Largemouths di Gabriel Delmas è un monolito nero di quasi 700 pagine, stampato da Hollow Press in due diverse edizioni limitate: una tirata a 500 esemplari e l’altra, con copertina rigida e dimensioni che lo rendono ancora più inquietante, a sole 17 unità. Gli ultimi decenni ci hanno abituato a confrontarci con tomi imponenti. Pensiamo solo a lavori come Habibi e Blankets di Graig Thompson, agli antipodi e di più largo consumo rispetto a Largemouths di Delmas che invece si pone in un orizzonte lontano e alieno al grande pubblico.
Largemouths è una graphic poetry ispirato al famoso dipinto di Francisco Goya, Saturno devorando a un hijo, facente parte del famoso ciclo dipinto sulle pareti della villa dove il poeta, ormai sordo, visse un silenzioso esilio: la Quinta del Sordo. Tra le pinturas negras il Chronos di Goya occupa un posto privilegiato, stagliandosi nella sala da pranzo e dando in pasto ai commensali uno dei temi più abietti dell’arte: l’intreccio di infanticidio e cannibalismo. La forza espressionista dell’affresco ad olio di Goya è la scaturigine da cui Delmas parte per illustrare un mondo ancestrale. Prima che l’umanità con la forza rischiarante della voce potesse dar nome alle cose provocando l’irruzione della Storia nell’accadere caotico degli eventi. Infatti, quello che rende sfuggente e insulare il poema illustrato di Delmas è la totale mancanza di parole. 700 pagine prive di fonemi, ma comunque assordanti e crepitanti di rumori: sordi, ottusi, incomprensibili. Le parole – inesistenti – non possono rendere il frangersi dei corpi. Largemouths è un poema muscolare, in cui c’è il flettersi dello spazio e il curvarsi dell’eternità nel tempo.
La poesia ha da sempre intrattenuto vagheggiamenti estetici con l’immagine. Dai carmina figurata ai calligramata, dalla poesia concreta alle neo-avanguardie, il rapporto tra parola poetica e immagine ha cercato territori da colonizzare, ma senza che vi fosse un rapporto paritario: la parola non ha mai abdicato alla sua pretesa superiorità. Certo «tra Pagina e Quadro, fra Parola e Immagine», come scrivono Stefanelli e Pignotti, «non ci sono frontiere precise e neppure occasionali sconfinamenti, ma piuttosto sistematiche sovrapposizioni e integrazioni nel segno della continuità», una continuità conflittuale, oserei dire.
Nella stesura del suo poema grafico, allora, Delmas sceglie di sfrondare il campo da ogni conflittualità residuale, eliminando la parola, la quale tuttavia resta sullo sfondo. Infatti, attraverso pagine fitte di corpi contratti e peni eretti, di divinità pagane e creature norrene, di fantasie e vaneggiamenti lisergici, il fumettista ci parla della nascita della poesia, o meglio del materiale principe della teogonia. La mitopoiesi prima della poesia: della voce generatrice. Potremmo, con Giambattista Vico, dire che Delmas tenta in Largemouths di partire dall’abisso della Storia – Saturno che divora la sua progenie – per mostrare la parola-gesto che è alla base della lingua originaria. Il pennino di Delmas traccia voci-gesto, quel «respiro vitale che unisce il corpo alle cose e le anima entrambe» (come dice Vincenzo Vitiello in Filologia e Nichilismo.), attraverso pagine e pagine in cui titani dai tratti bestiali sorgono dalla fangosità callosa della terra e combattono senza tregua, in una «danza senza scopo», in attesa del sorgere dell’uomo: in attesa del loro crepuscolo, della loro inevitabile caduta e del loro farsi eternità nella parola poetica.
Delmas, allora, rende i geroglifici sonori e primordiali attraverso l’espressionismo mostruoso delle sue anatomie, che virano velocemente verso il grottesco, assecondando l’estro fantasioso e l’immaginazione o il mero gesto, come il Go Nagai orgiastico di Devilman. Perché in queste pagine che mimano la violenza della Natura, vi è una tragicità estrema, nauseante e animalesca che avvolge il lettore come bitume, lasciandolo muto dinanzi all’orrore e all’abisso del Tempo.
Largemouths
di Gabriel Delmas
Hollow Press, 2015
688 pagine, 29,00 €