Per la rubrica Lo scaffale di…, a commentarci le sue letture più recenti, questa settimana ospitiamo Andrea Accardi, disegnatore ormai in forza a Sergio Bonelli Editore: dopo i due episodi delle Storie realizzati in coppia con Roberto Recchioni (e raccolti da Bao nel volume Chanbara. La via del samurai, edito a dicembre 2015), Andrea è al lavoro ora sul primo episodio di una nuova serie regolare con lo stesso sceneggiatore romano e le stesse ambientazioni nipponiche. Nell’attesa di saperne di più, però, probabilmente vedremo i suoi disegni sulla nuova serie di Kriminal pubblicata da Mondadori Comics.
Prima di partire con il suo elenco, Andrea ci ha tenuto a una breve premessa: «Seguo con curiosità questa rubrica e a leggerla ci si rende conto che non esiste un criterio preciso e ognuno interpreta la chiamata di Fumettologica a proprio uso e consumo. Io la intendo così, come una fotografia del momento. Non capita spesso, ma i libri che ho sul tavolo in questo momento, tra novità e riletture, sono ben più di cinque. Escludendo quelli che andrò a presentare, ci sono le ultime due uscite dei saldatori The Walking Dead e Outcast, c’è l’ultimo libro di Manuel Fior Le variazioni d’Orsay edito da Coconino, di cui anche l’irresistibile Come lo feci di Gipi, i Baotiful L’estate diabolika e i volumi 4 e 5 di Saga, i due volumi di Pippo Reporter editi da Panini, il magnificente volume di Alessandro Distribuzioni Magnus prima di Magnus, il gothic/dark/glam Dylan Dog n. 348 firmato dalla coppia Baraldi/Mari, nonché l’edizione originale di Kamui gaiden di Shirato Sanpei della Shogakukan. Ma che 5 ė il numero perfetto lo diceva anche Igort, quindi proprio da lui comincio la mia lista.»
Quaderni giapponesi, di Igort (Coconino Press)
Igort non lo sa, o forse lo sa, non ha importanza, ma mi ha svezzato, e non solamente perché è stato il primo Autore che ho conosciuto di persona. A Igort, dopo Moebius*, da imberbe lettore ebbi l’ardire di riconoscere uno spiccato interesse per il manga giapponese, fumetto di cui io nell’89 mi sentivo un elitario (ma in verità modestissimo) fruitore. A Bologna mi ci ero trasferito per il fermento culturale che si viveva in città, attività vivacizzata nel fumetto proprio dal gruppo Valvoline di cui Igort fu uno dei fondatori. Sempre da Igort, stavolta in veste di giurato, venni segnalato per la sezione fumetto al concorso Iceberg e in seguito, durante un seminario in Accademia di Belle Arti di Bologna a cui mi ero iscritto, da lui venni letteralmente cercato tra il pubblico; imbarazzo, onore e gloria per me. Mi spiegò poi che la menzione mi era valsa non tanto per la qualità delle tavole, acerbe, ma per il mio meticciato stilistico; il mio celeberrimo Cave canem alias Devilman di Go Nagai, ma in forma di cane.
In ogni caso sarebbero passati parecchi anni prima che io facessi qualcosa di decente, e nel frattempo ebbi la fortuna di rivedere diverse volte l’eclettico cantante degli Slava Trudu, fare il lettering addirittura del suo Il letargo dei sentimenti per l’edizione di Granata Press, casa editrice in cui avevo cominciato a lavorare (questa fu la prima fortuna invero), e ammirare il suo percorso artistico e professionale verso il Giappone, stimata meta delle mie prime ingenue aspirazioni fumettistiche. Così oggi Quaderni giapponesi completa il giro. Igort disegna la sua esperienza in terra aliena, e i leggendari aneddoti tramandati finora tra amici e colleghi diventano un libro. Interessantissimo!
Oltre alle curiose vicende del protagonista alle prese col mondo editoriale d’oltreoceano – i rapporti con i famosi editor sono ormai nelle statistiche – Igort ci presenta dal vivo autori, personaggi letterari e storie dell’ambito paese. Il tutto filtrato dalla sua fortissima personalità, senza risparmiarci soggettive considerazioni e intime sensazioni. Il senso di dolce malinconia che lo avvolge mentre passeggia solitario per le strade di una Tokyo senza tempo, conferma il mio sentimento nostalgico per un passato perduto di una terra mai visitata, quasi a dar ragione alla mia inspiegabile ritrosia nel riuscire ad organizzare il viaggio della mia vita in Giappone. Forse ho solo paura di scoprire che nella mia vita precedente vendevo daikon in un antico quartiere di Kyoto. Leggere per credere.
*Ne I giardini di Edena, Stel incontra un gigantesco mostro rettiliforme (a mio parere desunto dai mostri multicefalo di nagaiana memoria) che emette nipponiche onomatopee. Per non parlare della rivelatrice pin up di Nausicaa di Miyazaki allegata all’albo della Viz.
Rocky Joe (Ashita no Joe), di Asao Takamori e Tetsuya Chiba (Star Comics)
Non l’avevo letto, lo confesso! Nonostante avessi a lungo lavorato nella redazione dei Kappa Boys che per conto della Star Comics avevano editato il manga di Asao Takamori e Tetsuya Chiba, l’avevo lasciato passare! Penso di averlo snobbato a causa del modo discontinuo in cui avevo seguito l’anime trasmesso nei primissimi anni Ottanta. Mi piaceva però moltissimo il segno espressivo e dinamico che caratterizzava l’animazione, cosa che non avevo ritrovato nei primi capitoli del fumetto. Era la mia opinione, evidentemente in quel periodo avevo gli occhi foderati da Shirow e Otomo, sbagliavo. Oggi penso che il segno di Chiba sia corposo e denso, e via via sempre più drammatico ed espressivo. Il montaggio degli incontri sul ring, il movimento dei corpi e la velocità delle azioni sono state e sono tutt’ora da manuale. La sua capacità di comporre le scene di massa, ricreando profondità e volume è ancora cosa rara.
È un recupero appassionante. La storia del pugile Joe Yabuki oltre ad essere il romanzo di formazione di un teppista di periferia che si immola al suo domani, evoca lo spirito di una generazione, quella degli anni Settanta, che tra mille contraddizioni si è riconosciuta non solo nell’attitudine alla disobbedienza del protagonista, ma anche nel ruolo di un altro personaggio della serie, Tooru Rikishi, per la cui morte venne organizzato un vero funerale. Desiderio di elevazione, integrità, abnegazione e dedizione assoluta sono i temi che pervadono la serie e se state pensando ai samurai non sbagliate. I personaggi di questo manga incedono tra ambizioni personali, regole morali e codici d’onore, in fondo prerogativa profonda dell’anima giapponese.
Samurai Executioner, di Kozue Koike e Goseki Kojima (RW Goen)
A proposito di codici d’onore e bushido. Yoshitsugu, terzo Asaemon Yamada, è un saggiatore di spade per conto dello shogunato. Sebbene il suo non sia un mero lavoro da boia, si trova sovente a dover eseguire delle condanne dall’esito scontato. Il set in cui si svolgono le varie esecuzioni, così si chiamano i capitoli di questa serie, è il “pacifico” periodo Edo, tanto affascinante e ricco di vicende storiche e artistiche quanto spietato e crudele. La premiata coppia del più famoso e contemporaneo Lone Wolf and Cub (Kozure Ookami) con questo manga continua ad esplorare un’epoca, quella feudale appunto, narrando le vicissitudini dei condannati a morte, spesso a ritroso, dalla pena al movente attraverso il crimine.
Kazuo Koike, non stupisce né smentisce la sua inclinazione al turpe e al grottesco, ricostruisce quasi una sorta di prontuario dei delitti e delle pene. Ma il nostro tagliateste non è un semplice pretesto per un affresco più ampio, la sua storia personale, come la lama tagliente delle katane che è tenuto a collaudare, incrocia talvolta quella delle sventurate vittime. Koike inoltre riesce a preservarlo dalla prevedibilità, malgrado il carattere intrinseco del personaggio chiuso nei rigidi codici d’obbedienza e lealtà della sua classe sociale, trovando sempre degli espedienti plausibili che ne giustificano l’agire. Per quanto riguarda i disegni di Goseki Kojima, che dire, amo tutto di lui, adoro il modo in cui rende la pelle morbida e bianca delle donne e giuro di averne sentito anche il profumo, spesso mischiato con l’odore del sangue, invero. A mio parere si contende il titolo di maestro del Jidaimono, insieme a Sanpei Shirato, Hiroshi Hirata e Takao Saito.
Shigurui, di Norio Nanjou e Takayuki Yamaguchi (Panini Comics)
Se state pensando che io sia un lettore monotematico vi sbagliate, ma solo un po’. Quando lavoro ad una storia (parlo della serie Chanbara scritta da Roberto Recchioni) non posso che immergermi totalmente nella sua atmosfera. Questo significa che il mio studio è tappezzato di immagini di genere, libri con le riproduzioni di stampe antiche dei maestri giapponesi, vari libroni incomprensibili con i disegni degli illustratori di epoca Taisho e Showa, e manga di svariati autori che parlano dell’argomento. Non mancano certo le visioni occidentali dell’epoca in questione con i fumetti di autori italiani e francesi. Per non parlare poi dei numerosi film Jidaigeki. Tutto questo compone la mia “documentazione”, ed è chiaro che sfoglio e riguardo in continuazione tutto questo materiale. La quarta lettura del mio scaffale ė infatti una rilettura. Ci sono alcune opere che ciclicamente amo rileggere. Questa, insieme ai Paperi di Barks, La compagnia della forca di Magnus, Kiseiju di Itoshi Iwaki e Gundam Origini di Yas, è una di quelle.
Non ci provo neanche a riassumere la trama di questo crudissimo shonen, che per quanto mi riguarda è il trionfo della disabilità, declinata in tutti i sensi. La vicenda narrata, le ragioni di un odio/amore che portano ad un duello tra due samurai, si svolge durante un già citato periodo Edo e corre avanti e indietro tra flashback e tempo reale verso un inesorabile finale. È la terza volta che riprendo in mano questa storia e puntualmente ricado nella stessa trance che mi sembra subiscano i personaggi del manga, privi di una propria volontà, quasi in balia di un esasperato senso di onore e lealtà (quante volte ho ripetuto questi termini oggi?) che trascina tutto e tutti in una spirale di follia dalla conclusione perfetta. Non si salva niente! Se Sanpei Shirato ritrae un’epoca cupa e opprimente nelle sue note saghe di ninja e samurai, Norio Nanjio ci mostra l’inferno. Insieme al mio gusto per il malato, questo racconto in costume soddisfa ampiamente la mia curiosità per il dettaglio (sarà anche questa una malattia?). Takayuki Yamaguchi è un maniaco della precisione. La possibilità di poter contare il numero degli intrecci della paglia di riso con cui sono fatti gli zori, o la fattezza esatta dello shinogi, la costolatura della spada è per me un godimento estremo, nonché fonte di masochistica depressione, in quanto incapace di riproporli come vorrei nei miei disegni.
Il porto proibito, di Teresa Radice e Stefano Turconi (Bao Publishing)
Finisco in bellezza e leggiadra freschezza. Lo tenevo d’occhio da un po’, ma per i motivi di cui sopra temporeggiavo sull’acquisto di questo volume che presagivo emotivamente impegnativo. Anni or sono sono stato un insaziabile lettore della saga marinaresca di Patrick O’Brian. Mio nonno al cantiere navale di Palermo era un mastro d’ascia, ma se dico che il responsabile di questo mio amore in realtà fu il Devilman di Go Nagai dovete credermi. Il mio timoroso interesse per la deviazione, la violenza e il male mi portò a leggere Il signore delle mosche e poi la grande trilogia del mare Ai confini della Terra di William Golding. In seguito non poté mancare Lord Jim di Conrad, L’isola del tesoro di Stevenson e l’altrettanto splendido La vera storia del pirata Long John Silver di Björn Larsson, per finire a Primo comando di O’Brian, il primo dei 20 (21 con l’incompiuto) libri della saga di Aubrey e Maturin.
Ho conosciuto i due autori de Il porto proibito Teresa Radice e Stefano Turconi in quest’ultima Lucca, in occasione della mia collaborazione con Bao Publishing; abbiamo anzi condiviso lo stesso appartamento. I due sono amabili e generosi conversatori che riescono a trasmettere epidermicamente la stessa passione che infondono nei loro lavori. Per questo romanzo grafico hanno sognato, letto e viaggiato, respirando la stessa aria e camminando nella stessa terra dei loro personaggi. Già a sentirli raccontare la gestazione dell’opera mi si era riaccesa la fiamma ed ero in estasi ancor prima di leggere il libro. Questo poi, a dirla tutta, mi è stato infine omaggiato dall’amico editore. Ho cominciato la lettura una volta salito sul treno che da Lucca mi riportava a Bologna, ritrovando tutti gli ingredienti della mia amena passione.
L’avventura del giovane Abel, naufrago e immemore non mi ha lasciato il tempo di respirare, preso dalle continue emozioni e avvolto dal fumo della battaglia ho continuato a leggere fino alla fine questa perla dell’oceano disegnato. Il dettaglio e la cura delle attrezzature nautiche dell’epoca, seppur con lo stile dinamico ed espressivo di Stefano Turconi, ha la stessa capacità realistica del grande Bourgeon ne I passeggeri del vento. La sua linea è morbida e ammaliante, seducente e sinuosa come le curve della splendida Rebecca, l’iniziatrice. Teresa Radice dal canto suo è una raffinatissima scrittrice, che gioca con eleganza su tutti i registri delle emozioni umane, al pari del suo compagno di vita e di lavoro. Ultima nota di merito va all’edizione, bellissima e ricercata, che ricrea nel disegno del carattere di stampa, nell’impostazione grafica e nelle guardie i tomi di un’altra era della stampa, e che mi ricorda tantissimo la mia copia anastatica del Vocabolario marinaresco del Comandante Conte Carlo Bardesono di Rigras.
Amen.