“72243225” e “73222079” sono i numeri di serie di due marchi registrati all’ufficio brevetti statunitense che corrispondono a “Super-Hero” e “Super-Heroes”. I titolari sono Marvel e DC Comics, e la loro proprietà è la parola “supereroe”. D’accordo che c’è gente come Don Rosa che può fregiarsi di aver registrato il proprio nome, ma si può dire lo stesso di parole presenti nel dizionario? Sì.
In pratica, nessuno tranne Marvel e DC può commercializzare determinati prodotti che contengano la parola “superhero” nel nome. Oggettistica da edicola (gomme, quaderni, matite…), vestiti, merchandising assortito. E ovviamente titoli di pubblicazioni, riviste e fumetti. All’interno delle opere si può invece usare la parola senza problemi. È lo stesso meccanismo che consente al personaggio DC Capitan Marvel (Shazam) – pur avendo nel proprio nome quello della casa editrice rivale – di esistere, ma non di avere una testata col proprio nome.
Anche se il concetto di supereroe si perde nel tempo (da Gilgameš alle divinità greco-romane, passando per figure folkloristiche come Robin Hood e il ciclo de La primula rossa), l’uso della parola ‘superhero’ risale ai primi del Novecento, quando una serie di personaggi mascherati iniziano a fare capolino in vari mezzi d’intrattenimento, fumetti in particolare. La prima attestazione scritta è in forma aggettivale e si deve al quotidiano Evening Telegraph, che nel 1896 descrisse la guerra d’indipendenza cubana contro la Spagna una «superheroic action». Le fonti sono concordi nell’affermare che il sostantivo “super-hero”, nella forma plurale, compare per la prima volta nell’autobiografia del pilota della prima guerra mondiale Alan “Contact” Bott : An Airman’s Outings, del 1917.
Il trademark nasce invece nel 1979, quando le due compagnie si unirono per fare fronte comune. Non per un qualche spirito gregario, ma perché nessuno dei due editori due poteva dimostrare di essere l’unico creatore del sostantivo. La registrazione andò a buon fine perché Marvel e DC dimostrarono che quando un consumatore legge la parola ‘supereroe’ il suo pensiero va a un loro personaggio. Fu quindi considerato ragionevole l’assunto che se un prodotto fosse stato commercializzato con il nome “supereroe” il consumatore avrebbe pensato fosse un prodotto Marvel/DC.
Le due compagnie hanno registrato “superhero” (e il suo plurale) con il trattino, ma tra l’uso di “super-hero”, “superhero” e “super hero” c’è un ragionevole dubbio che porta il compratore a confondere gli eventuali prodotti tra di loro, quindi il marchio vale per qualsiasi iterazione della parola. È lo stesso motivo per cui se tentaste di creare un personaggio che si chiama Super-Man o uno smartphone dal nome “I-phone” ricevereste comunque la cordiale visita di una pletora di giuristi. Tutti questi discorsi si limitano al territorio statunitense, perché “superhero” non è un marchio protetto dalla WIPO, l’organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale.
Una richiesta legittima, secondo Brian Cronin, collaboratore del portale americano CBR e avvocato esperto in materia. Un po’ meno secondo altri avvocati ed editori che vorrebbero usare la parola ‘superhero’ nel titolo – per poi registrarlo – di un loro libro o fumetto. Come Ray Felix, fondatore della Bronx Heroes Con, che qualche anno fa ha creato la serie A World Without Superheroes (edizioni Cup O Java Studios) e si è trovato nella casella postale una lettera di diffida da parte dei due editori. O Dan Taylor e Chris Fason, il cui fumetto Superhero Happy Hour ha dovuto perdere il “super” per evitare grane legali. Lo stesso si dica se volete inserire la parola nella vostra linea di ciambelle bibliche (con il blasfemissimo gusto “gesù”) o nel corso di ginnastica per bambini. La compagnia Bio-Synergy si è vista bloccare lo slogan per una dieta, «Fuel the super-hero inside» (“Nutri il supereroe che è in te”), e un autore inglese non ha potuto intitolare il proprio manuale di vita Business Zero to Superhero per lo stesso motivo.
Sono tutti esempi trascurabili, che di certo non minano il predominio di Marvel e DC. Eppure è proprio bloccando questi piccoli dissidenti della proprietà intellettuale che le due stanno vincendo la battaglia del trademark. Perché il rischio è che il nome diventi un marchio generico non più tutelabile, come è successo per “cellophan”, “cherosene” e tante altre parole un tempo loghi e ora espressioni d’uso comune.