É ormai da qualche mese che si parla piuttosto spesso di Giulio “Batawp” Rincione. Dal suo futuro lavoro su Dylan Dog fino alla ‘trilogia dei Paperi’ è davvero un momento di grande crescita per il giovane fumettista siciliano, ormai – e giustamente – sulla bocca di tutti. Un percorso iniziato con il collettivo PeeShow e che ha trovato il suo ideale punto di svolta all’ultima edizione di Lucca Comics dove, sotto l’egida di Fumetti Crudi di Shockdom, è stato presentato al pubblico il lungo e complesso Paranoiæ. Una sorta di faticoso viaggio attraverso depressione e malattia narratoci con la gravità che certi argomenti meritano.
Certe cose, si capisce bene, non sono mai facili da affrontare. Così l’autore ha preferito evitare una sceneggiatura tradizionale, costruendo le fittissime pagine del volume su un susseguirsi sfiancante di ricordi, metafore, frammenti di visioni e spazi mentali. Una scelta sicuramente d’effetto, portata avanti con tale veemenza da andare a coinvolgere anche i rari segmenti ambientati nel mondo reale. Questi, seppur visti con occhio quasi esterno – anche se rimangono comunque narrati dal protagonista – ci paiono indistinguibili dalle sezioni più simboliche.
Come a dire che per certe persone, raggiungere una visione del mondo oggettiva è impossibile. Per quanto si possano sforzare, il loro sguardo rimarrà sempre troppo condizionato dal rumore e dalla cappa di disperazione nella loro testa. Una condizione disastrosa, impossibile da capire per chiunque non l’abbia mai provata sulla propria pelle. E non a caso l’universo contenuto in questo volume è allucinato, dai contorni sfumati e spesso inintellegibili. Come un sogno o un’allucinazione cui è impossibile sfuggire. Per poterlo raccontare, uno storytelling tradizionale non sarebbe sufficiente. Troppo distaccato e imparziale rispetto a una totale immersione nel microcosmo di chi certi problemi li vive giorno dopo giorno. Meglio dunque propendere per una tecnica pittorica ricca di sfumature, stratificazioni, suggestioni e accostamenti stridenti. Una scelta mirata, sicuramente efficace, ma nonostante questo con una debolezza: prendere forma all’ombra di chi certe cose le ha inventate.
Tanto per essere chiari, nonostante la carriera di Rincione sia solo all’inizio, è evidente che ci troviamo a discutere di un talento naturale, le cui capacità esecutive sono di tutto rispetto. Dai cambi di stile alle scelte cromatiche, è lapalissiano come ogni aspetto del volume risulti studiato in maniera maniacale, senza lasciare nulla al caso. Eppure, come abbiamo detto, un’enorme eminenza grigia si staglia su tutte le pagine. Parliamo ovviamente dell’influenza di Bill Sienkiewicz. Un tesoro inestimabile del fumetto trasformatosi negli anni, talvolta, in fardello soffocante. Una presenza che pare aleggiare fin troppo spesso quando una storia prova a misurarsi con aspetti legati al mondo della psiche.
Per capirci qualcosa, è forse il caso di fare un rapido excursus. Per raccontare la fulminante ascesa – e la stasi infinita – di questo importantissimo autore e ingombrante modello.
Primi passi nella psiche
Dopo il debutto sulle pagine di The Rampaging Hulk all’insegna del suo mentore Neal Adams, nel 1980 incomincia a farsi notare sulla fresca testata dedicata a Moon Knight dalla Marvel. Il suo stile è ancora acerbo eppure, per uno scherzo del destino, finisce comunque con il lavorare a un personaggio che potrebbe essere il simbolo di tutto il suo lavoro. Oscuro, psicologicamente disturbato, abbastanza onirico da prestarsi benissimo a stilizzazioni e a giochi grafici in grado di influenzare l’intera griglia della pagina. Sapendo cosa sarebbe arrivato più avanti, il Nostro non avrebbe potuto chiedere di meglio per affinare la sua poetica. Non a caso viene notato dal veterano Chris Claremont, in cerca di un nuovo artista per i suoi New Mutants dopo il ciclo di storie interpretate da Sal Buscema. Quello che lo sceneggiatore inglese ha in animo è una virata della testata verso territori più oscuri. Compresa l’esplorazione della psiche di imberbi eroi mutanti, in pieno angst adolescenziale e con diverse sortite nel misticismo più naif.
Il primo arco narrativo gestito dalla coppia di autori è quantomeno terremotante. Si tratta della nota e citatissima saga in cui la giovane cheyenne Danielle Moonstar rischia di perdere la vita affrontando un demoniaco/metaforico orso grizzly, già responsabile della morte dei suoi genitori. La sceneggiatura pare essere costruita su misura per permettere al disegnatore di esplodere in tutta la sua carica visionaria, trasformando la serie in qualcosa di simile agli X-Men visti attraverso gli occhi di Ralph Steadman. Le tavole si sporcano di tratti disturbanti, le proporzioni sfuggono alle regole del mondo fisico, astruse geometrie incominciano a farsi spazio tra linee esasperatamente istintive, compare il celebre lettering tremolante e la narrazione pura comincia a lasciare spazio alla suggestione meno intelligibile.
Anche se la sua gestione non toccherà più simili vette di orrore, è indubbio come la straordinaria mano di Sienkiewicz risulterà perfetta per rendere su carta – sfruttando ogni mezzo possibile – la collisione tra diversi mondi, in primo luogo quello fisico e quello psicologico. Ne è testimonianza il viaggio nelle fantasie adolescenziali del numero 22 di New Mutants, intitolato “Once Upon a Time” e benedetto da una copertina straordinaria, in cui tecniche e suggestioni convivono con un tale facilità da lasciare basiti.
La consacrazione con Elektra (e Frank Miller)
Tanto basta per finire nelle grazie di Frank Miller – all’epoca sulla cresta dell’onda – che decide di affidare al Nostro quella che sarà ricordata da tutti come la sua consacrazione definitiva: Elektra: Assassin. Una miniserie in otto numeri forse non adatta a tutti, ma che rappresenta in maniera innegabile uno dei tour de force stilistici più impressionanti della storia del fumetto americano. Rispetto a tutto quanto fatto in precedenza dal disegnatore, su queste pagine l’intelligibilità non viene mai messa al primo posto. Spiegava un tempo il geniale designer David Carson:
Solo perché qualcosa è leggibile non significa che comunichi. A maggior ragione non significa che comunichi la cosa giusta. Quindi, qual è il messaggio comunicato prima che il prodotto venga visto? Credo che a volte sia un’area sottovalutata.
Per l’ennesima volta la storia da narrare viene incontro alle esigenze del buon Bill, che si ritrova tra le mani una sceneggiatura grondante di ninja, cospirazioni, scontri a fuoco ed esplosioni, ma anche di sostanze psicotrope, ricordi indotti, visioni, vaneggiamenti e continua confusione tra piano reale e mentale. Tra le sue pagine è possibile trovare una serie di strumenti che ancora oggi sono la libreria di base di chiunque voglia parlare di psicosi nell’ambito del fumetto popolare: abbiamo i disegni infantili e sgraziati, l’alternanza di pagine dove l’aspetto pittorico si fa volutamente esplicito nel richiamare l’espressionismo astratto e altre dove si fa statuario e realista, esagerazioni grottesche come Nick Fury a cavallo di un enorme pistola, i volti riprodotti in serie, vignette fuse l’una nell’altra, un design degli ambienti allucinato e così via. Il tutto accompagnato dall’immancabile muro di didascalie interiori a sostituire il più consueto balloon dei dialoghi.
Lo strappo finale: Devil oltre il figurativo
L’esperimento funziona benissimo, guadagnando consensi praticamente ovunque. La coppia di autori decide quindi fare il passo successivo, eliminando dalla collaborazione seguente ogni forma di aggancio al mondo del fumetto popolare statunitense. Ed è proprio qui che vale la pena fermarsi un istante e iniziare a lasciare da parte l’agiografia in favore di un analisi più fredda e oggettiva. Il ventiquattresimo numero della collana Marvel Graphic Novel portava in copertina il magniloquente titolo di Daredevil: Amore e Guerra. Ancora una volta si parla di una storia dai forti risvolti introspettivi, dove il Diavolo di Hell’s Kitchen ha un ruolo marginale rispetto allo sfiancante duello psicologico tra i veri protagonisti della vicenda: Wilson Fisk e il Dr. Mondat. Boss della malavita il primo, luminare chiamato a guarire Vanessa – l’amatissima compagna del Kingpin – sotto minaccia di morte della sua stessa moglie il secondo.
La sceneggiatura pare seguire alla lettera le inclinazioni del disegnatore, permettendogli di arrivare finalmente allo strappo definitivo tra illustrazione figurativa funzionale al medium ed espressionismo più puro. Che, tanto per essere chiari e non cadere in letture troppo spinte, viene definito – da Wikipedia – come “la propensione di un artista a privilegiare, esasperandolo, il lato emotivo della realtà rispetto a quello percepibile oggettivamente”. E infatti in Amore e Guerra nulla appare come è realmente: tutto viene reso attraverso gli occhi dei personaggi.
Lo sguardo di Fisk non vede Vanessa come una semplice donna adagiata in un letto, ma come la bellissima Madonna di Munch. Lo stesso criminale, che passa da essere aguzzino a vittima, assume una forma assurda agli occhi di Mondat. Enorme, minaccioso, sproporzionato nella sua massa monolitica ed infinita. Eppure anche perso e non certo brillantissimo. Una sorta di Charlie Brown a capo di un cartello criminale multimilionario. Victor, il disturbato carceriere di Cheryl Mondat, viene dipinto come una sorta di babbuino incapace di contenere i propri istinti. E in effetti il personaggio ci viene descritto come dal bassissimo quoziente intellettivo – deve scriversi il nome della vittima per ricordarselo – e ossessionato dal sesso femminile.
Come ogni volta in cui si tirano in ballo metafore e simbolismi, il confine tra intuizioni geniali e kitsch è davvero labile, sospesi tra il voler essere comprensibili a tutti e il desiderio di seguire le proprie intuizioni più auliche. In questo caso certa faciloneria potrebbe essere giustificata dal fatto di dover comunque rimanere in ambito popolare. D’altro canto, il ricorrere continuamente a un citazionismo spicciolo non aiuta di certo a liberarsi dello spettro del populismo più ipocrita.
Nelle sessantaquattro pagine di Amore e Guerra trovano spazio futurismo (la città frastornante), Klimt e l’ Art Nouveau (l’amore per la bellezza, anche a livello interiore), il già citato Munch, Schiele (l’introspezione psicologica tramite le anatomie) e un sacco di altre influenze, tanto importanti quanto scontate nel loro essere utilizzate come una sorta di bigino dell’arte “alta”. Dando per scontato oltretutto che questa decrepita divisione possa avere ancora un significato, e che il fumetto non possa che guadagnarci dal vivere alla sua ombra. In ogni caso per il disegnatore è un trionfo, tanto da scaricare tutti i dubbi sulla qualità del lavoro – sorpresa – sulla sceneggiatura di Miller. Abbiamo quindi l’ennesima pietra miliare lungo il percorso di Sienkiewicz. Tanto luminosa da spingerlo al suo primo lavoro come autore completo.
Autore completo, psicosi completa
Stray Toasters è una miniserie uscita nel 1988 per Epic Comics (etichetta ‘adulta’ della Marvel) costruita attorno a una misteriosa catena di omicidi infantili. Non dovendo sottostare a nessuna regola legata a personaggi preesistenti, l’ormai famosissimo Bill si lascia completamente andare, inventano un mondo dove chiunque pare essere in balia di visioni e psicosi. Lo stesso criminologo chiamato a investigare è reduce da due anni di internamento in un manicomio. Partendo da questi presupposti l’autore dipinge una serie di pagine densissime, dando libero sfogo a tutta la propria immaginazione. Ogni personaggio, compresi un diavolo in vacanza a New York e un inquietante anziano assistito da volatili meccanici, vede il mondo a modo suo, restituendoci un guazzabuglio di suggestioni, stili e sottotrame intricatissimo. Spesso, tuttavia, davvero poco intelligibile.
A questo punto della carriera del Nostro vale però la pena fare un’ulteriore riflessione.
Sappiamo tutti quanto questo disegnatore sia stato importante e quanto abbia contribuito ad avvicinare al fumetto fonti di inspirazione fino ad allora lontanissime. Ma non per questo non possiamo non renderci conto di quanto nella sua vita abbia continuato a disegnare e “ridisegnare sempre lo stesso fumetto”. Qualcuno potrebbe obbiettare che questo è un tratto comune di un sacco di artisti – non solo nel fumetto – dotati di un’autorialità particolarmente compatta e importante, dimenticando però di come ci debba sempre essere una sorta di evoluzione interna al discorso. Pensiamo a un cineasta come John Carpenter, capace lungo la sua carriera di rigirare in continuazione lo stesso remake di Un dollaro d’onore, peraltro mancando pochissime volte l’appuntamento con il capolavoro. Sienkiewicz invece pare essersi autoimposto dei paletti inamovibili – la psicosi, l’onirico, la visione della realtà velata – e si sia limitato di volta in volta a renderli sempre più confusi e arzigogolati.
Fino a che punto si può parlare di ricerca, e quando invece inizia ad avanzare la maniera? Nel suo reiterare per anni e anni le stesse soluzioni l’autore è diventato una sorta di standard per chiunque, da lì in poi, si sarebbe apprestato a intraprendere lo stesso viaggio.
Sienkiewicz e Moore, coppia da grandi numeri
L’ultima grande occasione per riuscire a passare al livello successivo era rappresentata dal Big Numbers scritto da Alan Moore, uno dei più memorabili fumetti incompiuti della Storia.
Finalmente libero dal giogo delle major (la serie doveva uscire per l’allora appena nata Tundra Publishing di Kevin Eastman) e sotto il controllo maniacale dello scrittore di Northampton, Sienkiewicz si sarebbe trovato a lavorare su una storia che si basava su premesse di precisione e realismo assoluto. Spazi onirici ed eroi disturbati lasciavano il campo a una gelida analisi socioeconomica di una piccola cittadina inglese, il tutto sfruttando solo una rigidissima griglia fatta di vignette quadrate e balloon circolari. Ne escono solo due numeri, stilisticamente magnifici, a dimostrazione di come la sopraffina tecnica di Sienkiewicz sia assolutamente fuori discussione. Peccato che il disegnatore, per una complicata serie di ragioni (sintetizzate qui e qui) si sia tirato indietro, lasciando naufragare l’intero progetto e lasciando galleggiare sé stesso in un mare di piattezza e consuetudine.
Una prigione splendente
Da questo punto di vista non possiamo non vedere come autentica pietra tombale sulla sua carriera la serie Devil: Gli Ultimi Giorni, pubblicata da Marvel nel 2012. Nata dalla bizzarra idea di mettere al lavoro sulla stessa storia una sorta di supergruppo formato da Brian M. Bendis, Alex Maleev, David Mack, Bill Sinkiewicz e Klaus Janson, si tratta di poco più di un discreto divertissement basato su uno spunto da Orson Welles e sui cliché noir del diavolo di Hell’s Kitchen. Il Nostro si sarebbe dovuto limitare a curare le chine per le tavole di Janson, svolgendo invero un lavoro eccellente, ma viene ben presto promosso sul campo. Alcune pagine particolari sarebbero infatti state integralmente gestite da lui. Indovinate quali? Esatto, i flashback.
In un’intervista al sito pop-topia.com l’autore stesso spiega questa scelta come «l’intento di dare uno strappo definitivo alla realtà di tutti i giorni che le tavole di Klaus dovevano raccontare, così come di dare l’impressione di un flashback». Aggiungendo che «la distribuzione delle pagine – chi disegna o dipinge cosa – sono determinate da Brian e David ma anche dai personaggi o dalle linee narrative con cui un particolare artista si identifica di più». Anche in un contesto dove avrebbe dovuto fare tutt’altro, il buon Bill si ritrova a interpretare la parodia di sé stesso, ormai prigioniero del proprio manierismo.
Bill Sienkiewicz, l’anti-classico divenuto classico
Ma se il suo lavoro ha avuto su lui stesso conseguenze tanto devastanti, cosa ha lasciato a chi è venuto dopo? Una sorta di libreria a cui attingere ogni volta si voglia parlare di certi temi, e da cui anche il talento di Rincione ha finito per dipendere. Con questo non certo per sminuire Paranoiæ – un lavoro ricco di spunti interessanti, sentito e in un certo senso privo di compromessi – ma per riflettere più ampiamente su come l’influenza di un grande autore, anche nel caso di un convinto sperimentatore, possa generare un nuovo standard. In questo caso, uno standard paradossale, perché in qualche modo “standard della sperimentazione”, quasi uno “standard del non-standard”. Ma pur sempre uno standard, con tutti i rischi che questo porta con sé: rispettare e stimare Sienkiewicz è forse persino doveroso; accettarlo passivamente, no.
Se volessimo qualche altro esempio recente di come l’espressionismo di Sienkiewicz abbia ormai permeato in modo indelebile il mestiere di fumettisti di tutto il mondo, potremmo pensare al pure straordinario Jock, sia sulle pagine di Batman (è stato il disegnatore ospite del numero 44 della serie, totalmente incentrato sui flashback) che su quelle di Wytches. Due titoli in cui il concetto di paranoia e psicosi sono assolutamente presenti, se non del tutto protagonisti. Oppure pensiamo ad alcune tavole pittoriche di Lrnz su Golem, indispensabili per permetterci di entrare nel mondo onirico del protagonista. Gli acquerelli di Dustin Nguyen su Descender, serie fantascientifica in cui i robot sognano e hanno ricordi d’infanzia. O ancora il volto deturpato di Dylan Dog a opera di Alessandro Baggi all’interno di una importante sequenza de In fondo al male, dove il tema rimane quello dell’identità perduta. Insomma, Rincione ha fatto le proprie scelte, che significa anche essere in ottima compagnia.
In fin dei conti, quel che è importante sottolineare è che l’approccio o il “linguaggio” sienkiewicziano continua ad offrire una potente risorsa per mettere su pagina aspetti non proprio semplici – e per questo motivo spesso relegati a produzioni più autoriali, o nascosti sotto una coltre metaforica piuttosto sviante – mantenendo un approccio tutto sommato popolare. D’altro canto, però, il rischio c’è, e non è troppo diverso dai limiti del minimalismo a tutti i costi di certo fumetto (cosiddetto) indie. Perché se barocchismi e svolazzi pittorici ci paiono sempre uguali a sé stessi, troppo fragorosi e didascalici nel restituirci una visione del mondo che pare prigioniera del cliché da artista disturbato, non possiamo certo assolvere completamente chi risponde facendo lo stesso errore, ma al contrario.
Vale la pena ricordare come solo lo scorso anno Taddei e Angelini ci abbiano consegnato Anubi. Un lavoro incredibile, dove gli stessi temi trattati in questo articolo vengono resi con uno stile scevro da ogni forma di abbellimento superfluo. Per quanto il risultato sia stato strepitoso, è difficile non percepire anche in quel caso lo spettro della maniera. Meno legata al singolo autore, certo, ma comunque prevedibile e legata a sicuri luoghi comuni, probabilmente destinati a esaurirsi nel giro di qualche anno.
Pensiamo, per esempio, al cliché anni ’90 del trip acido nel momento di massima epifania di un personaggio. Ricordiamo con commozione il viaggio di Homer Simpson in seguito all’ingestione del temibile Guatemalan Insanity Pepper, l’intermezzo demoniaco a opera di Rob Zombie in Beavis & Butt-Head alla conquista dell’America o l’incontro tra Madman e il suo spirito guida Clint Eastwood nell’omonima serie di Mike Allred. Sembrava un filone destinato a durare per sempre – foriero di ottime soluzioni narrative instillate in un apparato grafico divertito e visionario – e invece ha finito per esaurirsi. Al limite lo possiamo ritrovare in qualche follia di Grant Morrison o nell’ultimo tomo di Gatto Mondadory del dr. Pira. Due esempi, va da sé, troppo atipici per essere presi come dati di fatto.
Bill invece è ancora prepotentemente tra noi, elevandosi ormai ad archetipo. Ancora oggi, nonostante non sia più attivo come prima, impone la sua visione dell’interno della nostra testa. E forse la lezione del “caso Sienkiewicz” è proprio questa: se fare ricerca è spingersi oltre un limite, e la maniera è continuare a riprodurre quel risultato, il destino degli sperimentatori è fare scuola. Studiare è bello e utile. Ma prima o poi, tocca contestare anche i grandi modelli. Incluso Bill Sienkiewicz.