Vi siete mai chiesti a quanti prodotti d’intrattenimento potremmo accedere se non fossimo vincolati dai nostri magri stipendi o dalla fastidiosa necessità di dover fare anche altro nella vita al fine di sopravvivere? Secondo Amazon nel 2015 sono stati pubblicati qualcosa come 4.039.970 libri, circa 19.832 tra film, serie tv e documentari, centinaia di videogiochi e oltre 40.000 dischi. Numeri folli, soprattutto se consideriamo che passiamo buona parte del nostro tempo a lamentarci di come oggigiorno non si trovi mai nulla di interessante da leggere o vedere. Situazione resa ancora più grottesca se pensiamo a come, tra un impegno improrogabile e l’altro, il tempo libero a nostra disposizione sia sempre meno.
Il risultato di una simile sovrabbondanza di offerta – a fronte delle nostre limitate risorse di accesso – è che mai come in questo momento il lancio sul mercato di un nuovo prodotto deve potersi vantare di una strategia studiata ad hoc. Bisogna dire le cose giuste, alle persone giuste, nella maniera più efficace possibile.
La realtà dei fatti è che i grandi produttori di intrattenimento hanno pochissimo spazio di manovra per impressionare i consumatori, e il baccano generato da milioni di altre scimmie urlatrici del marketing rimane un muro invalicabile se non in seguito allo studio di un meticoloso piano d’attacco.
Le tecniche sono molte. Chi ci prova con il teatrino dei teaser misteriosi e delle briciole di informazione lasciate lungo la strada per tutti i mesi precedenti all’evento – come se avessimo tempo di stare a ricostruire questi supposti puzzle di aspettative. Chi, invece, punta semplicemente a prenderti per sfinimento. Come il battage pubblicitario della nuova trilogia di Star Wars, qualcosa che rimarrà negli annali per potenza di fuoco e capacità coercitiva. Siamo tutti grandi appassionati di questa epocale saga Jedi, sia chiaro, ma al trailer per il lancio del primo giorno di riprese del capitolo successivo a quello appena uscito al cinema capisci che si è arrivati un passo oltre al consentito.
Molto più interessante il fenomeno prettamente musicale di lanciare sul mercato i dischi più attesi senza neppure darsi la briga di avvertirci che erano in lavorazione. Dal disco di Beyoncé del 2013 allo Squallor di Fabri Fibra – anche se, a onor del vero, mi pare che il primo a provarci sia stato Trent Reznor nel 2008 – sono ormai diversi gli esempi di come questa strategia sia in grado di sollevare sistematicamente un polverone abbastanza voluminoso da farne parlare un po’ tutti. Anche se non sempre in senso buono, vedi l’idea malsana della dirigenza Apple di infilare un intero album degli U2 – Songs of Innocence, commissionato appositamente per questa balzana trovata – in tutti i device del globo. Senza chiedere il permesso ai proprietari, naturalmente. Poteva andare peggio solo se avessero scelto i Coldplay.
L’unica voce fuori dal coro di questo tripudio di marketing sembrano essere i fumetti statunitensi, mai come in questo momento in preda a una follia da decompressione narrativa che lascia basiti. Qualche volta sulle pagine di Fumettologica abbiamo provato a parlare dei primi numeri di qualche nuova serie, ma si è dovuto abbandonare quasi del tutto la pratica per un motivo piuttosto ovvio: nei numeri uno non succede più niente. Il 90% delle volte siamo alle prese con l’introduzione di una storia che durerà chissà quanto. Della vecchia concezione di episodio pilota – un debutto in grado di dare già un’idea chiara, seppur in potenza, della serie – non è rimasto nulla. Siamo stati privati degli strumenti che ci permettevano di capire se era il caso di continuare a investire o meno il nostro tempo/denaro già al primo contatto con qualche nuova proprietà intellettuale.
Prendiamo Trees, un nuovo fumetto Image Comics di Warren Ellis, pubblicato in Italia da Saldapress. Abbiamo un incipit affascinante – enormi navi aliene a forma cilindrica atterrano sulla Terra e se ne stanno inermi, se non per occasionali colate di misteriose sostanze liquide – che pare essere strappato di peso da qualche appunto di Tsutomu Nihei. Uno scrittore in gran spolvero da ormai trent’anni, molto più che innovativo, e ancora sul pezzo nonostante la fama di autore popolare raggiunta due decenni fa. Un eccellente disegnatore, in grado di unire dinamismo da comic book a morbidi tratteggi di scuola europea (seppur molto lacunoso, va detto, nelle fisionomie dei personaggi). Un interesse mai così forte da parte del pubblico per la fantascienza e… basta, ci si ferma qui. Nel primo volume di Trees non succede niente che ne giustifichi l’esistenza come libro a se stante. E stiamo parlando dei primi quattro numeri della serie regolare.
Se si considera che negli Stati Uniti la prima raccolta da libreria arriva fino al numero otto, verrebbe da pensare che forse la colpa è di Saldapress e della sua idea di dividere il primo story-arc in due tomi ben distinti (chiamati 1A e 1B). Però neppure in questo caso sarebbe giustificato il fatto di aver speso 88 pagine solo per introdurre i personaggi. Abbiamo il giovane artista cinese e la sua trasferta nel distretto speciale di Shu, lo strano incontro tra Eligia – pressata dal suo fidanzato fascista – e un misterioso professore di lettere a Cefalù, l’ossessione di un ricercatore della base artica di Svalbard per misteriosi papaveri neri. Tre storie potenzialmente molto interessanti sviluppate all’ombra degli imponenti alberi alieni, un indizio abbastanza grosso per farci dedurre come abbiano qualcosa in comune. Forse incominceremo a capirci qualcosa di più nelle prossime uscite. Forse.
Warren Ellis, da attento osservatore della realtà quale è sempre stato, pare aver preso questa ossessione per la decompressione e averla portata al livello successivo, adattandola a quello che molti critici stanno incominciando a definire come un metodo di scrittura alla Netflix. Non esistono più segmenti dotati di un minimo di interesse, seppur subordinati a una grossa trama orizzontale, ma solo enormi film di 12/13 ore spezzati a cadenza regolare. Questo implicata racconti di ampissimo respiro, è vero, ma anche avvii di stagione al limite dell’orchite – i primi 4/5 episodi di Jessica Jones – e sacche centrali di noia tangenti alla narcolessia – vedi Daredevil, tanto per rimanere in ambito Marvel. Eppure, proprio come succede nei fumetti, pare che la cosa funzioni piuttosto bene. Nonostante il sovraffollamento del mercato, il poco tempo libero e la nostra capacità di attenzione sempre più logorata.
Finalmente il famigerato atteggiamento mordi e fuggi ha trovato un degno avversario, che però rischia di farci finire in territori altrettanto paludosi rispetto a quelli dove potevamo rimanere impantanati seguendo un modello troppo casual. Lo sappiamo tutti che il lettore medio di Warren Ellis non è certo uno sprovveduto affetto da deficit dell’attenzione alla ricerca di un evento a effetto per ogni pagina. Eppure, da lettore forte e consapevole, comincio a sentire la mancanza di tutti quei trick tecnici – parte stessa del piacere della fruizione – che permettevano a uno sceneggiatore di far stare in un pugno di pagine una trama episodica e al contempo un avanzamento di tutto lo story-arc della serie.
In Doonesbury Garry Trudeau riesce tutt’oggi a portare avanti le vicende di un intero cast di personaggi, a raccontarci gli Stati Uniti e a chiudere una gag più o meno divertente nell’arco di quattro vignette alla volta. Lo stesso Warren Ellis di Planetary aveva esplorato il concetto di antologia mettendo in piedi una storia che si apriva dedicando ogni numero a un genere diverso e concludendola come la più grandiosa delle saghe fantascientifiche.
In un’epoca dove pare che ogni idea degna di essere raccontata necessiti di una trilogia cinematografica dalla lunghezza fiume, ci si è scordati della straordinaria abilità richiesta allo sceneggiatore di dare un senso proprio anche al segmento più breve a sua disposizione. Penso a un gioiello del cinema come Grosso guaio a Chinatotwn e non posso non rendermi conto di come in 96 minuti ci sia racchiuso un intero universo fantastico – con le sue regole e i suoi variopinti abitanti – dove la vicenda ha tutto l’agio per aprirsi, consumarsi e avviarsi verso una roboante conclusione. Oppure potremmo tirare in ballo le sit-com più evolute della televisione statunitense, per esempio il capolavoro Arrested Development, dove nell’arco di 20 minuti ogni personaggi ha il suo arco narrativo – spesso tematicamente correlato a quello del resto del cast – e nel contempo si fanno evolvere le vicende di tutta la famiglia Bluth. O pensiamo ai sommi giocattolai di casa Nintendo, in grado di progettare livelli di gioco intorno alla tradizionale struttura narrativa dello kishōtenketsu. Diffusa in tutto l’oriente ma originaria della Cina, questa formula prevede un’introduzione (ki), uno sviluppo (shō), una svolta inattesa (ten) e una conclusione (ketsu). Secondo il critico inglese Mark Brown seguendo questa struttura i game designer riescono a dare un senso narrativo ben preciso a livelli non più lunghi di una manciata di minuti, seppur ognuno dotato di un concept diverso e indipendente da quanto visto in precedenza. Si tratta in pratica di minuscoli pilot interattivi, compressi in un lasso di tempo ridicolmente breve.
Tutti esempi di progettazione che lavorano benissimo sul concetto di esperienza estemporanea – me li posso godere anche a pillole minuscole – ma che non rinunciano a essere efficacissimi sul lungo periodo. Anzi, il reiterarsi di meccanismi interni ai singoli segmenti con il passare del tempo rappresenta una delle tecniche più funzionali per mettere in piedi un mondo organico e in costante evoluzione. Cosa che invece non succede con questo Trees. L’unica cosa destinata a durare alla fine del volume è l’impressione di aver preso parte a un qualche cosa che arriverà, forse, più avanti. Rimane da considerare se IO avrò abbastanza voglia di concedere un ulteriore possibilità a questo nuovo universo, più intento a rincorrere il modernissimo gioco del rimpiattino narrativo – pratica per cui il vero nocciolo della questione deve sempre essere nascosto nel prossimo film, numero o chissà che altro tipo di iterazione – che a raccontarmi una bella storia.