l’immagine e il corpo e altre cose davvero troppo difficili da poter associare a queste carnevalate fuori stagione (la sto tagliando con l’accetta, se volete approfondire i risvolti sociologici rimando al saggio Stranger than fiction: Fan identity in cosplay).

Per alcuni è diventato perfino un lavoro, vengono pagati per presenziare alle fiere, spesso assoldati dalle ditte di videogiochi per movimentare il loro stand. In casi del genere dietro c’è una passione che si è fatta alto artigianato tessile e costruttivistico. Presumo non vi siano nuovi i nomi – o i volti – di Jennifer Nigri o Anna Faith. Ehi, anche Olivia Munn faceva la cosplayer, prima di fare la cosplayer in X-Men: Apocalisse.

Ho citato delle donne perché i cosplayer più famosi sono tutte ragazze. Questo è in parte dovuto al predominio eterogametico nella cultura nerd/geek e al conseguente sguardo maschile che ha isolato ed evidenziato la componente femminile rispetto ai cosplayer maschi, portando nella realtà delle cose a episodi come quello di “Cosplay is not consent”. Soprattutto, parlavo di donne perché il suo creatore è una donna. Meglio, storicamente il padre del cosplay è Forrest J. Ackerman, nome celebre tra i fan della fantascienza (tra le tante cose, battezzò il termine “sci-fi”, fu agente di Asimov, finanziò la prima opera di Bradbury, la fanzine Futuria Fantasia). Nel 1939 Ackerman divenne il primo cosplayer noto alle cronache indossando quello che lui chiamava il “futuristicostume”, un completo tratto dal film La vita futura. Quello che le cronache nascondono è l’imprescindibile contributo della sua compagna, Myrtle R. Douglas.

Classe 1904, Myrtle Rebecca Douglas Smith Gray Nolan (si sposò tre volte) conobbe Ackerman nel 1933 a una conferenza sull’esperanto, lingua di cui erano entrambi forti sostenitori, iniziando una relazione che sarebbe durata oltre dieci anni. Alla ragazza il giovane piaceva così tanto che si inventò un nickname in suo omaggio: prese le proprie iniziali, le tradusse in esperanto e le unì a quelle di lui. Il risultato fu Morojo, e con quel nome la donna si firmò in ogni pubblicazione.

In quel periodo infatti era appena nata la sottocultura del fandom, grazie al cipiglio imprenditoriale di Hugo Gernsback, colui che aveva fondato Amazing Stories, il primo magazine di fantascienza in lingua inglese (il premio Hugo è chiamato così in suo onore). Su questa e sulle successive piattaforme si sviluppò una schiera di fan che comunicavano tra di loro attraverso le pagine della posta. Morojo e Ackerman erano due di loro. Atei, membri della Los Angeles Science Fiction Society, dibattevano sulla fantascienza con un acume critico inedito per il genere. Anche se non si sposarono mai, la loro unione figliò comunque varie fanzine (Imagination!, Voice of the Imagi-Nation, Novacious). Per conto suo Morojo fondò altre tre riviste, tra cui Guteto, durata diciassette anni, e scrisse editoriali per le maggiori testate sci-fi degli anni Quaranta. Il suo contributo giornalistico si perde nei recessi del Novecento, tra pagine ingiallite, copertine ciclostilate e titoli scritti a mano. Ciò per cui non avrebbe mai pensato di essere ricordata fu il suo apporto a una nuova forma d’espressione.

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A sinistra, Ackerman e Morojo. A destra, una scena del film originale.

Saranno serviti dei superpoteri per entrare al Caravan Hall di New York bardati di stoffe e teli di plastica, quel 2 luglio 1939, giorno in cui Morojo e Ackerman presenziarono alla prima fiera di fantascienza della Storia, la World Science Fiction Convention (Worldcon), indossando i “futuristicostumi” tratti dal film La vita futura. I dettagli dell’episodio restano sconosciuti, si sa solo che i due avevano avuto l’idea di mascherarsi ma che Ackerman aveva lasciato alla compagna il compito di disegnare e cucire con ago e filo i due costumi. Un singolo ed epico atto di moda. Il cosplay era già tutto lì: la passione smodata, il fandom e lo spirito do it youself, che è ciò che contraddistingue il vero cosplayer (secondo le regole, l’abito dovrebbe essere rigorosamente fatto in casa).

L’unica cosa che è cambiata è il nome. Nel 1984 lo scrittore Nobuyuki Takahashi andò in visita al Worldcon di Los Angeles e coniò il termine “cosplay” (“costume”+”play”) per descrivere ai lettori della rivista My Anime l’esperienza in costume a cui aveva preso parte. Da lì i radar generalisti iniziarono ad accorgersi del movimento, che negli anni Novanta diventò poi una vera sottocultura, un po’ dappertutto. Come scrive Luca Vanzella nel suo Cosplay Culture: fenomenologia dei costume players italiani, anche in Italia un’ipotetica data d’avvio del fenomeno è da farsi risalire a quegli anni – precisamente il 1997, quando la fiera di Lucca organizzò il primo concorso di cosplay.

Fu a quel festival che si sviluppò organicamente il concetto di cosplay. Fu infatti al WonderCon, secondo …Always a Fan: True Stories from a Life in Science Fiction di Mike Resnick, che si tenne la prima masquerade, una parata in costume che in realtà era una serata di ballo dal sapore liceale, nel 1941. Morojo continuò a frequentare la fiera come cosplayer, arrivando ad affidare il design di una maschera a un giovinetto di nome Ray Harryhausen.

Da lì la moda crebbe esponenzialmente, trovando terreno fertile proprio in Oriente, spostando il proprio focus su manga e anime, per poi fare il giro e tornare in Occidente rinvigorita dal pensiero laterale dei giapponesi – a chi altri verrebbe in mente di creare lacrime finte per cosplayer tristi?

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La storia di Morojo e Ackerman ha lasciato un segno nella storia del fandom, ma la loro unione non fu altrettanto indelebile. I due si lasciarono, secondo un loro amico perché «lei non voleva smettere di fumare nonostante le continue richieste di lui». Ironicamente, la madre di tutti i cosplayer passerà la vecchiaia senza alcun indumento addosso. Entrò in contatto con il movimento naturista e con il terzo marito John Nolan visse gli ultimi anni della sua vita ignuda, nel deserto della California del sud. Morì il 30 novembre 1964, e la sua memoria venne celebrata proprio da Ackerman, che le dedicò l’elogio I Remember Mojo. Nonostante sminuisse il lavoro editoriale dell’ex-ragazza, Ackerman sottolineava che era stata lei a disegnare e costruire i costumi che avevano indossato nel 1939 ed è stato grazie a lui se la notizia – emendata o ridotta a nota a piè di pagine da ogni sua biografia – è giunta fino a noi, diventando nello stretto giro di questi anni soggetto per profili giornalistici su Racked, Kotaku e altri. È altrettanto ironico che nel film scelto dai due per il loro esperimento di cosplay, uno dei personaggi esclami: «Credo che voi uomini non abbiate mai capito le donne. Voi non siete in grado di comprendere la nostra immaginazione».

Nella stessa pubblicazione scrisse un ricordo anche Elmer Perdue, un amico della coppia, che descriveva la ragazza come un’inguaribile ottimista «che credeva fin troppo nell’innata bontà dell’uomo», caratteristica che le permise di penetrare un ambiente dominato dai maschi – in un quadro non dissimile da quello in cui vivono molte ragazze di oggi. «Il mondo è più ricco ora che ci è passata attraverso Myrtle», concludeva Perdue. «Può qualcuno di noi dire lo stesso?».

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