È come un rituale. Ogni domenica sera, a Reading, Pennsylvania, Jim Steranko siede alla scrivania. La casa in cui vive è la stessa da quarant’anni. Fuori, un cancello in ferro battuto segna la fine della strada pubblica. La carta da parati a fiori rosa che avvolge le stanze è sbiadita e probabilmente nemmeno c’è più, magari l’ha cambiata con qualcosa di più sobrio. Dato il personaggio, non ci giurerei. Nel corso della sua vita, Jim Steranko è stato fumettista, musicista, art director, escapista, storico, illustratore per il cinema, criminale, e di lui si raccontano gli aneddoti più avventurosi che vi siano mai capitati di ascoltare da un solo uomo, per quantità e senso del meraviglioso. Quindi sono dichiarazioni tutto sommato nella norma, quelle che fa attraverso l’arredamento casalingo.
È quando avvia il computer e apre Twitter che emerge il suo spirito iconoclasta. Scrive per un’ora buona, e i tweet che inanella formano un breve racconto del proprio passato. La chiama TNT, Twitter Narrative Technique. Usa il social network come userebbe le voce narrante o le nuvolette del pensiero nei fumetti. Divide i periodi senza necessariamente colmare la misura. Se deve raccontare di quella volta che falsificò banconote da venti dollari per comprare un cappotto alla sua ragazza, calibra il giro di frase come stesse disegnando nella sua mente le didascalie in cui inserirle. A volte si limita a rispondere ai fan, ringraziandoli per l’affetto o rivelando che ogni volta che si chiede chi sia il miglior fumettista della Storia gli basta guardare in uno specchio per trovare la risposta.
Le vecchie glorie non avrebbero bisogno di farlo. Di solito a svernare tra una convention e un social network ci sono i giovani che vogliono o devono vendere se stessi, oltre al proprio lavoro. O gli artigiani attempati che hanno fatto qualcosa ma non abbastanza e adesso cercano lodi e compensi che non si sentono più ricevere da tempo. Invece Steranko, capelli cotonati e occhiali da aviatore, ancora gira per le fiere, e sembra che gli piaccia davvero stare sul web.
Rientra nel suo personaggio, d’altronde, voler essere sempre sul pezzo. Se il suo nome è inciso nella storia dei comics è anche per le commistioni artistiche operate su Nick Fury: Agent of S.H.I.E.L.D., fumetto in cui si lasciò influenzare dalle arte visive degli anni Sessanta, dal cinema e da tutto quello che il suo fiuto gli diceva essere d’attualità.
A ventisette anni aveva già vissuto tre vite intere: l’escapista, il musicista e il pubblicitario. Quattro, se si conta la toccata nel 1957 come inchiostratore nello studio newyorchese di Vince Colletta e Matt Baker. Nove anni più tardi, Jim Steranko ci riprovò: Joe Simon lo assoldò per l’etichetta supereroica della Harvey Comics e poco dopo, senza neanche aver fissato un appuntamento, lui si presentò negli uffici Marvel e fece cadere il proprio portfolio sulla prima scrivania che trovò. Fu il suo lavoro a parlare, come se la sua persona non avesse già dimostrato abbastanza. Mentre gli altri fumettari rasentavano a fatica la soglia della minima igiene personale, Steranko era un Mad Men con completo e cravatta sottile. Le cronache lasciano intendere che, certo, l’editor e mogul Stan Lee rimase piacevolmente sorpreso dai disegni di Steranko, ma che lo assunse per tutto il pacchetto. I capelli alla mascagna, il sorriso smagliante, il portamento di James Dean lo convinsero di avere di fronte un «attore, redattore, incantatore e showman in egual misura».
Guadagnava bene come pubblicitario e, anche se la Marvel lo avesse viziato con compensi di prima linea – gli stessi che percepivano Kirby o John Buscema – la paga sarebbe stata a miglia di distanza da quella del precedente lavoro. Non era una questione di soldi o necessità, era una semplice espressione artistica che non trovava altro sfogo. Jim Steranko era rimasto affascinato dai fumetti da piccolo e aveva iniziato a disegnare pagandosi carta, matite e colori con la rivendita di bottiglie e vecchi giornali, gli stessi su cui aveva studiato i fumetti di Milton Caniff, Hal Foster e Chester Gould. Aveva capito da subito che gli piacevano le cose essenziali: «Meno linee riesci a mettere e più velocemente l’occhio riesce a registrare il disegno» spiega a Whizzard. «Alex Toth è il migliore a minimizzare le linee massimizzando l’impatto».
Anche se aveva imparato a leggere sui fumetti, la polpa di come raccontare una storia l’aveva carpita trangugiando i film. Per lui i fumetti erano stati un terreno di studio ma anche un momento di delusione. «Durante la lettura di un fumetto mi capitava di rado di avere una risposta emotiva viscerale. Coi film succedeva spesso». Per lui, il miglior manuale per narrare una storia con le immagini resta Il romanzo di Mildred, di Michael Curtiz.
Invece di dirottarlo arbitrariamente su una testata, Lee gli mostrò una bacheca con tutti i titoli in produzione e pronunciò due parole che gli avrebbero cambiato la vita: «Scegline uno». La scelta ricadde sul titolo più accrocchiato, Strange Tales, un’antologia che era servita come vetrina per i lavori di Steve Dikto (ci avevano debuttato il Dottor Strange ed Eternità) ma che non stava offrendo grandi soddisfazioni alla compagnia. Nella testata era confluito anche il personaggio di Nick Fury, il capo dello S.H.I.E.L.D., ovvero l’agenzia di spionaggio più importante della Casa delle Idee, con cui l’azienda tentava di sfruttare la mania delle superspie alla James Bond o Organizzazione U.N.C.L.E., ma secondo Steranko: «Nessuno capiva il materiale e come renderlo al meglio».
Il giovane Jim Steranko iniziò al fianco di Jack Kirby, sul numero 151, ripassando gli abbozzi del Re, ma l’apprendistato sotto un gigante del mezzo gli bloccò la vista del sole: «Più stavo con lui più le mie abilità con la matita miglioravano. Eppure, misteriosamente, mi sentivo oppresso, invece che sentirmi liberato dalle scorciatoie che prendeva Kirby. Imparai subito che, anche se collaboravo con una leggenda, ero soffocato da quello che chiamavo “la tirannia della vignetta”».
Quei riquadri standardizzati lo annoiavano, erano statici, poco cinematografici e per nulla inventivi. L’impostazione della pagina doveva adattarsi ai tempi di lettura dei lettori. E poi Kirby, come Neal Adams (coevo di Steranko e autore di una frecciata agli effetti grafici del collega), era romantico, dove invece Steranko era neoclassico. La pittura romantica cattura il momento topico, l’acme emotivo della vicenda. Il neoclassicismo arriva un attimo dopo o un attimo prima. Amore e Psiche di Canova blocca la narrazione un momento prima del bacio, La morte di Marat di David interviene a omicidio già consumato. Succedeva lo stesso con questi due disegnatori: Kirby disegnava il momento dell’impatto, ti faceva sentire il suono del colpo sferrato. Steranko lo anticipava, disegnando l’attimo primo che il colpo andasse a segno.
Col passare dei numeri, Nick Fury, Agent of S.H.I.E.L.D. acquistò popolarità, diventando prima presenza fissa dell’antologico insieme a Strange e poi ottenendo una serie tutta sua. L’autore fu lasciato libero di scrivere, disegnare e colorare (che le tre professioni fossero di competenza di una sola persona era un unicum in Marvel, e veterani come Kirby ebbero da ridire non poco) delle storie che col passare dei numeri mescolavano le influenze artistiche della modernità. Era il 1967, in piena summer of love, e Jim Steranko abbracciava il nuovo. Se foste stati dei lettori di fumetti supereroistici nell’America di quegli anni, ci sarebbero state buone possibilità che per voi fumetto significasse questo. Invece Steranko proponeva questo, obbligava il lettore a girare le pagine sottosopra («Un fumetto non può diventare più interattivo di così, a meno che non ve lo fumiate»), apriva un numero con tre pagine di assoluto silenzio.
Mischiava la controcultura, l’Op Art, Dalì e Warhol, i film e le pubblicità, portando i collage di Kirby a un nuovo livello di profondità. Divenne un simbolo per fattoni e studenti d’arte, ma anche per le donne. Il taglio del fumetto piaceva a tutti, e la Marvel si trovò presto con la casella postale invasa da confessioni di lettrici su quanto fosse bello Fury nella sua tuta nera. Steranko lo aveva modellato su stesso e su James Bond. D’altronde, i tre individui erano accomunati da una vita avventurosa e fuori dall’ordinario, bastava agghindare un po’ il personaggio. «Fury non aveva maschere, costumi o superpoteri. E io dovevo competere con Spider-Man, i Fantastici Quattro, Batman. Pensai di vestirlo con una tuta di pelle aderente, stilizzandola con cinture, fibbie e cerniere. Lo feci diventare un guerriero high-tech. Se non poteva farsi bello con i superpoteri almeno lo avrebbe fatto con i vestiti».
I comprimari femminili subirono lo stesso trattamento, costringendo i censori a modificare spesso i disegni: seni meno prominenti, più morigerati i sederi. E anche le scene d’amore venivano edulcorate. In Agent of SH.I.E.L.D. #2, Steranko intervallò il bacio tra Fury e la Contessa Valentina Allegra de la Fontaine (detta ‘Val’) con l’immagine del telefono con la cornetta alzata. La Marvel lo trovò troppo allusivo e fece ridisegnare la vignetta con la cornetta al suo posto. «Da quella volta, quando vedo un telefono mi eccito», disse nel 1989 alla rivista Betty Pages. Non solo, la censura sostituì l’abbraccio in campo lungo dei due con il dettaglio della pistola nella fondina. «Fa ridere perché è una cosa molto più suggestiva: una grossa arma stretta in una minuscola custodia, una metafora sessuale più potente dell’abbraccio che avevo disegnato io».
A Jim Steranko queste interferenze davano noia, così iniziò a consegnare a ridosso delle scadenze, di modo che non ci fosse tempo per modificare nulla. Se la consegna era fissata entro giovedì alle quattro, Jim portava il plico di tavole alle tre.
Il suo lavoro su Fury, tra Strange Tales e la serie Agent of S.H.I.E.L.D., è noto ai cultori del mezzo. Ma Steranko ha lasciato il segno ovunque andasse. Prendete My Heart Broke in Hollywood, una storiella d’amore apparsa nel 1970 sull’antologico Our Love Story #5, che all’interno ha pagine atipicissime per un romance. L’uso dei colori in My Heart Broke in Hollywood mostra bene come Steranko sia stato tra i primi a capirne l’importanza come strumento narrativo.
Nello stesso periodo lasciò un contributo fondamentale al mondo degli X-Men. Disegnò un paio di numeri della testata e tre copertine. Ma il logo proprio non gli piaceva. «Era brutto, così chiesi di poterlo ridisegnare. Non venni nemmeno pagato per quel lavoro extra». Nel suo blog, il letterista Todd Klein ha raccontato la storia dei loghi e ha constatato che quello di Steranko è uno dei più funzionali, su cui quasi tutti gli altri loghi delle serie mutanti hanno costruito sopra. Come per la precedente incarnazione, Steranko voleva lasciare in evidenza la X del titolo, ma trovava lo sbalzo rispetto a “men” inelegante. Così immaginò il titolo lanciato verso un punto di fuga, posto nell’angolo in alto a destra. «Steranko conosceva la prospettiva e qui la fece funzionare al meglio», scrive Klein. «Il risultato è moderno e classico allo stesso tempo». Le lettere, maiuscole e di spessore, sono distanziate tra di loro al punto giusto, in modo da aumentare al massimo la leggibilità anche nel caso sotto ci sia un disegno complicato.
Altrettanto degna di nota è stata la gestione di Captain America, durata solo tre numeri – 110, 111 e 113 (il 112 è un riempitivo a opera di Kirby, chiamato a tamponare i ritardi di Steranko) – ma zeppa di immagini storiche. Tanto che la Marvel lo ha assoldato per realizzare una serie di variant celebrative dei 75 anni del personaggio.
Per Steranko, Capitan America era il cocco della maestra che faceva tutto giusto e piegava i vestiti prima di fare all’amore. Quindi dovette infondergli un po’ della sua ‘sterankitudine’: prima gli fece compiere il gioco di prestigio più grande di tutti, fingere la sua morta per riacquisire un’identità segreta, e poi lo rese smargiasso perché, se Steve Rogers può essere una scopa nel culo, Capitan America deve «essere positivamente elettrificante». Per questo, quando gli chiedono se Chris Evans sia il giusto attore per Cap, risponde: «Non ci arriva del tutto. Sembra si sia appena laureato al college».
Nell’arco narrativo, l’ideale americano incarnato da Steve Roger dovette scontrarsi la gioventù, simboleggiata dal nuovo Bucky (Ricky Jones), e questa relazione fu eviscerata sullo sfondo della Guerra Fredda. Steranko disegnò ombre ovunque per trasmettere l’incertezza che l’Hydra, l’organizzazione terrorista che voleva dominare il mondo, portava con sé. I tre numeri di Captain America si ingegnavano di continuo per proporre nuove soluzioni compositive fin dalla prima pagina, epilettica come neanche i titoli di testa di Enter the Void, in cui il montaggio delle vignette sembra far emergere i suoni del luna park, mentre uno straniante senso di tensione incombe sul lettore.
Eravamo nel 1969, e la sceneggiatura verbosa di Stan Lee cedeva il passo allo stile asciutto di Steranko, che era più dalle parti del contemporaneo 2001: Odissea nello spazio per la ritrosia espositiva. In una doppia splash si notava bene come l’autosufficienza dell’immagine lottasse contro il bisogno pedissequo della parole di voler spiegare tutto.
In parallelo alla sua attività da artista, Steranko trovò il tempo di editare FOOM, la prima fanzine ufficiale della Marvel, e fondare la propria casa editrice, Supergraphics, con cui pubblicò Steranko’s History of Comics, la prima storiografia sui fumetti americani, di cui uscirono solo due volumi dei sei previsti. Steranko partì dalle pitture rupestri e arrivò a raccontare gli anni Sessanta. Parchi di una vera sistemazione storica, i due volumi hanno il pregio di contenere storie fino ad allora mai ristampate e le prime, in alcuni casi le uniche, interviste a diversi autori della Golden Age.
Parlando a Enterteiment Weekly, Michael Chabon ha attribuito all’opera un merito seminale: «Se gli Avengers sono ormai cementati nella cultura pop americana insieme a Star Wars e ormai chiunque si considera un esperto della guerra Kree/Skrull, è anche grazie a Steranko. È grazie a lui che esistono gli accademici del fumetto, in un certo senso». Chabon si è ispirato a Steranko per creare il personaggio protagonista di Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay. Come Steranko, Josef “Joe” Kavalier è un giovane fumettista con un passato da prestigiatore ed escapista. Non è il primo autore che si era fatto ispirare da Steranko: Jack Kirby lo aveva già depredato per il suo Mister Miracle.
È naturale che Steranko sia terreno fertile per le creazioni altrui, visto il suo passato da epopea americana. I nonni emigrati dalla Ucraina e trasferiti nella Pennsylvania orientale per lavorare nelle miniere, il padre diventato contrabbandiere di carbone e mine artigianali. Steranko nacque lì, a Reading, nel 1938. Malaticcio e minuto, divenne il bersaglio preferito dai bulli della scuola e iniziò a studiare boxe e autodifesa nella palestra locale. Tra le passioni infantili, la magia. «Mio papà faceva un sacco di cose, e una di queste era la magia», raccontò a Rolling Stone negli anni Settanta. «Sono cresciuto vedendolo lavorare, fare trucchi e cose così. Iniziai a leggere i libri e a fare magia per conto mio e questo mi condusse all’escapismo. L’escapismo significa che quando avevo 15, 16 o 17 anni fuggivo di galera, mi liberavo da lucchetti e manette, da casseforti gettati nel fiume.»
A 15 anni Steranko organizzò il suo primo escapismo in pubblico con la complicità del dipartimento di polizia locale: «Mi ammanettarono mani e piedi e mi diedero mezz’ora. Ci misi 27 minuti». Non ci volle molto a passare da mago della fuga a criminale. Due anni dopo Steranko era già un ladro provetto che commetteva furti dovunque ci fosse un registratore di cassa. Lui e il suo complice avevano due regole: mai a mano armata e mai a Reading, la sua città natale. La prima non riuscì a mantenerla, perché una volta assaltò una stazione di servizio con un’arma, senza sparare, cosa che Steranko si vanta di non aver mai fatto in vita. Quando lo presero, finì in cella d’isolamento, per via della sua storia come escapista. «Sapevano che se mi avessero messo in una cella qualsiasi sarei scappato dopo tre minuti. Dovetti restituire tutta la refurtiva, mi ci volle un paio di anni per andare in pari».
Il fumetto è stata solo una parte neanche tanto consistente della sua carriera artistica. Nella primavera del 1969, il Marvel Bullpen Bulletins, la pagina redazionale dei fumetti Marvel, dichiarò: «In caso vi steste chiedendo che fine abbia fatto il vivace Jim Steranko: sta lavorando a un nuovo progetto segreto. E parlando di segreti… non ha detto nemmeno a noi di che si tratta!». L’annuncio finì nel vuoto, e Steranko si limitò a mandare in stampa At the Stroke of Midnight, una storia horror di sette pagine che causò la rottura tra lui e Stan Lee. Secondo Steranko, Lee non aveva inteso l’omaggio del fumettista a Lovecraft e continuava a modificare dialoghi e vignette, cambiando perfino il titolo della storia. Dopo l’incidente, Steranko lasciò la Marvel (o fu licenziato, non è dato saperlo). «Pensavo che se fossi stato bravo abbastanza da lavorare per loro, avrebbero accettato il mio lavoro senza interferire. Forse mi sbagliavo.»
Tornò qualche anno dopo, ma ormai il suo interesse per i fumetti era scemato e da allora il suo nome nei crediti degli albi si lesse rarissimamente. Lo stile che lo aveva reso famoso fu sostituito da atmosfere pragmatiche, tutti viravano verso il realismo di Neal Adams, accessibile e meno pirotecnico. Ci provò anche lui con Chandler: Red Tide, un romanzo illustrato che omaggiava i racconti di Raymond Chandler e che Steranko afferma essere il primo graphic novel della storia (evidentemente il Nostro non legge Fumettologica, ma okay). Poi, negli anni Ottanta, si dedicò al cinema. Adattò per Heavy Metal il thriller sci-fi Atmsofera zero e lavorò come artista concettuale a grandi produzioni hollywoodiani come I predatori dell’Arca perduta e Dracula. E adesso vive di rendita, lavoricchia, tiene conferenze, va alle convention, sta sul web. Se gli fate una domanda vi risponderà, non prima di domenica, con quell’entusiasmo demodé che fa diventare la più stupida virgola un punto esclamativo.
In un’intervista ha rivelato di dormire non più di due ore a notte, mangiando solo una volta al giorno e ingurgitando beveroni proteici alla banana. Quindi pare comprensibile che, leggendo la dichiarazione «Una volta ho dimenticato di esistere per un mese intero. L’esperienza più piacevole che non coinvolgesse perdite di sangue», ci si metta un po’ a capire che proviene dall’account Fake Steranko.
Secondo il Verbo, ha fatto parte del Witchdoctors Club, un giro di maghi che si ritrovava a New York per mangiare nei ristoranti spagnoli della città. Fin qui la cosa ha il suo senso, è un club documentato a cui il Nostro potrebbe aver avuto accesso. Jim Steranko ci ha aggiunto il carico da novanta dicendo di aver conosciuto lì Isaac Asimov e Orson Welles – e questo invece non trova riscontro in nessuna fonte (nonostante sia plausibile, perché Welles era appassionato di magia e illusionismo). Però con una frase soltanto ha dipinto un’immagine talmente suggestiva che non v’è bisogno di andare a cercare conferme. I tre al tavolo, Steranko che ciancica una gomma e sorride alla cameriera, Asimov che si arriccia i favoriti mentre parla con Welles, circondato da bottiglie di vino e fumo di sigari.
«Ma tutte queste stories sono vere?» scriveva Jonathan Ross su The Guardian. «Me lo sono chiesto più di una volta. O il suo amore per la narrazione e per i miti moderni si sono saldati con la sua vita rendendoli indistinguibili l’uno dall’altra?». Ti continui a chiedere se sia vero, se l’ennesima storia larger than life sia vera – e alcune lo sembrano davvero poco. Magari sei tu, talmente incapace di assorbire lo straordinario che lo rifiuti a priori, bollandolo come una panzana da raptus senile. O sei solo invidioso, perché a te queste cose non capiteranno mai e sotto sotto hai paura di sentirti una spanna d’esperienza sotto di loro. Come il Tommaso Palladini di Ovosodo o il Paul Maclean di In mezzo scorre il fiume, hanno vissuto più loro in un pomeriggio che tu in un’adolescenza intera. Li ammiri perché sembrano sapere tutto, anche se in retrospettiva potrebbero non aver commesso le migliori scelte del caso.
In realtà, crederci non ti fa sentire inferiore ma anzi ti rende parte della vicenda, perché ci sei tu a far scattare la legittimazione. Senza nessuno ad ascoltare le loro storie non si sentirebbero altrettanto pieni di vita. Ecco, io credo in Jim Steranko. Anche e soprattutto quando dice di aver preso a schiaffi Bob Kane, di correre ogni giorno su e giù per le montagne di Reading, di fornicare beatamente come un uomo con un terzo dei suoi anni. Forse, dopo aver letto i suoi fumetti, uno non può che convincersi che sia così.
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