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La più grande bugia che Alan Moore mi abbia mai raccontato

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di Darko Macan*

Questo articolo, originariamente intitolato “Come scrivere storie di supereroi”, è stato pubblicato nel 2003 all’interno del saggio Alan Moore: Ritratto di uno Straordinario Gentleman, libro tributo realizzato in occasione dei 50 anni dello scrittore di Northampton. È incentrato sui fumetti di supereroi e sull’unicità di Watchmen. E, di questi tempi, mantiene ancora tutta la sua attualità.

alan moore Watchmen

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Che valesse la pena leggere fumetti di supereroi è la più grande bugia che Alan Moore mi abbia mai raccontato.

Qui forse è meglio aprire una parentesi. Nel cuore dei Balcani, da dove vengo io, i supereroi non sono il modello dominante nel fumetto. Per alcuni decenni nel dopoguerra erano stati effettivamente vietati insieme a tutte le altre “droghe del mercato nero capitalista”. Tuttavia anche negli anni Sessanta, quando la disciplina di partito si rilassò e strisce quotidiane come Rip Kirby ebbero un certo successo, dei supereroi non c’era traccia. Dopo settimane passate a frugare negli archivi ho trovato una sola pagina dei Fantastici Quattro di Kirby, riprodotta nella principale rivista di fumetti come esempio di quanto in basso si potesse arrivare nel campo. Dieci anni dopo il clima diventò ancora più rilassato. Almeno una rivista – fatta abbastanza male – pubblicava supereroi con qualche regolarità, ma era ancora possibile essere considerati esperti del genere avendone solo una conoscenza sommaria.

E poi arrivò Watchmen.

Anche sforzandomi, proprio non riesco a ricordare quando ho sentito di Alan Moore o di Watchmen per la prima volta. Sapete, ragazzi, a quei tempi Internet non esisteva ancora e anche i media più invadenti, come la musica e i film, da noi arrivavano con un ritardo dai sei ai diciotto mesi rispetto all’Occidente. Però ricordo, a un certo punto del 1988, di avere evidenziato la bizzarra copertina del volume su un volantino della Titan Books e di avere affidato il volantino stesso e alcuni miei risparmi a un amico che stava andando a trovare la sorella, ragazza alla pari in Gran Bretagna. Quell’amico (che fra l’altro si chiama Alan pure lui e ora lavora per il programma spaziale europeo) trovò il volume, lo lesse durante il suo soggiorno britannico e me lo portò definendomelo come “ottimo”. Per quanto ne so, lui può essere stato il primo croato a leggere l’opera; io feci in modo di essere il secondo. Mi ci vollero cinque giorni (due capitoli, altri due, altri due ancora, poi tre e tre), spesso il mio inglese non fu all’altezza, ma alla fine potei confermare che era… beh, l’avete letto anche voi e sapete qual è il livello.

Qualche anno dopo noi balcanici riprendemmo quello che a intervalli regolari è il nostro passatempo preferito, cioè il massacro su grande scala. Trovare un appassionato di fumetti competente divenne impossibile. Ogni tanto, però, incontravo qualche amico o conoscente stanco del tran tran del tempo di guerra che mi chiedeva se lavorassi ancora nel campo (la risposta era sì) e se avessi qualcosa di buono da suggerire. Invariabilmente mettevo loro in mano Watchmen. Invariabilmente loro me lo restituivano dandone giudizi entusiasti e chiedendo se avessi altre cose simili. Invariabilmente non sapevo che rispondere.

No, non è del tutto vero. Avevo disponibili Maus e Love & Rockets, addirittura Halo Jones dello stesso Moore, così prestavo quelli, la cui unica cosa in comune era l’essere diversi. I miei amici li divoravano felicemente. Ma che cosa sarebbe successo se avessi tentato di dare loro altri supereroi dopo che avevano assorbito Watchmen? Non si può far seguire un McMenu a del cibo di qualità senza lasciare una certa insoddisfazione. Una volta letto Watchmen, c’è ben poco che gli possa tenere dietro. Solo Moore può soddisfare la voglia di Moore. Ed è così da quindici anni a questa parte.

Ma perché?

watchmen

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Ogni tanto l’originalità di Moore viene messa in discussione. Proprio la settimana scorsa, per esempio, ho letto una recensione di Top Ten il cui autore era molto infastidito dalla scena dell’incidente di teletrasporto. Secondo lui, Moore l’aveva copiata pari pari da un episodio di Homicide in cui un tizio rimaneva schiacciato da un vagone della metropolitana. Dato che la recensione era in rete, qualcuno ha subito fatto notare che nello spettacolo c’era una lunga tradizione di situazioni simili, elencandone parecchie. Non vi annoierò con quell’elenco, anche se potrei aggiungervi io un’altra informazione inutile dicendo che Moore stesso aveva raccontato di un uomo schiacciato da un carro nel suo romanzo breve Hypothetical Lizard. Prima ancora, si era detto che Moore si fosse ispirato a Il Maestro e Margherita di Bulgakov per l’entrata in scena, decisamente memorabile, di Jason Blood in Swamp Thing (lo ammetto, la somiglianza è forte) o che avesse spudoratamente copiato il primo episodio di D. R. & Quinch da un pezzo apparso sul National Lampoon, ma che io non ho mai letto. Di solito, chi lancia l’accusa lo fa con il tono di chi si sente ferito, sorpreso e tradito. Io stesso mi trovo diviso fra due reazioni immediate: la spinta a difendere Moore e l’impulso a unirmi alla massa per crocifiggere il ladro. Alla fine non faccio nessuna delle due cose.

Il motivo è che entrambe le reazioni sono istintive e stupide. L’originalità è una virtù che viene gradita soprattutto da chi non ne ha e richiesta soprattutto da chi non è in grado di riconoscerla nella sua vera forma. Un’idea originale, infatti, non è soltanto quella che nasce vergine dal nulla (e queste sono rarissime), ma anche quella che viene raccolta dal fango e ripulita da qualcuno che ne ha rispetto. In Watchmen, la scena con le manette e la sega può essere una copia abbastanza fedele del finale di Interceptor, mentre il piano di Ozymandias può essere stato scippato a un vecchio episodio di Oltre i limiti. Non è però a causa di questi elementi che la mia consunta copia della collaborazione fra Moore e Gibbons mi viene restituita ogni volta con un’espressione soddisfatta da coloro a cui l’ho prestata. Watchmen funziona perché nel suo insieme ha tutti i componenti che per gli anglosassoni determinano un buon matrimonio: qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo, qualcosa di prestato e qualcosa di blu (Dr. Manhattan, in questo caso). Watchmen funziona perché Moore lo ha scritto allo stesso modo di ogni altra sua storia a fumetti che ho letto: con la mente, con il cuore e con una strizzatina d’occhio.

Tessere le lodi di Watchmen sarebbe troppo facile e così non lo farò. Per mostrarvi come funziona il cervello di Moore, comunque, non ne ho bisogno. Diamo invece un’occhiata, per esempio, a Spawn/WildC.A.T.s, forse tra i suoi sforzi meno riusciti. Nel futuro in cui è ambientato, i personaggi parlano uno slang derivato dal linguaggio usato oggi in Rete. Questo non è reso in modo molto esperto, forse piuttosto con l’impaccio di chi conosce Internet solo di riflesso, ma sempre con le due caratteristiche essenziali dell’intelligenza: curiosità e rispetto. Avrebbe potuto essere realizzato come una parodia, prendendo in giro le sciocche usanze di ragazzini buoni a nulla allo stesso modo in cui i fumettisti cresciuti negli anni Trenta avrebbero poi fatto con gli hippy, ma Moore ha evitato questa trappola. È troppo facile prendere in giro ciò che non capiamo. Anche un debole tentativo di comprensione diventa ammirabile. In 1963, il suo deliberato tentativo di riprodurre le storie stupidine di una volta, Moore non è riuscito a essere abbastanza stupido. La sua versione del cliché del Tirannosauro scatenato dà grande importanza al fatto che le zampe anteriori del rettile fossero inutili, proprio come la sua versione di Hulk è riuscita a mettere insieme  esplosioni atomiche, fisica molecolare, la teoria secondo la quale il vetro è un liquido molto poco fluido e la paranoia anticomunista tipica degli anni Sessanta. Tutto ciò senza perdere nemmeno per un momento la sensazione della narrazione. E tutto questo in storie che ci hanno toccato solo in superficie. Quando va a pieno regime, Moore ci colpisce fin quasi a deprimerci. Penso allo “oceano delle emozioni” o a sequenze simili in Promethea, per non dire dell’episodio revisionista su tarocchi/anagrammi/aneddoti nella stessa serie. Moore mette in mostra i prodotti di una mente che si diverte troppo a giocare con se stessa, ma allo stesso tempo fa attenzione a ogni minimo risvolto della trama e a ogni pur minore personaggio; una mente che possiamo solo sperare di intuire oltre la realtà in cui ci è capitato di vivere.

Tuttavia, una mente senza cuore sarebbe soltanto uno sterile conduttore di esperimenti di pensiero, un vanitoso tentativo di essere più furbo degli altri per il solo futile fine di definirsi come cervello superiore. Per nostra fortuna, Moore ha cuore quanto basta per temperare il proprio intelletto. Lui ama tutte le persone a cui ha dato vita sulla carta, sia le sue donne forti che i suoi uomini deboli (fin dall’inizio, da Capitan Bretagna o da Miracleman, i personaggi di Moore tendono a suddividersi in due categorie: gli ingenui dal buon cuore e i bastardi affascinanti, un’interessante dicotomia che meriterebbe un’analisi approfondita). Ama anche i suoi lettori abbastanza da non fregarli mai, ha una sana dose di amore per se stesso e ama, povero lui, il fumetto e i supereroi. Tutti quegli infiniti rimandi e parodie in Supreme e in Cobweb erano esercizi intellettuali, ma non avrebbero potuto essere realizzati senza amore. Pensateci un attimo: quanto può essere piccolo il numero di persone che riesce ad apprezzare simultaneamente i riferimenti a Kirby e Kurtzman, le rielaborazioni di insignificanti fumetti per ragazzini e l’uso di stampe francesi del XIX secolo? Tutto il lavoro che gli oscuri rimandi nella Lega degli straordinari gentlemen hanno richiesto non può essere spiegato soltanto come un perverso desiderio di giocare a nascondino con le menti di tutti gli archivisti e i catalogatori in Internet. Può sembrare un’impresa completamente senza senso finché non ci ricordiamo che è stato Moore stesso a dire: “L’amore non ha senso. L’amore è lui stesso il senso”.

Amare il fumetto, la forma d’arte che ti fotte se dici che la ami perché è troppo giovane per capirlo, può essere senza speranza. È qui che entra in gioco la strizzatina d’occhio: quella famosa alla fine di Che ne è stato dell’uomo di domani?, quella che è stranamente assente dai lavori più ambiziosi di Moore in prosa e in versi, quella che è un patto riservato a una fratellanza in quattro colori, una mano tesa attraverso l’abisso della pagina o della comprensione. Abbiamo il destino segnato, domani se non oggi, ma per un momento abbiamo condiviso una storia, un’emozione o due, qualche risata. Abbiamo tentato di piacerci e ci siamo riusciti. Può non essere granché, di certo non è molto importante, ma basta e avanza. Giusto?

Una mente, un cuore e una strizzatina d’occhio. Un mio amico anni fa si definì un alanista, affermando di venerare Moore. A volte mi chiedo se Alan esista davvero o se sia solo un residuo di immagine elaborato dai nostri cervelli dopo aver intravisto furtivamente questa triade.

Alan Moore, Dave Gibbons

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Non ho mai riletto Watchmen per intero. L’ho riaperto ogni tanto per leggere alcune pagine o sfogliare un capitolo. Non l’ho mai riletto perché non ne ho bisogno. È già scolpito nella mia mente.

Ho letto belle storie dopo Watchmen, alcune anche fantastiche. Ho letto ottimi fumetti di supereroi, alimentati dall’amore o dall’odio per il genere. Ho letto ogni singolo episodio di ogni serie supereroistica che Moore abbia mai scritto e concordo sul fatto che Tom Strong sia un concetto migliore per una serie regolare di quanto Watchmen avrebbe mai potuto esserlo: un episodio in più e saremmo entrati nel territorio delle soap operas. Tuttavia secondo me Watchmen non potrà mai essere superato e non credo che la mia opinione derivi soltanto dal fatto che il volume mi sia capitato tra le mani al momento giusto.

A quanto si racconta, Watchmen evitò di essere semplicemente un rilancio di personaggi della Charlton grazie a un momento del tutto casuale di tentennamento editoriale. Con la libertà data loro, Moore e Gibbons produssero un’ottima serie che fu allo stesso tempo un riassunto del passato del medium fumettistico, un accurato ritratto romanzato dell’epoca della sua realizzazione e una profezia del futuro. Moore ha prodotto storie migliori (V come Vendetta viene spesso portato a esempio), fumetti con maggior passione (Halo Jones è il mio preferito) e opere più personali (come quei CD in cui il suo accento di Northampton è quasi incomprensibile al mio orecchio balcanico… oh, beh, fanno bella figura sugli scaffali e fanno colpo sui non iniziati), ma nessuno è stato più importante o ha avuto un impatto più forte. Watchmen aiutò l’industria del fumetto a rialzarsi in piedi, senza accorgersi di stare aiutando un invalido.

Ci furono vari tentativi di ripetere la “formula” di Watchmen, ma nessuno funzionò. Le frasi tortuose e piene di epiteti non sostituirono degnamente l’eleganza dell’ingegno di Moore, i nuovi bastardi non riuscirono a essere affascinanti e gli eroi non furono né simpaticamente ingenui, né di buon cuore. Soprattutto, però, mancò la strizzatina d’occhio, insieme alla conoscenza delle regole del gioco fumettistico. Questi imitatori di Moore volevano i soldi e la fama di Watchmen, li chiedevano ad alta voce e senza ritegno, ma non riuscirono ad ammaliarci con bugie convincenti o a mettere tutto il loro mondo nelle loro parole.

E questo è qualcosa che Moore non dimentica mai. Ha scritto anche sceneggiature deboli, ma si sente che non è mai successo perché non si è impegnato abbastanza (piuttosto forse perché si è impegnato nel modo sbagliato). Io stesso non mi sono mai sentito preso in giro leggendo un fumetto di Alan Moore. No, nemmeno dopo Spawn: Bloodfeud.

Per questo Watchmen è ancora imbattuto dopo diciotto anni.

Per questo Watchmen è perfetto per far appassionare gli amici al fumetto, ma difficilissimo da imitare.

Per questo Alan Moore è talmente bravo a raccontare bugie da aver convinto anche me (pochi ci sono riusciti prima di lui e ancora meno in seguito) che valesse la pena leggere fumetti di supereroi. E credo anche di avere capito perché abbia raccontato così bene i supereroi stessi.

Sapete, bisogna essere uno di loro…

Statemi bene!

Darko Macan
Zagabria


*Darko Macan è uno scrittore, disegnatore ed editor di fumetti croato con una pluridecennale carriera e collaborazioni per il mercato americano e francese. Proprio in questi giorni Panini Comics pubblica il primo volume di Noi siamo i morti scritto da Macan per i disegni di Igor Kordey, originariamente proposto in Francia da Delcourt.

Il pezzo originale, in Inglese, è disponibile sul blog Alan Moore World, curato da smoky man, uno dei principali esperti italiani dell’opera di Alan Moore, che ringraziamo per aver reso possibile questa ripubblicazione. 

I testi del saggio Alan Moore: Ritratto di uno Straordinario Gentleman sono stati tradotti da Giuliano Cremaschi, Michele Fioraso, Paolo Livorati, smoky man, Omar Martini, Antonio Pala, Silvio Schirru, Daniele Tomasi.

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