HomeRecensioniNovitàDC Comics: Rebirth #1, il gatto di Schrödinger dei fumetti

DC Comics: Rebirth #1, il gatto di Schrödinger dei fumetti

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I fumetti sono strani. Nessuno nel mondo dell’editoria penserebbe di inserire Leopold Bloom nel nuovo romanzo di Wilbur Smith, e nemmeno il produttore più ardito vorrebbe svelare che il demiurgo delle Tartarughe Ninja in realtà è Charles Foster Kane. Eppure nel fumetto è appena successo, il che forse spiega perché ci piacciono tanto questi albetti di carta e inchiostro.

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dc comics rebirth

Rebirth, il nuovo strombazzatissimo evento della DC Comics con cui l’editore spera di risollevarsi dopo un periodo di incertezze, fa questo, tentando allo stesso tempo di gestire i suoi multiversi ed essere un punto d’inizio per lettori vecchi e nuovi. In soldoni, come fa intendere l’albo DC Comics: Rebirth #1 pubblicato questa settimana, ora l’universo di Watchmen, una delle opere più alte di questa espressione artistica e una delle poche che i media considerano letteratura (con tutte le storture del caso), si intersecherà con quello di Batman e compagni. Lungi dall’essere la rivoluzione paventata da qualcuno – semmai, come mi ha fatto notare il prode Andrea Antonazzo, questo universo-tasca è una cosa che puzza di 1996 – la congiunzione tra eroi DC e il cosmo di Alan Moore non è nemmeno così campata in aria.

Intanto c’è stato lo sforzo di Johns, che ha seminato indizi in giro fin dal 2012 e che qui recupera diversi passaggi dal lavoro di Moore e Gibbons, citandolo nel prologo, nell’epilogo e dando istruzioni ai disegnatori di rifarsi ora alla griglia a nove vignette, ora a determinate scene (Gary Frank copia la morte di Rorschach ricontestualizzandola per un altro personaggio, nel finale vediamo lo smiley insaguinato e l’orologio dell’apocalisse vicino alla mezzanotte, in previsione di scenari tetri). Soprattutto, e qui sta la plausibilità della manovra che rende l’incastro meno forzoso, alla fine di Watchmen il Dottor Manhattan dichiarava di voler creare una vita tutta sua, un suo universo personale, cosa che fa nel prequel Before Watchmen.

L’idea dei multiversi, la presenza di più realtà narrative all’interno di uno stesso editore, è stata il leitmotiv del fumetto supereroico. Sia Marvel che DC lo hanno messo al centro delle loro ultime annate fumettistiche, con Secret Wars e Multiversity rispettivamente. Ed entrambe hanno giocato con la vastità di terre parallele a loro disposizione. Solo che, mentre la prima in linea generale ha mantenuto separate le varie realtà utilizzandole come variazioni sul tema, esperimenti o progetti autosufficienti rispetto al loro universo principale (Terra-616), la seconda ha fatto dello scontro tra mondi il meccanismo per sgravarsi dai fardelli della continuity che la lunga traversata storica della DC ha generato.

Comprensibilmente, i problemi narrativi della Distinta Concorrenza sono radicati in sé stessa. Parliamo di due compagnie che, pur coeve, possiedono personaggi di età diverse. Superman, Batman e Wonder Woman sono nati negli anni Trenta, Spider-Man, gli X-Men e i Vendicatori negli anni Sessanta. Già negli anni Ottanta, quindi, l’Azzurrone e i suoi hanno abbisognato di una messa a punto che ha generato il filone delle Crisi (Crisi sulle Terre infinite, Ora zero – Crisi nel tempo, Crisi infinita, Crisi finale), un periodico azzeramento delle storie, con modi, soluzioni ed esiti sempre più ingarbugliati, a dispetto dell’intento semplificatore. E da quel punto in poi, a ogni sciacquatura dei panni, la DC è sembrata il giocatore di poker che bluffa rilanciando la posta sperando che gli altri seduti al tavolo passino la mano.

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dc comics rebirth 1

L’ultimo reboot, The New 52, è stato un tentativo commercialmente riuscito ma narrativamente ingolfato di avviare una nuova fase dell’universo DC (la continuity veniva azzerata, ma alcuni eroi mantenevano intatto il loro passato). Soprattutto, ha generato un malcontento da parte dei fan di lunga data, che si sono sentiti messi da parte in favore dei nuovi lettori. E alla fine anche il potere attrattivo di The New 52 è svanito, traghettando gli albi DC nella parte bassa delle classifiche di vendita.

Geoff Johns prende tutti questi problemi e, invece di tapparsi le orecchie gridando «Non vi sento!», li mette sul tavolo e li affronta uno alla volta, partendo da un titolo a lui caro (è la sua terza storia a intitolarsi Rebirth) e dal suo personaggio simbolo, che non è il Lanterna Verde di Rinascita ma Wally West, il Flash protagonista di una gestione quinquennale, il primo grosso incarico di Johns nel mondo del fumetto. Vorrei spiegare che West era scomparso dai fumetti in occasione dell’evento Flashpoint (e poi riapparso sotto nuova forma in The New 52, con buona pace dei fan rabbiosi che non avevano apprezzato il cambiamento) e aveva lasciato spazio a Barry Allen, il Flash originale, e che questo aveva causato una serie di slittamenti e magagne temporali che avevano portato a The New 52, ma vi vomiterei addosso così tante informazioni che, se non siete avvezzi al mondo DC, vi saranno di difficile scioglimento.

Rebirth è un albo che dice tante cose al – e del – lettore: gli scarica addosso una vagonata di fatti, parla di memoria, di eredità, di gente che si ostina a ricordare qualcosa che non vuole dare per perso. Come metafore, non potrebbero essere più urlate in faccia. In qualità di prodotto di intrattenimento è sconnesso, e come tentativo di conquistare nuovi lettori – ma non credo ci sia più nessuno in casa DC convinto di ciò dopo aver letto l’albo – è uno sforzo fallito in partenza. C’è una miriade di nomi, nozioni e decenni di storie condensate in una manciata di pagine, e rimanere al passo è impossibile.

L’unica linea abbastanza seguibile è l’arco di Wally West, che è anche la parte più emozionale e riuscita. Il restante delle pagine serve a introdurre il nuovo status quo dei vari eroi DC in una raffica di montaggi che mancano di peso drammaturgico. Però come lettera d’intenti funziona già meglio. Come ha spiegato Johns al Wall Street Journal, lo scopo è: «Decostruire le istante decostruttiviste di Alan Moore». Dove Watchmen aveva preso il concetto di ‘supereroe’ e lo aveva smontato come un’orologio, gettando un’ombra di postmodernità sui comics, Rebirth vuole riportare ottimismo, speranza e quel senso del meraviglioso latente nei prodotti DC. Per questo l’albo sta con un piede nel passato (stringe il proprio sguardo su ambienti claustrofobici e cieli piovosi) e uno nel futuro, infarcendo le pagine di buoni sentimenti, tanto, tanto amore, declinato nelle varie opzioni (padre-figlio, amanti, mentore-alunno) e moti progressisti.

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Quindi: diversificazione dalla concorrenza, puntando sulla grande eredità DC, la cui classicità viene ribadita ancora una volta attraverso il recupero di anni di storie. La dichiarazione di diversità è resa anche con i disegni (realizzati da Ivan Reis, Phil Jimenez, Ethan Van Sciver e Gary Frank, un team in cui solo Frank riesce a distinguersi) che recuperano una solidità alla Neal Adams in contrasto con gli esercizi di sintesi che la stessa DC aveva sperimentato, scottandosi. Parlo di We Are Robin, Prez e tutta quella linea di testate che Dan DiDio aveva ripudiato in favore di storie «meat and potatoes», di sostanza e senza tanti fronzoli.

Resta incognito lo sviluppo futuro della cosa. Se l’introduzione di Watchmen nel mondo DC sia stato un escamotage solo per catturare qualche titolo di giornale ancora non è dato saperlo. Ma si capisce fin dalla copertina michelangiolesca che le ambizioni ci sono tutte. Per ora l’idea alla base di Rebirth è come il gatto di Schrödinger, al tempo stesso la più sonora panzana e la mossa più furba che si vede da molto tempo. Bisogna solo aspettare di capire se gli avversari vorranno vedere il bluff della DC.

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