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La fascinazione di Donald Trump per i supereroi

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Lo scorso ottobre il giornalista John Harwood ha moderato un dibattito politico tra i repubblicani papabili per la presidenza degli Stati Uniti. Di fronte alle promesse del candidato Donald Trump (costruire un muro tra USA e Messico e fare in modo che sia il Messico a pagarlo, ridurre le tasse senza tagliare le spese), il giornalista ha commentato: «Siamo onesti, questa non le sembra la versione a fumetti di una campagna presidenziale?».

Nel corso della campagna presidenziale per le elezioni del 2016 c’è stato un movimento rappresentativo che ha portato molta stampa ad accomunare Trump – magnate, imprenditore, palazzinaro – a un personaggio dei fumetti. Da analisi serie a divertissement come quelli di Arthur Adams per GQ. Questo, oltre a veicolare una certa, ristretta, concezione del mezzo fumettistico sui cui vale poco stare a discutere, lascia intendere un messaggio più interessante. Come afferma Reuters, una componente chiave della scalata presidenziale di Trump è l’aver compreso il potere della narrazione supereroistica. «In questa era di supereroi Trump ha capito che una parte considerevole dei votanti cerca un vigilante concreto, che non faccia prigionieri e assecondi le lamentele, calpestando con forza gli avversari».

Donald Trump secondo Arthur Adams
Donald Trump secondo Arthur Adams

Jeet Heer, sul New Republic, spiega che la figura di Trump è connessa alla cultura popolare in maniera profonda e che questa gli è servita per ottenere punti nei sondaggi. Naturale che così sia stato, visto che la sua ascesa come personaggio pubblico è passata attraverso le apparizioni nei reality (The Apprentice) e negli spettacoli di wrestling. Trump ha reso pubblica ogni tappa della sua vita, professionale e non, positiva o meno. Agli occhi del pubblico, il suo essere andato in bancarotta più volte e in più campi (negli anni Ottanta fece pure fallire una franchigia della United States Football League) invece di screditarlo lo ha reso un combattente, uno che non si arrende mai. Non dovrebbe stupire che anche in politica utilizzi strategie simili. «È impossibile capire Trump senza comprendere che la sua personalità pubblica si è formata in quel contesto culturale – forme di serialità narrative che dipendono dalla fidelizzazione del consumatore attraverso colpi di scena e cliffhanger».

Nell’intrattenimento, il fattore chiave è la posta in palio. Una volta, il contesto in cui operavano i personaggi era intimista, gli ostacoli da superare più a portata d’eroe. Ora il minimo sindacale a cui il protagonista di turno deve ottemperare è un qualche disastro collettivo, di solito la distruzione del mondo. Si gioca al rialzo, sperando che l’aumento dei rischi sia direttamente proporzionale all’investimento emotivo del fruitore. Ai supereroi non basta salvare i propri cari (con rinfrescanti eccezioni, tipo Ant-Man), devono sventare la morte di universi interi. Donald Trump ha trasposto questo schema nel discorso politico. Che retwitti frasi di Mussolini, litighi col Papa o parli a favore della tortura, ogni esternazione pubblica rilancia promesse sempre più grandi.

Poco avvezzo al compromesso politico, quando propone di costruire un muro tra Stati Uniti e Messico non sta davvero facendo politica, «sta creando scene di un film». Di solito i demagoghi si fermano prima di raggiungere la massa critica, evitando di diventare zimbelli anche agli occhi dei loro sostenitori. Invece Trump quel limite lo travalica senza preoccupazioni, perché sa che più spingerà su questi concetti più riuscirà ad incanalare i sentimenti di sconforto e rabbia. Non è di politica che si occupa – e questo rende più semplice, sulla carta, l’eventuale fase successiva in cui dovrà appellarsi a un pubblico più variegato.

Negli anni, il rapporto di Trump con i fumetti è stato saltuario ma non privo di rilievi, sempre denigratori. Nel fumetto at large – come ricorda questo articolo su Robert Crumb – ma soprattutto in quello popolare, come ha dimostrato di recente Dark Knight III: The Master Race (ma anche un numero del 2008 di New Avengers in cui un signore identico a Trump bloccava il passaggio di un’ambulanza con la sua limousine). È stato invece fertile l’adeguamento di Trump alle strutture dei comic book. I parallelismi tra Donald e il mondo supereroistico sono stati così tanti perché Trump è sopra le righe, vagamente irrealistico ma perfettamente credibile nel contesto in cui si situa come lo è Superman nella sua Metropolis, costume sgargiante compreso (quella tensostruttura che alcuni chiamano ‘capelli’).

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Luke Cage vs. Donald Trump, da ‘New Avengers’ #47 (di Brian M. Bendis e Michael Gaydos)

In un pezzo dell’Huffington Post, Anya Cordell paragona il magnate al cattivo Kilgrave, apparso nella serie tv Jessica Jones. «Come Kilgrave, non si preoccupa nemmeno di avere una parvenza di civiltà. Si bea della sua spietatezza e spinge i suoi seguaci a fare altrettanto. […] Sa fare altro se non ipnotizzare le masse facendo credere che, da solo, sarà in grado di rendere l’America un grande paese?».

Sempre Jeet Heer ha analizzato il fenomeno con la felice intuizione di paragonarlo al fumetto Little Orphan Annie, creato nel 1924 da Harold Gray e diventato la base per il replicatissimo musical Annie. Little Orphan Annie segue il credo conversatore dell’epoca (che schifo i poveri, W i ricchi). Gray uccise – per davvero, perché nella striscia muore e ricompare spesso – Warbucks quando il paese adottò una nuova politica economica liberale; lo resuscitò solo in occasione della morte del presidente Roosevelt. Donald Trump sarebbe “Papà” Oliver Warbucks, capitalista impegnato a combattere i piani architettati per rapire l’orfana Annie. Sarah Palin, che ha appoggiato la candidature di Trump, ha in comune con Annie l’amore per le armi, la celebrazione dei piccoli commercianti e l’uso di espressioni come «Ci puoi scommettere!».

«Al centro della striscia di Gray c’è l’alleanza tra il povero e il ricco contro lo stato e la politica, parassiti del popolo. Un concetto simile al trumpismo» dice Heer. L’atteggiamento del neopolitico, definito trumpismo, non nasce certo nei pochi mesi della sua campagna elettorale e ha radici profonde che affondano fino agli anni Ottanta, quando Newt Gingrich avviò il processo di delegittimazione delle istituzioni che culminò con la presidenza di Bill Clinton. Ma Trump è la lente su cui i raggi del trumpismo si concentrano.

Uno dei tratti di Warbucks è il suo essere pilastro della società. «Questo paese lo ha reso grande» scrive Gray per bocca di uno dei personaggi. «Ma quelli come lui hanno reso grande questo paese». “Rendere l’America di nuovo grande” è lo slogan della campagna di Trump.

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‘Trump è il nostro supereroe. Mr. Trump per favore mi firmi lo scudo’

Appellandosi all’uomo della strada, il miliardario fa breccia nel cuore di tutte le fasce economiche. Lo storico John Lukacs spiega questo meccanismo nel libro Democracy and Populism: «Nonostante il loro odio per il capitalismo, i populisti di ogni paese rispettano e supportano i milionari della loro razza (i nazionalisti, non gli internazionalisti)». Allo stesso modo, Papà Warbucks usava le sue risorse per combattere i nemici degli Stati Uniti, i comunisti (ma non solo) e quindi le sue ricchezze erano moralmente giustificate. L’orfanella Annie compie la stessa distinzione, individuando nell’internazionalistico Mr. Tibnad, che vuole vendere la bomba atomica a Germania e Giappone, il vero male della nazione. E poco importa se al soldo di Warbucks lavorino assassini e mercenari, purché siano impiegati per proteggere la bimba e, per estensione, la nazione innocente in cui vive. L’agiatezza di Trump è vista di buon occhio perché è (o dovrebbe essere) al servizio della nazione.

L’anno scorso, mentre era in Iowa, Trump fece fare un giro d’elicottero a un gruppo di bambini. Quando uno di loro chiese se Trump fosse Batman, lui rispose di sì. Nella sua mente era vero. Come Bruce Wayne, è un privilegiato che è passato all’azione per combattere il Sistema corrotto.

Batman, Papà Warbucks, Iron Man. Trump sembra seguire il modello del self-made man che diventa eroe plutocrate, nel rispetto di quella narrazione fumettistica che lo ha aiutato a stagliarsi tra la massa di imprenditori, facendolo diventare uno dei principali contendenti all’incarico più in vista del mondo. Lo sceneggiatore Brian M. Bendis lo aveva detto nel 2012, in tempi non sospetti: «Trump è come Tony Stark, se Tony Stark non fosse un genio filantropo e facesse schifo».

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