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Tre passi nel delirio. Dylan Dog secondo Ausonia, Akab e Marco Galli

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Dopo l’episodio In fondo al male scritto da Ratigher (DD n.351), di cui abbiamo già avuto modo di parlare, il recente Dylan Dog Color Fest n. 16 – Tre passi nel delirio rappresenta, ad oggi, il più importante tentativo della gestione Recchioni di rinnovare l’immaginario – soprattutto grafico – del personaggio, coinvolgendo autori apparentemente estranei al personaggio Bonelli.

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Copertina di ‘Dylan Dog Color Fest’ n. 16
Disegni di Arturo Lauria
© Sergio Bonelli Editore

Non a caso questo nuovo esperimento viene condotto su una testata, il Color Fest, collaterale alla serie regolare mensile e che aveva già offerto sperimentazioni nella scelta di autori esordienti e, più in generale, di penne e pennini narrativamente o esteticamente lontani dallo stile ‘canonico’ di Dylan Dog, sebbene temperati dalla compresenza con molte “colonne” della casa editrice. Questo numero si qualifica in particolare come il più anomalo rispetto ad una testata la quale, con qualche eccezione, si è in realtà limitata a presentare, in forma di racconti brevi, storie piuttosto classiche rispetto allo ‘standard’, con l’aggiunta – va detto, a volte superflua – del colore. Le ottime premesse, tuttavia, appaiono solo in parte mantenute.

Rispetto all’ibrido poco riuscito a firma Ratigher – non abbastanza personale da rappresentare una rottura, né abbastanza classico per offrirsi come una buona avventura “in continuità” del personaggio – l’approccio di Ausonia, Akab e Marco Galli è apparentemente meno compromissorio. Anche e soprattutto per una scelta interessante e non scontata: lasciare esprimersi i tre come autori unici, responsabili sia della sceneggiatura che dei disegni (e dei colori).

A valle della lettura, quel che bisogna riconoscere è innanzitutto un fatto: i tre autori hanno dimostrato una buona conoscenza del personaggio e, pur muovendosi spesso in zone liminali alla sua mitologia, hanno deciso – probabilmente anche per via di vincoli editoriali ferrei – di non “stravolgerlo” in nome di una dissacrazione che sarebbe risultata fuori luogo (nonostante qualche dichiarazione lasciasse presagire una minore aderenza alla formula dylandoghiana). I pregi elencati sono però presto pronti a tramutarsi in difetti quando, superato lo shock grafico – dal comunque tenue impatto – ci si rende conto di ritrovarsi di fronte a storie fin troppo in linea con molte altre già viste, soprattutto sulle testate collaterali. Andiamo però con ordine.

Sir Bone – Abiti su misura

Soggetto, sceneggiatura, disegni e colori: Ausonia

Dylan apre l’armadio: i suoi vestiti, composti di carne, si stanno decomponendo… Meno male che, come tutti gli anni, arriva la signorina Claretta a portarlo nell’oscuro antro dove vengono appositamente fabbricati.

[dal sito della casa editrice]

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Da ‘Dylan Dog Color Fest’ n. 16
Disegni e colori di Ausonia
© Sergio Bonelli Editore

Ausonia sceglie un approccio piuttosto classico, rifacendosi alle narrazioni che ripercorrono aspetti particolari dell’origine del mito dell’eroe, concentrandosi in questa occasione sui vestiti di Dylan, uno degli aspetti maggiormente iconici e caratterizzanti del personaggio: la sua divisa, più che il suo costume, immutabile come il completo alla marinara di Paperino. L’autore parte  probabilmente da una suggestione derivata dal dipinto Il modello rosso (1935) di René Magritte – con cui l’autore intrattiene un dialogo comunque veloce, se non superficiale – così come da un immaginario globale che passa dalle atrocità naziste, attraversa gli efferati delitti del serial killer Ed Stein arrivando infine al cinema, con pellicole come Non aprite quella porta Il silenzio degli innocenti. Un immaginario che Ausonia, coerentemente con l’universo di Dylan Dog, declina ironicamente in chiave ultraterrena, infarcendo il proprio racconto di simbologie e rimandi occulti, senza preoccuparsi di essere filologicamente corretto.

Sotto molti aspetti Sir Bone è un’avventura perfettamente e mimeticamente dylandoghiana, anzi, sclaviana, a partire dalla rappresentazione dell’inferno, visto come un noioso e ritualizzato specchio del nostro mondo, passando per la citazione magrittiana d’obbligo (come in Golconda, ma non solo) e arrivando ad una – tiepida – satira del mondo della sartoria d’alta moda, che sembra riportare degli echi da Fashion Beast di Alan Moore.

Dylan Dog attraversa questa avventura come un turista, senza ricoprire davvero un ruolo che non sia quello di auto-rappresentare se stesso. Al di là di questo Sir Bone scorre via piacevole, riuscendo anche ad essere graffiante – la satira del buonismo dylandoghiano che si esplicita nella preoccupazione che i capri antropomorfi che si occupano della conciatura dei vestiti siano sfruttati – e raggiungendo i suoi migliori picchi quando umanizza maggiormente i propri personaggi, come nel tenero dialogo conclusivo fra Dylan e la sua guida. Resta però la pochezza dello spunto iniziale – Dylan che veste dei vestiti fatti di carne – che non riesce mai a stratificarsi e viene utilizzato come pretesto per creare una serie di immagini che non riescono ad essere, al netto dell’approccio ironico, né raccapriccianti né terrorizzanti. Questo anche a causa di uno stile grafico incerto fra caricatura (Claretta, la guida di Dylan e altri personaggi demoniaci) e la resa “fashion” dello stesso Dylan.

La versatilità dimostrata dall’autore in altre occasioni gli avrebbe forse consentito di sedersi meno e sperimentare maggiormente uno stile pensato appositamente per il personaggio, più che giocare di recupero come sembra aver fatto qui. Il finale, un po’ barzellettistico, vanifica in parte quel che di buono c’era nelle tavole precedenti.

Grick Grick

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Da ‘Dylan Dog Color Fest’ n. 16
Disegni e colori di Marco Galli
© Sergio Bonelli Editore

Soggetto, sceneggiatura, disegni e colori: Marco Galli

Un demone sovrappeso e incapace di muoversi è misteriosamente finito nello studio dell’Indagatore dell’Incubo… Come fare a liberarsene al più presto, dato che il mantenimento dell’incredibile creatura sta costando caro a Dylan?

[dal sito della casa editrice]

Marco Galli, pur tenendo ben presente le caratteristiche del personaggio si dimostra più coraggioso. Graficamente il suo è un Dylan al limite della parodia – emaciato, quasi tisico, con grandi orecchie a sventola a incorniciare il viso affilato – ma, d’altro canto, la scelta contemporaneamente lo allontana, senza rimpianti, da alcune caratterizzazioni troppo scultoree che in passato ne avevano tradito lo spirito.

La trama è sottile ma, come nel caso del racconto precedente, perfettamente sclaviana (in particolare lo Sclavi dei racconti brevi): l’inserimento di un corpo estraneo in un contesto apparentemente sereno porta instabilità e inquietudine, riuscendo a fare emergere tutte le contraddizioni e le mostruosità fino a quel momento rimaste sepolte. Non manca inoltre la critica alla funzione disumanizzante dei social network, che sostituiscono, nell’oggi, la televisione e i mass media degli anni Ottanta.

Le gabbie grafiche, inusuali per un prodotto Bonelli, non sono costruite allo scopo di rompere con una tradizione, ma progettate funzionalmente al racconto condotto dall’autore, che procede soprattutto per accumulo di dettagli e di primissimi piani  riuscendo a restituire, come nel caso della sequenza della presentazione del demone, un senso di ribrezzo fisico, materico, che si rafforza anche grazie alla delicata e al tempo stesso acida colorazione ad acquerello. Nei rari momenti in cui il campo di visione si apre (in particolar modo in occasione di un’inquadratura dall’alto), il vuoto dei campi lunghi e medi, nel contrasto che vive con le lunghe sequenze di dettagli, non restituisce respiro e ariosità ma, piuttosto, un rafforzato senso di angoscia e smarrimento. Splendido, inoltre, l’uso cinematografico e antinaturalistico delle ombre.

Claustrophobia

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Da ‘Dylan Dog Color Fest’ n. 16
Disegni e colori di Akab
© Sergio Bonelli Editore

Soggetto, sceneggiatura, disegni e colori: Aka B

Qualcuno ha fatto finire l’Inquilino di Craven Road in un profondo pozzo situato nel mezzo di un bosco, dal quale non c’è possibilità di fuga… Dylan deve tornare indietro con la memoria per capire chi sia stato a imprigionarlo in quel remoto buco…

[dal sito della casa editrice]

Anche Akab, in Claustrophobia, come nel precedente racconto di Ausonia, preferisce concentrarsi sul mito di Dylan, isolandolo in un pozzo e costringendolo a confrontarsi con i propri fantasmi e le proprie contraddizioni: il sospetto di ciarlataneria, l’alcolismo, gli amori che forse amori non sono ecc. Una lunga seduta di autoanalisi forzata che funziona molto bene dal punto di vista grafico-narrativo (Akab è abile nel raccontare uno spazio così ristretto e invariabile, così come l’angoscia di chi è costretto ad abitarlo) ma che non dice davvero niente di nuovo sul personaggio, sulle sue ossessioni e sulle sue ombre. Niente di più di quanto quasi trent’anni di narrazioni incentrate su Dylan Dog non abbiano già fatto emergere in maniera spesso più approfondita e originale, comunque.

Il lavoro di Akab somiglia dunque ad un compito condotto coscienziosamente e con competenza, ma senza il supporto né di una reale convinzione né di una reale necessità. Se il tentativo era quello di destrutturare il mito di Dylan Dog, il mito, almeno per questa volta, sopravvive benissimo all’impresa. Ad ogni modo quello di Akab, fra i tre qui presentati, è il racconto più fedele allo spirito e alla tradizione grafico-narrativa del personaggio. Persino quando la soggettività di Dylan esplode in lisergiche – e graficamente bellissime – visioni per poco più di tre tavole, non si avverte mai una reale sensazione di rottura ma, piuttosto di una affettuosa e apprezzabile continuità, pur nel rinnovamento. Del resto, un personaggio come Dylan, autoriflessivo, fragile, scettico fino alla noiosa e ripetitiva pedanteria, dubbioso prima della propria natura che di quella, esterna, del mondo, si rivela senza stupore impermeabile a quei tentativi atti a metterne in luce delle contraddizioni che sono già sotto gli occhi di tutti e che le narrazioni degli ultimi anni hanno deciso o di ignorare o di dare già per assodate, riducendole a ripetitivi accenni, segni, segnali concordati con un pubblico di affezionati.

Dylan Dog Color Fest n° 16 – Tre passi nel delirio
di Akab, Ausonia, Maro Galli
Sergio Bonelli Editore, 2016
96 pagine, 4,50 €

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